Quella foto del presidente del Consiglio Giuseppe Conte finalmente a Milano col governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana, a colloquio in Prefettura entrambi con mascherina e alla distanza di sicurezza imposta dall’emergenza virale, potrebbe essere considerata con molta buona volontà, forse anche troppa, come l’apertura di una nuova fase davvero, dopo i tanti scontri avvenuti a distanza fra i due uomini e i livelli di governo che rappresentano. Potrebbe essere, nonostante i moniti di Conte a risponderne poi agli elettori, una nova fase persino migliore di quella troppo ottimisticamente annunciata e definita “di ripartenza” dal presidente del Consiglio esponendo da Palazzo Chigi il suo nuovo e, temo, non ultimo decreto presidenziale sulla mobilità delle persone e sulle attività produttive e commerciali.
Peccato però per Conte che il pur tardivo tentativo di instaurare un rapporto più diretto col potere locale, che non ha la pretesa ma il diritto riconosciutogli dalla Costituzione di gestire anch’esso l’emergenza impostaci dal coronavirus, coincida col peggioramento della situazione all’interno della maggioranza di governo.
Oltre al “solito” Matteo Renzi si -potrà dire- che ha definito uno “scandalo costituzionale” il decreto
presidenziale sulla cosiddetta ripartenza, sfidando Conte su Repubblica a trasformarlo
in un decreto legge per consentire alle Camere di cambiarglielo nel processo di conversione, e che aspetta praticamente di uscire dalla maggioranza dopo che gli italiani potranno tornare ad uscire davvero da casa; oltre al “solito” Renzi, dicevo, ha fatto sentire i suoi rilievi e le sue preoccupazioni anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti.
Già nel titolo di richiamo in prima pagina dell’intervista al Corriere della Sera c’è una sostanziale protesta del segretario del Pd contro la riapertura delle attività commerciali, chiamiamole
così, nel “tanto lontano” mese di giugno, come già contestato in Consiglio dei Ministri dalla titolare renziana del dicastero dell’Agricoltura Teresa Bellanova.
Non meno critico verso Conte è il passaggio dell’intervista
in cui Zingaretti ha “auspicato” che si formino “le condizioni” -dipendenti ovviamente anche dal presidente del Consiglio, che in questo campo ha notoriamente deluso pure il capo dello Stato- di “un coinvolgimento sull’emergenza anche maggiore delle opposizioni”.
Poi, certo, per indorare le pillole e non deludere la certificazione della “vicinanza” di Conte al Pd appena fatta da Eugenio Scalfari sulla “sua” Repubblica, Zingaretti ha anche definito addirittura “deprimente e velleitario” un tentativo, in questo periodo, di cambiare governo e maggioranza. Ed ha silenziosamente preso per buona la rappresentazione, fatta dall’intervistatrice, di un Movimento 5 Stelle finalmente, chiaramente e generalmente disposto, come richiesto appunto dal Pd di fronte alle troppe resistenze ancora opposte, ad utilizzare il finanziamento degli interventi di emergenza col ricorso al tanto vituperato fondo europeo salva-Stati, o meccanismo europeo di stabilità.
E’ naturalmente
una spina nel fianco di Conte anche il malumore, a dir poco, dei vescovi per le messe ancora chiuse al pubblico: malumore che il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno” Nino Pillinini ha rappresentato sarcasticamente trasformando il presidente del Consiglio da “avvocato del popolo” in “avvocato del diavolo”.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
Maurizio Molinari. Che a sua volta ha ceduto la direzione della Stampa, lo storico giornale della Fiat, a Massimo Giannini, tornato da Repubblica a Torino. Dove era stato accolto di persona dall’”avvocato”, che gli parlò del suo come di “un giornale perbene”. Lo ha voluto ricordare lo stesso Giannini nell’editoriale di insediamento, tanto per far capire bene con lodevole franchezza chi conduce le danze nel nuovo gruppo editoriale.
testata comunista dell’Unità per ristamparla come organo non più del Pci, ormai defunto, ma di una forma di socialismo liberale. Dove potrebbero
approdare, all’occorrenza, lettori e giornalisti delusi della Repubblica del nuovo corso: non so, francamente, se a cominciare davvero da Eugenio Scalfari. Col quale l’”ingegnere” ebbe qualche mese fa uno sgradevole e, temo, irreversibile scontro a distanza nel salotto televisivo di Lilli Gruber rinfacciandogli la “carrettata” di soldi pagatagli a suo tempo in un cambio di proprietà e dandogli praticamente dello svanito per i 96 anni allora neppure compiuti.
l’allora guardasigilli si offrì pubblicamente a “restituire l’onore” al Psi, che evidentemente lo
aveva perduto. Ma, non avendo di certo i soldi di De Benedetti, le ambizioni di Martelli sono assai modeste: una riedizione assai ridotta dell’Avanti!: una al mese da qui a giugno e poi chissà, forse una ogni quindici giorni, come Il Borghese di prima maniera di Leo Longanesi.
vigilare perché il suo “fiore” di carta non appassisca prima dei “cento anni”: quelli non dalla nascita dello stesso Scalfari, che vi è quasi arrivato, ma della testata. Che esordì nel 1976, cioè 44 anni fa, per cui gliene resterebbero nella serra, o addirittura all’occhiello della giacca immaginata dal fondatore, almeno altri 56.
e poi addirittura imposto
a Palazzo Chigi dai grillini -imposto, in particolare, nella scorsa estate in un improvviso cambio di maggioranza a un Pd che reclamava “discontinuità” nel passaggio da una coalizione gialloverde ad una giallorossa- è diventato nell’editoriale di Scalfari di domenica scorsa “vicino” al partito guidato da Nicola Zingaretti.