Lì per lì mi sono sentito un verme leggendo su Libero la protesta, anzi l’indignazione di Azzurra Barbuto per il silenzio caduto sull’autista del conducente dell’auto del contingente delle Nazioni Unite morto per primo nell’assalto che è poi costata
la vita all’ambasciatore d’Italia nella Repubblica del Congo Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, addetto alla sua sicurezza. Le cui salme sono state accolte a Roma dal presidente del Consiglio. Silenzio sull’autista, ignorato anche nelle espressioni di cordoglio e di esecrazione delle autorità italiane solo perché congolese e nero. Si chiamava Mustapha Milambo, si è poi saputo.
Mi sono sentito un verme per avere appena scritto anch’io dell’orribile fine dei nostri due connazionali ignorando quella dell’autista. Ma poi mi sono ripreso dal colpo, o dal senso di colpa, quando ho letto le
motivazioni dell’indignazione della giornalista di Libero. Secondo la quale “i neri, per i buonisti, meritano misericordia solo in qualità di migranti clandestini, allorché si tratta di accoglierli per poi scaricarli sulle strade come spazzatura, o quando c’è da inginocchiarsi in tv o nelle aule parlamentari per rendere omaggio alla memoria di George Floyd, afroamericano soffocato la scorsa estate da un poliziotto durante un arresto”.
Eh no, cara e indignata signora. A queste condizioni, cioè con queste motivazioni e questi abbinamenti, non ci sto. E non avverto nessun senso di colpa, o almeno nessun senso di colpa maggiore di quello che dovrebbero avvertire ufficiali, funzionari e quant’altri delle Nazioni Unite e del governo congolese per non avere avvertito il bisogno di rivelare subito l’identità, cioè nome e cognome, dello sfortunato autista morto ammazzato per primo nell’ennesimo episodio di violenza brutale per prevenire i quali sono impiegati in quel lontano Paese ventimila caschi blu e spesi ogni anno un miliardo di dollari. Ce lo ha raccontato Domenico Quirico sulla Stampa scrivendo giustamente della missione di pace più costosa e tradita disposta a New York nel palazzo di vetro più famoso del mondo. Del resto, neppure la signora di Libero scrivendone ha potuto fare il nome dell’autista ucciso.
Non saranno gli argomenti di Azzurra Barbuto a farmi pentire, da “buonista” come la signora ha liquidato chi non la pensa come lei sulla vicenda congolese e dintorni, o non si allinea alla sua
sensibilità, di sostenere il dovere di soccorrere i migranti di colore, diciamo così, che spesso finiscono sulla strada come “spazzatura” fuggendo spontaneamente dai luoghi di raccolta, e non cacciati da aguzzini di Stato.
Né mi pento di avere condiviso l’indignazione che meritava la morte di George Flojd, procurata in terra americana, cioè nell’Occidente libero e virtuoso, da un poliziotto indegno della divisa che portava, con la complicità di colleghi della stessa risma.
Vanno bene le lacrime, anche quelle di circostanza, e quel di più di commozione, anticonformismo e altro ancora che si avverte nelle polemiche giornalistiche e politiche, ma ci deve pur essere un limite, oltrepassato il quale certa moneta è solo farlocca. O la carità diventa pelosa.
Ripreso da http://www.startmag.it
Una dei quali -Raffaella Andreola- ha contestato la legittimità del reggente scaduto del movimento 5 Stelle, Vito Crimi. Che invece ha fatto subito da spalla a un Grillo furente e buttafuori, riproponendosi nell’urticante definizione di “gerarca minore” affibbiatagli dal compianto e storico direttore e conduttore di Radioradicale Massimo Bordin. Erano i tempi in cui Crimi da sottosegretario di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi era mobilitato contro l’emittente creata da Marco Pannella.
naturalmente con l’Italia Viva di Renzi, pur avendo entrambe lo stesso acronimo che dannatamente può spingere all’errore quando se ne parla, è relegata ormai tra le frattaglie d’archivio del Senato. Ma potrebbe risultare utile ai dissidenti grillini, specie a quelli che ancora ricordano gli eccellenti rapporti d’amicizia e di lavoro avuti a suo tempo da Di Pietro con il cofondatore del movimento delle 5 stelle Gianroberto Casaleggio.
in crisi di consensi. E poi, essi sembravano francamente attratti più che dagli ex, dai
magistrati ancora in servizio, come il pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo. Che spopolava come ospite fra i grillini, pur essendo destinato a procurare loro cocenti delusioni o imbarazzi, per esempio contestando pubblicamente come consigliere superiore della Magistratura il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che gli aveva offerto la direzione del Dipartimento penitenziario all’arrivo in via Arenula ma poi preferì un altro. Poco mancò che la faccenda non costasse il posto all’allora guardasigilli, una volta esploso il caso, per la solita tempestività con la quale Renzi lo cavalcò, salvo rinunciarvi, sempre come al solito, all’ultimo momento.
politica ed essendo stato invece un altro -l’allora presidente del Consiglio in persona Giulio Andreotti- l’obiettivo grosso delle ricerche condotte da Di Pietro come sostituto procuratore della Repubblica a Milano. Era sull’Andreotti punto sostanziale di riferimento delle imprese che si spartivano gli appalti, specie nei territori controllati dalla mafia, che Di Pietro pensava di poter mettere clamorosamente e metaforicamente la mani addosso.