In paziente attesa dell’Italia che, a conclusione dei poco gaudiosi Stati Generali dell’Economia a Villa Pamphili, Giuseppe Conte si è proposto addirittura di “reinventare”, evidentemente sicuro di poter durare abbastanza a Palazzo Chigi per realizzare una simile impresa, dobbiamo un po’ meno pazientemente rassegnarci a vivere in questa Italia malmessa. Dove allo stesso Conte è bastato prospettare una riduzione temporanea dell’Iva, finalizzata a incoraggiare l’aumento dei consumi, e quindi della produzione, per trovarsi contestato da più della metà del governo che guida, dove le idee sono evidentemente molto diverse dalle sue.
Alle solite guerre per partiti e relative correnti sia della maggioranza sia dell’opposizione – i primi uniti nella difesa delle loro poltrone, di governo e sottogoverno, e gli altri solo nel rivendicare di essere ricevuti insieme nelle consultazioni del presidente del Consiglio per tornare a dividersi già al termine dell’incontro di turno, riferendone in modo diverso, o comunque spaccandosi anche nei comportamenti parlamentari non appena ne hanno l’occasione- si è aggiunta
quella che lo stesso Fatto Quotidiano, non certo ostile alla magistratura, ha definito sulla prima pagina di oggi “la guerra per bande togate”. E ne ha previsto la fine “solo quando tutti diranno la verità”, evidentemente taciuta da una parte credo non piccola di una categoria sorpresa -si fa per dire- a spartirsi incarichi e carriere per meriti e logiche correntizie, cioè politiche. Ci vorrebbe davvero una faccia tosta per sostenere ancora, come qualcuno ancora fa, che le correnti sono solo “di pensiero”, di sensibilità e altre amenità del genere. Che possono essere state tali all’inizio, forse, ma sono diventate ben altro strada facendo, visto che un magistrato in pensione ma attivissimo sui giornali come Armando Spataro ha appena ricordato l’appello Virginio Rognoni nel 2009 a “recuperare moralità civile, onestà e coscienza professionale” evidentemente perdute o compromesse già allora, dopo che l’ex ministro democristiano dell’Interno , fra il 2002 e il 2006, aveva affiancato come vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura prima Carlo Azeglio Ciampi e poi Giorgio Napolitano.
E’ bastato che Luca Palamara, sotto indagine alla Procura di Perugia, protestando contro l’espulsione dall’associazione nazionale dei magistrati facesse qualche nome per sostenere di non avere da solo gestito la spartizione correntizia degli incarichi giudiziari perché volassero
querele e toghe come stracci, per parafrasare il titolo su tutta la prima pagina della Verità. Ma potrebbe anche bastare il più misurato titolo di cronaca, diciamo così, del
Corriere della Sera sui “venti giudici” finiti sotto “verifica”, cioè indagini, da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, almeno per ora, se le loro vicende non approderanno in qualche Procura.
E’ stata ricordata da qualche parte la curiosa circostanza della sinora mancata “rilevanza penale” delle tante cose -fra incontri, messaggi, richieste, solleciti, giudizi, promozioni ottenute o negate- emerse da quella bomba a mano che era diventato il telefonino di Palamara iniettato, o infettato, di “trojan”. Curiosa, davvero, questa circostanza in un Paese in cui tra l’entusiasmo degli stessi magistrati è stato introdotto il reato di “traffico di influenze illecite”, per cui anche per una raccomandazione si rischiano guai giudiziari, anche da 1 a 3 anni e mezzo di galera.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
di ogni partito, come poi avrebbe denunciato alla Camera- espellendo l’appena arrestato Mario Chiesa dal Psi e definendolo “mariuolo” in un comizio. E’ noto come poi sarebbe finita la storia: dalla loquacità dell’espulso con gli inquirenti alla fine del Psi, di tutti gli altri partiti al governo da più di 40 anni e della stessa, cosiddetta Prima Repubblica.
cui sono responsabili anche quelli che lo hanno appena cacciato. Ed ha cominciato a
fare nomi in dichiarazioni e interviste, fra le quali spicca senz’altro quella raccolta per Repubblica da Liana Milella. “Palamara kamikaze”, ha titolato
di anticipo della cosiddetta corsa al Quirinale. Lo ha fatto anticipando la confidenza fattagli da Mattarella di non volersi fare confermare ed auspicandone la sostituzione con Giuseppe Conte per liberare, finalmente, Palazzo Chigi e consentirvi l’arrivo di Mario Draghi. Stavolta Scalfari non ha proprio azzeccato, diciamo così, l’attualità.
decreto legge sulle elezioni d’’autunno, abbinate al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, sono state tali che alla presidente del Senato in persona, Maria Elisabetta Alberti Casellati, è scappata una “bestemmia” evidenziata
sulla prima pagina del Fatto Quotidiano con tanto di foto della signora rivolta ai destinatari della sua protesta. “Per Dio, siete qui come pupazzi o volete parlare?”, è sbottata la presidente mentre i senatori degli opposti, ma a volte anche degli stessi schieramenti, se ne dicevano di tutti i colori e riprendevano lo spettacolo, o avanspettacolo , coi loro telefonini multiuso.
suo cognome, ma indispettita questa volta dalla circostanza in qualche modo sottolineata dalla presidente di essere
stata lei il giorno prima a presiedere la seduta nella votazione risultata poi irregolare. No, la colpa -ha gridato l’ìnteressata, lasciando sospettare un agguato tesole dalla destra- è di Ignazio La Russa, che le aveva chiesto di sostituirla in quell’occasione. Ma il fratello d’Italia di Giorgia Meloni non se l’è tenuta ed ha ricambiato a suo modo, dando praticamente della smemorata alla rivale perché la richiesta di sostituzione alla vice presidenza della seduta risaliva a giorni precedenti, quando non si poteva prevedere quello che sarebbe accaduto.
la seduta del Senato dal suo ufficio del Quirinale al povero presidente della Repubblica deve essere venuta davvero la tentazione del mattarello attribuitagli per altri versi da Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera. Una cosa comunque rimane certa, o confermata: il governo non se la passa bene, fra Roma e Bruxelles, viste anche le difficoltà a livello europeo.
malapena una sua amarezza. E ciò non tanto per il carattere scontatamente e ancora interlocutorio del vertice europeo per la definizione delle quantità e modalità degli interventi finanziari, economici e sociali imposti dagli effetti dell’epidemia virale, quanto per la deludente prova appena data dallo stesso governo e dalle opposizioni nel confronto svoltosi in Parlamento su questi problemi.
assalti parlamentari e di piazza al governo. La politica, a questo punto, deve essere apparsa a Mattarella “ripiegata su se stessa” come la magistratura, del cui stato di crisi egli ha parlato nello stesso giorno e nello stesso Palazzo del Quirinale partecipando alla celebrazione di sei magistrati uccisi da terroristi e mafiosi,
collettività nazionale. A none e per conto della quale parla e soffre il capo dello Stato come un
profeta inascoltato, simile non tanto al “picconatore” Francesco Cossiga evocato dal Giornale quanto a Luigi Einaudi -il primo vero e proprio presidente dopo l’esperienza “provvisoria” di Enrico De Nicola- passato alla storia anche per le sue “prediche inutili”. Cui probabilmente si è ispirato sul Corriere della Sera il quirinalista Marzio Breda attribuendo anche a Mattarella il no alla pratica di “prendere tempo per perderlo”.
all’indisciplina o all’autonomia, garantita dalla norma costituzionale sulla mancanza del cosiddetto vincolo di mandato, perché alla fine della legislatura il dissidente può anche perdere la ricandidatura. O deve cercare di guadagnarsela altrove, cioè sotto altre insegne o bandiere. E questa è una fatica diventata più difficile del solito in un Parlamento destinato la prossima volta ad avere molti meno seggi di adesso, salvo l’assai improbabile bocciatura referendaria, in autunno, della legge che ne ha disposto la fortissima dieta dimagrante grazie al prezzo disinvoltamente pagato ai grillini dal Pd per subentrare ai leghisti nel governo e nella maggioranza nella scorsa estate.
alle opposizioni, trovo l’altra abitudine che esso ha preso, questa volta con la complicità piena dei presidenti delle Camere, di trasformare le sue comunicazioni al Parlamento in “informative”. E ciò solo per precludere una votazione al termine della discussione relativa a materie o problemi su cui la maggioranza è divisa.
presidente del Consiglio in vista del Consiglio d’Europa, i leghisti hanno dato il loro spettacolo di uscita dall’aula, particolarmente avvertita alla Camera, per protestare contro il trattamento poco rispettoso del Parlamento da parte del governo. Che, a dire il vero, si presta ad attacchi di questo tipo con l’espediente di chiamare “informativa” ogni comunicazione delicata allo scopo di evitare una votazione alla quale la troppo variegata e contraddittoria maggioranza giallorossa non è preparata per uscirne indenne.
del Consiglio. Al quale Renato Brunetta nell’aula di Montecitorio ha dato dell’”Azzeccacarbugli” di manzoniana memoria: non proprio il massimo per un avvocato e un professore di diritto, che pure, sotto sotto, spera di poter ricevere prima o poi un soccorso dal cerchio più o meno magico del Cavaliere. I cui ambasciatori frequentano un po’ tutte le chiese politiche di Roma.
la maggioranza giallorossa vacilla, magari per uno starnuto di Matteo Renzi o per qualcuna delle scosse sismiche che si ripetono fra i grillini, tutti sperano giocoforza sulla tenuta del Pd. Lo fanno, sotto sotto, anche quelli che se ne dichiarano avversari e ne dicono peste e corna in pubblico, consapevoli invece che costituiscono per ora l’unico elemento stabilizzatore, specie nella crisi economica e sociale destinata ad aggravarsi dopo i danni già procurati dall’epidemia virale.
di riferimento, che è il non partito delle 5 Stelle studiato proprio oggi da Carlo Galli su Repubblica, il segretario del Pd Nicola Zingaretti cerca di darsi e dare coraggio pure a chi non lo vota. Ma quando si pensa, o altri ricordano a chi non ci pensa, o svelano a chi non sa, che a reggere in realtà il Pd da molto lontano, visto che trascorre buona parte dell’anno nella lontana e gialla Thailandia, dove ha casa, servitù e quant’altro, ora trattenuto più a lungo a così grande distanza per le complicazioni dei collegamenti aerei e d’altro tipo in tempi di coronavirus, la fiducia comincia a vacillare. E aumenta la paura.
in prima pagina è stato indicato ai lettori come “l’eminenza grigia”
del Pd, di cui ha allevato un po’ di segretari, è stato segretario capitolino, scopritore di sindaci, fra i quali i fortunati Francesco Rutelli e Walter Veltroni ma anche lo sfortunato Ignazio Marino. Ma nella pagina interna, dove lo spazio era maggiore per descriverlo, è diventato “il grande vecchio”. Che è un po’ un torto ai suoi, in fondo, soltanto 68 anni -se ho contato bene quelli trascorsi dal 1952 assegnato alla sua nascita- e un po’ uno spettro, visto ciò che durante gli anni di piombo si intendeva appunto per “il grande vecchio”: quello che tirava i fili del terrorismo e ci faceva vivere peggio di quanto non stia facendo adesso la paura del contagio virale. Allora si moriva davvero ammazzati.
di destinarlo, il più
tardi possibile naturalmente, alle “tombe dei Giganti”, con la maiuscola, della Sardegna nuragica. E poi, scusatemi, mi è sembrato non meno esagerata quella scommessa di Bettini -sentite, sentite- sull’”autorevolezza”, oltre
che sull’”intuito e la volontà unitaria” di Beppe Grillo. Di cui tanto valeva allora poco più di 10 anni fa, quando Bettini era già sul mercato politico a dispensare consigli, direttive e quant’altro, accettare la richiesta di iscrizione al Pd ad Arzachena e il diritto reclamato di partecipare alla competizione per la successione a Walter Veltroni, o al reggente Dario Franceschini, come segretario. Ci saremmo risparmiato il Movimento 5 Stelle, annessi e connessi.
indignarmi di fronte alla “bomba di Caracas”. Così l’ha definita in un titolone di prima pagina La Verità di Maurizio Belpietro riferendo dei tre milioni e mezzo, non ho capito se di dollari o di euro, che una decina d’anni fa le 5 Stelle, appunto, avrebbero preso dal Venezuela di Hugo Chavez e Nicolas Maduro.
fanno ridere anche le proteste e minacce di querele dei dirigenti di un movimento alle prese, come vedremo, con
problemi molto più seri e reali. Che si riflettono sul governo sino a lasciarlo “appeso al falò cinquestelle”, come al Messaggero hanno titolato l’editoriale di Alessandro Campi.
aprire con questa vicenda il numero di questo martedì 16 giugno, o la decisione
di Repubblica di mettere sulle piste di questa “storia” addirittura Filippo Ceccarelli. Non parlo poi della
carica di umorismo sfuggita al mio amico Piero Sansonetti aprendo il suo Riformista con la domanda “Ma allora è Maduro il capo politico dei 5 Stelle?”, dopo avere tante volte scritto che il capo è di notte Beppe Grillo e di giorno Marco Travaglio, o viceversa.
in uno “stallo” quasi banale la crisi in cui si trova il Movimento, di cui egli può quanto
meno ritenersi tra i più informati in circolazione. Ma dove non riesce neppure lui a scegliere bene fra Grillo e il contestatore appena ripropostosi nella persona di Alessandro Di Battista. Il primo, secondo Travaglio, avrebbe ragione a scommettere su Conte e l’altro a “denunciare l’afasia programmatica e identitaria” di un movimento che “non è più quello di prima, ma non è mai diventato qualcos’altro”. Ben detto, purtroppo, per tutti noi, incolpevoli e costretti a subirne i danni.
Dove si sgomitolano bandiere a metraggio, con e senza mascherine, com’è recentemente accaduto a Roma mentre il capo dello Stato celebrava dignitosamente i 74 anni della Repubblica dividendosi fra l’Altare della Patria e le località emblematiche, da Codogno a Roma, della tragica epidemia virale da cui non siamo ancora usciti davvero.
addirittura più nel centrodestra, forse bisognoso dei suoi Stati Generali, che
nell’area giallorossa. Alla quale Matteo Salvini, Giorgia Merloni e Silvio Berlusconi, in ordine della loro consistenza elettorale, stanno dando con i loro errori un soccorso forse immeritato, e -temo- dannoso per il Paese e, in fondo, per lo stesso Conte. Cui il direttore della Stampa Massimo Giannini, forse non a torto, ha voluto ricordare, al di là delle smentite già opposte dall’interessato, che più di fare un nuovo partito dovrebbe preoccuparsi di mettere un po’ d’ordine in quello che, avendolo designato due volte alla guida del governo, rimane pur sempre il suo o il quasi suo. E’ naturalmente il Movimento delle 5 Stelle, dove solo a parlare di un’assemblea costituente o di un congresso presumibilmente chiarificatore, come ha appena fatto il barricadiero Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici, a Beppe Grillo sono venute le paturnie.
dieci anni dalla fondazione e per essere tornato per un po’ a collaborarvi dopo la direzione del Giorno– penso che abbiano impiegato un po’ troppo
ad accorgersi al Giornale della famiglia Berlusconi dello sfregio alla statua e alla memoria del pur fondatore Indro Montanelli. E per dargli il dovuto rilievo sulla prima pagina
di oggi, lunedì, con sette articoli distribuiti in più parti, a cominciare dall’editoriale del direttore Alessandro Sallusti, “immeritatamente seduto” -ha doverosamente riconosciuto- “alla scrivania” di Montanelli.
cominciata “la gara a Milano a ripulire la statua” imbrattata e colpevolmente rimasta senza sorveglianza nonostante fosse entrata dichiaratamente nel mirino dei suoi nemici.
A imbrattare i monumenti potranno inoffensivamente contiuare, a Milano e altrove, i piccioni simpaticamente dialoganti e disegnati dal vignettista Nico Pillinini sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno. Cui profitto dell’occasione, nello stato di crisi in cui si trova, per augurare sinceramente di salvarsi da una chiusura che la sua lunga storia di giornale delle Puglie e della Basilicata non meriterebbe.