Mario Draghi è riuscito già a scomporre così tanto gli schieramenti di questa diciottesima legislatura che a contrastarlo davvero sulla strada della formazione del nuovo governo, quello di “alto profilo” e svincolato dalle “formule” che gli ha chiesto il presidente della Repubblica, è rimasta la sola Giorgia Meloni nella rappresentazione sommaria, diciamo così, del vignettista Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera. Sommaria, perché mancano accanto alla Meloni quei
grillini -non si può ancora sapere quanti esattamente- che resistono ancora alla svolta ordinata, autorizzata, suggerita, come preferite, da Beppe Grillo in persona, col supporto del presidente del Consiglio uscente Giuseppe Conte. Che è sceso in piazza a incoraggiare Draghi parlando dietro un tavolino, sullo sfondo di Montecitorio, che forse lo ha fatto scambiare da qualche passante per un venditore di pentole, o di microfoni.
La svolta dei vertici pentastellati -fra i quali naturalmente Luigi Di Maio, che cerca di guadagnarsi sul terreno il pragmatismo andreottiano attribuitogli tempo fa con generosa intuizione dal direttore
del Corriere Luciano Fontana- ha messo particolarmente in crisi Marco Travaglio. Che sul suo Fatto Quotidiano ha protestato
contro “il suicidio assistito” degli amici in un editoriale che gli è venuto anche un pò sgrammaticato, con un “che” di troppo d’altronde comprensibile per lo stato d’animo
nel quale lo ha scritto. Diavoli di amici, non hanno seguito il suo consiglio di opporre a Draghi quel “no cortese ma fermo” che sarebbe stato necessario almeno per salvare un po’ della faccia originaria, dopo tutte le giravolte seguite alle elezioni del 2018.
Ancora più forte sul Fatto Quotidiano è stata la reazione del vignettista Riccardo Mannelli, che se l’è presa col presidente della Repubblica Sergio Mattarella scorgendo nell’incarico a Draghi tracce di golpismo, aggravate -temo per Mannelli- dalla fila che si è già creata davanti alla porta del presidente
del Consiglio incaricato per salire a bordo del suo governo, secondo lo spietato titolo del manifesto. D’altronde solo gli sprovveduti, nelle condizioni in cui si trova un Paese stretto fra varie emergenze, potevano prevedere qualcosa di diverso da ciò che si sta verificando attorno alla decisione del capo dello Stato di ricorrere alla riserva maggiore della Repubblica. Che solo un pazzo avrebbe potuto
lasciare inoperosa, dopo la storica presidenza della Banca Centrale Europea, nell’ufficio onorifico di governatore emerito della Banca d’Italia o nella lista dei consulenti, o quasi, del Papa come esponente della Pontificia Accademia delle scienze sociali.
Tra gli effetti consolanti della chiamata di Draghi alla guida del governo, dove spero che saprà comporre nel giusto equilibrio scelte tecniche e politiche, guardando contemporaneamente alla concretezza dei problemi
e all’immagine dei partiti destinati ad appoggiarlo in Parlamento, permettetemi di includere il ritorno del vegliardo Eugenio Scalfari all’interesse per la crisi. Dai cui sviluppi solo qualche giorno fa egli aveva preso a tal punto le distanze da scrivere con toccante sconforto della “fine del viaggio” che avvertiva avvicinandosi la sua 97.ma primavera. La chiamata di Draghi ha felicemente sorpreso pure lui, che si era accontentato di auspicare, prima della sconfortante visione della morte, il ricorso di Mattarella a Paolo Gentiloni, richiamandolo dalla Commissione Europea di Bruxelles. Egli ha ottenuto e visto ben di più.
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vincitore di turno, o addirittura del trionfatore, come potrebbe risultare alla fine di questa crisi di governo il prestigioso Mario Draghi.
Casalino, che non ho avuto la ventura di conoscere ma di cui vedo che non basta più lamentare il passato televisivo al “Grande fratello” e l’abitudine, che riconosco nociva per il suo capo, di usare il telefonino come una mezza clava per protestare contro giornalisti e altri ancora spintisi, ai suoi occhi, troppo in avanti con le critiche e gli attacchi al suo “principe” inteso in senso machiavellico.
di metri di distanza, nel suo ufficio a Palazzo Chigi, proponendosi di non avere “mai più” rapporti con l’ormai ex alleato, anzi di “asfaltarlo” al Senato con un bel po’ di parlamentari in uscita dalle opposizioni. Alcuni dei quali erano già in sosta nel purgatorio del gruppo misto, in attesa di altri con cui costituire una formazione buona a rendere superflui i voti sino ad allora determinanti dei renziani.
Non facciamo Rocco, e i suoi fratelli, disponendo lui di un bel gruppo di collaboratori, più influente di quanto non possa essere stato su un avvocato e un professore non certo degli ultimi, per quanto approdato in politica per caso quasi tre anni fa. E subito in una posizione di rilievo come quella di capo del governo, dopo che i suoi sostenitori non lo avevano programmato per una postazione superiore a quella di un ministro della Funzione Pubblica.
di pendere dalle labbra o dal cellulare, fra o sopra gli altri, di Goffredo Bettini. Che ad un certo punto era diventato nelle cronache giornalistiche, fra retroscena e interviste, un mezzo segretario ombra del Pd: il secondo partito della coalizione di governo e primo della sinistra certificata all’anagrafe politica.
sempre di più da Renzi, lo aveva abbandonato al suo destino e incoraggiato Conte a studiare il modo di liberarsene definitivamente, anche a costo di rimanere con un impossibile tavolo a due gambe.
esponenti della direzione, è sembrato alla fine arrendersi ad una realtà sfuggitagli di mano. Egli infatti ha lasciato silenziosamente inserire Bettini negli immancabili articoli sul toto-ministri come un nuovo esponente di un secondo governo Conte rimpastato o di un terzo.