E’ passata ormai tant’acqua, troppa, sotto i ponti dai giorni in cui, all’inizio della legislatura uscita dalle urne del 4 marzo 2018, Luigi Di Maio scambiava per un’offesa o una provocazione la richiesta, la cortesia, l’idea che gli suggeriva Matteo Salvini, ormai adottato come alleato di governo, non di telefonare ma almeno di rispondere educatamente ad una chiamata di Silvio Berlusconi. “Neanche a parlarne”, diceva il capo ancora in salute politica del Movimento 5 Stelle, forte di quel 32,7 per cento di voti raccolti nelle elezioni politiche e della posizione “centrale” conquistata in Parlamento come una rediviva Democrazia Cristiana: la tanta odiata Dc della cosiddetta prima Repubblica.
Che il centrodestra avesse preso ancora di più, il 37 per cento e Berlusconi vi avesse contribuito non poco col suo partito, pur sorpassato di qualche punto dalla Lega, a Di Maio non importava un fico secco. Più Salvini gli suggeriva un contatto diretto col Cavaliere, assicurandogli che non gli sarebbe arrivata alcuna richiesta imbarazzante, anche di un semplice sgabello nel governo per qualche sbiadito parlamentare forzista o finto indipendente, più Di Maio gli opponeva un piccato rifiuto, dicendogli che poteva bastare e avanzare il fatto ch’egli fingesse di ignorare la perdurante alleanza del centrodestra nelle amministrazioni locali. Berlusconi, dal canto suo, autorizzò lo stesso il “capitano” leghista ad accordarsi con i grillini per il tempo necessario a riprendersi dal colpo del sorpasso e ad evitare un turno anticipato di elezioni che aumentasse e non riducesse le distanze fra il Carroccio e Forza Italia.
Ebbene, tutto questo, ripeto, è acqua passata. E Di Maio, ora al governo con la sinistra e non più con la Lega, non inorridisce più all’idea di parlare non dico con Berlusconi -perché bisogna pur dare il tempo al tempo per certe svolte- ma almeno con qualcuno che gli sia stato vicino, affine e quant’altro. Nella sua nuova veste di ministro degli Esteri, forse imbeccato -chissà- da qualcuno esperto della Farnesina, Di Maio ha scoperto le qualità dell’ultimo ministro degli Esteri di Berlusconi, Franco Frattini, ormai tornato alla sua carriera di magistrato amministrativo al Consiglio di Stato. E gli ha chiesto consigli su come muoversi anche a Bruxelles, dove Frattini ha fatto parte per un certo tempo della Commissione Europea per conto dell’Italia.
Una conferma dei rapporti con Di Maio l’ha data lo stesso Frattini in una intervista il 7 gennaio
alla Stampa passata ingiustamente inosservata, in cui l’ex ministro degli Esteri è s
tato indicato peraltro come un possibile “inviato dell’Italia in Libia”: cosa peraltro tentata ai tempi di Matteo Renzi a Palazzo Chigi da Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea, e non riuscita.
Grazie anche ai consigli di Frattini il titolare della Farnesina sta cercando di coinvolgere l’”alto commissario” per gli affari internazionali di Bruxelles Josep Borrel per cercare di sfilare Putin dagli affari libici facendola finita con le sanzioni contro la Russia per la questione
ucraina e dintorni. E’ proprio con Borrel che Di Maio ha pranzato a Roma, in un ristorante sulla via Appia nuova, prima di volare con lui ad un minivertice europeo con i ministri degli Esteri della Germania, della Francia e della Gran Bretagna sui temi caldi, anzi roventi di questi giorni: dall’Iran, per far capire agli americani che sono amici ma non possono fare tutto quello che vogliono, alla Libia. Dove gli interessi italiani sono insidiati in pari misura dai turchi. che sostengono il premier al Sarraj, riconosciuto dall’Onu e inizialmente molto sostenuto dall’Italia, e dai russi corteggiati, a dir poco, dal generare Haftar.
Quella di lavorare su Putin per allontanarlo dallo scenario libico in cambio della rinuncia europea alle sanzioni contro la Russia è ,in verità, una vecchia idea di Berlusconi in persona, condivisa e portata avanti poi da Salvini nel governo gialloverde fino a quando polemiche e inchieste giudiziarie sui rubli attribuiti ai sogni della Lega non lo hanno un po’ frenato, diciamo così, spostandolo di più vero gli Stati Uniti, sino a compiacersi pubblicamente della eliminazione del generale iraniano Soleimani disposta personalmente da Trump. E ora è addirittura Di Maio a seguirne le tracce originarie, e comuni a un Frattini diventato un mezzo asso nella manica del ministro grillino degli Esteri. Curioso, no?
- Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
di lasciare i militari italiani in Iraq al loro posto, anche dopo il peggioramento,
a dir poco, delle condizioni di sicurezza a causa del raid americano contro il generale iraniano Soleimani, delle ritorsioni minacciate da Teheran e del pronunciamento
del Parlamento iracheno contro la permanenza dei contingenti statunitensi e loro alleati in quella terra, la realtà si è presa la sua rivincita. E’ arrivato cioè l’annuncio che i Carabinieri italiani di stanza nella base americana di Baghdad sono stati prudenzialmente allontanati.
In particolare, intervistato dall’ospitalissimo Fatto Quotidiano, oltre alle solite professioni di fede nel dialogo, nelle soluzioni diplomatiche delle crisi internazionali e tutto il resto, il titolare della Farnesina ha posto il problema di “rimodulare le nostre missioni militari all’estero”. Non sembra, francamente, una questione da poco, di amministrazione ordinaria, diciamo così.
annunciato, con i suoi omologhi europei, e anche oltre, auspicabilmente anche con quel presidente americano che è in tali buoni rapporti con lui da chiamarlo Giuseppi, al plurale, ma ancor più importante è che egli abbia alle spalle nel proprio Paese una maggioranza davvero coesa sui temi di politica estera. Che è cosa della quale è quanto meno lecito dubitare. E pare che ne dubitino anche taluni, almeno, degli interlocutori internazionali dell’inquilino di Palazzo Chigi.
ritirare le loro truppe, e il quotidiano abitualmente più vicino da noi al partito grillino di maggioranza relativa – Il Fatto- sollecitava l’accoglimento dell’istanza di Baghdad, a Roma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha opposto un vistoso ma curiosissimo rifiuto.
al capo del governo, apparso così ad un tempo preoccupato dei pericoli che corrono i nostri militari nel clima di paura per le ritorsioni annunciate dall’Iran contro l’azione ordinata in Irak personalmente dal presidente americano Donald Trump di eliminare il potente generale iraniano Soleimani e alcuni dei suoi più stretti collaboratori e alleati, ma anche convinto della necessità, opportunità e quant’altro di lasciare coraggiosamente sul posto il nostro contingente, mandato a suo tempo per concorrere alla sicurezza di quella regione.
a Befana gli lascerei sul davanzale, o appesa alla porta di casa, o di dov’altro si sveglierà domani mattina, una calza piena di rosari, crocifissi e medagliette di ogni ordine e grado della Madonna con un biglietto di accompagnamento per diffidarlo dall’usarli in pubblico, neppure per scherzo. E ciò non foss’altro per togliere al suo ormai odiato e odiatore Giuseppe Conte uno dei pochi argomenti buoni, se non l’unico, che il presidente del Consiglio ha adoperato contro di lui al Senato, nel “processo” del 20 agosto scorso, e cerca di rinverdire ogni volta che l’ex ministro dell’Interno gliene offre l’occasione.
a Palazzo Chigi. Ma, per sua fortuna, neppure per dare una mano ai suoi nemici, come ha dimostrato la figuraccia rimediata dai frati francescani d’Assisi contrastandone le recente campagna elettorale non vinta, ma stravinta in Umbria.
credibile ed efficace. Debbo ancora riconoscermi -e comincio a preoccuparmene- in una felice “cattiveria” di Marco Travaglio sul Fatto, che ha appena immaginato Salvini lanciare “una bomba carta dal balcone” finendo per incendiare anche la sua auto come bilancio del 2019. E’ stata una “cattiveria” felice come quella che ha chiesto cosa mettano in Vaticano nell’incenso che adopera il Papa nelle messe per renderlo quasi manesco com le infedeli che
lo strattonano in piazza. Peccato però che alle prese col Vaticano Travaglio non si sia fermato qui ed abbia il giorno dopo esagerato attribuendo all’impazienza di un altro Papa, nel frattempo diventato Santo Giovanni II, l’impiccagione a Londra del banchiere Roberto Calvi.
per “l’incendio” appiccato, secondo il manifesto, dagli Stati Uniti di Donald Trump uccidendo
in Irak il potente e sanguinario generale iraniano Cassem Soleimani anche per “ristabilire chi comanda in Medio Oriente”,
come ha titolato in rosso Il Foglio trovandosi una volta tanto d’accordo col soddisfatto ma “truce” leader leghista Matteo Salvini, in Italia si ha solo l’imbarazzo di scegliere fra due inconvenienti, diciamo così, o addirittura sommarli.
Mike Pompeo di avvertire dell’operazione Soleimani il governo Conte, unico fra tutti gli alleati, nonostante il “Giuseppi” confidenziale che il presidente degli Stati Uniti riserva abitualmente e personalmente all’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
credo di lavoro con la fidanzata, sia che lo
si immagini, come ha fatto l’impertinente vignettista Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX in bilico nel vuoto su un pezzo di roccia che sta cadendo. O, come nella vignetta di Nino Pillinini sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno, in groppa al cammello sulla strada epifanica di Gesù Banbino, guidato con gli altri Re Magi non dalla stella cometa ma dalle cinque stelle cadenti dell’omonimo movimento.
carta riferendo sulla crisi dell’omonimo movimento- superiori per impatto sui nostri giornali persino ai venti ancora più forti di guerra vera e propria che soffiano sulla Libia, ed
hanno maggiormente interessato col solito titolo felice il manifesto, bisogna riconoscere che solo il masochismo di un comico può spiegare l’allegria con la quale Beppe Grillo ha voluto salutare sul suo blog personale l’arrivo dell’anno
nuovo. Che lui in persona, con la sua voce e la sua faccia, ha preannunciato “magnifico” spalando la terra per la fossa nella quale sta sprofondando il suo movimento anche o ancor più nella nuova esperienza di governo col Pd, dopo i danni subiti governando con la Lega.
vertice del movimento che dall’espulsione del senatore Gianluigi Paragone, per immaginare che il comico sapesse bene ciò che stava per accadere dalle sue parti mentre scavava con compiacimento quella fossa a Capodanno.
vignettisti, analisti, sardine e quant’altro preferiscono immaginare e rappresentare con gli stivali Matteo Salvini, che spesso presta loro il fianco, ma neppure Luigi Di Maio scherza. Non a caso, d’altronde, i due hanno già governato insieme, prima di scoprirsi incompatibili fra di loro: ma non tanto incompatibili, in fondo, se Salvini anche dopo la rottura propose che l’altro capeggiasse una seconda edizione della maggioranza gialloverde. Ricordate?
deputato di Alleanza Nazionale nella tredicesima legislatura, fra il 1996 e il 2001. Furono gli anni in cui gli capitò, fra l’altro, di inorridire da costituzionalista per quella riforma del titolo quinto della Costituzione, sulle regioni, improvvisata da una striminzita maggioranza di centrosinistra nel tentativo, peraltro fallito, di ingraziarsi la Lega e impedirne il ritorno nel centrodestra, dopo la repentina rottura con Silvio Berlusconi intervenuta come un parto, quasi al nono mese dalla comune vittoria elettorale del 1994. Da quella riforma, di cui si pentirono poi gli stessi promotori, nacque un contenzioso che intasò letteralmente la Corte Costituzionale, come Armaroli previde e fu invece permesso da un elettorato che ratificò svogliatamente la riforma partecipando al referendum confermativo con un’affluenza del solo 34 per cento.
Stavolta, invece, per la vicenda della nave Gregoretti la copertura totale ed esplicita del governo, è sinora mancata. E’ invece intervenuta una comunicazione burocratica di Palazzo Chigi agli uffici giudiziari sulla mancanza di un Consiglio dei Ministri dove si fosse discusso di quella vicenda Ad Armaroli non è piaciuta -e posso capirlo, conoscendone la franchezza non solo verbale- la riserva che Conte si è presa di esaminare atti, informazioni e quant’altro per potersi pronunciare a tempo debito, cioè quando della questione si occuperà, votando, la giunta competente delle immunità del Senato per riferire poi in aula. Dove -ha puntigliosamente ricordato Armaroli- si dovrà votare, in forza del regolamento, in modo palese e non segreto, come si sarebbe invece portati a pensare essendo in gioco il destino di una persona.
nel frattempo passato all’opposizione, andrebbe processato, diversamente dalla vicenda Diciotti. Se poi Conte il bicchiere lo svuoterà per non peggiorare i suoi già difficili rapporti con Di Maio, o non terremotare i grillini , ma forse anche i piddini, più di quanto già non lo siano, sarà una storia tutta da raccontare e giudicare.
più che rileggendo testualmente le sue parole, il tentativo di incoraggiare anche il governo e la sua maggioranza giallorossa, mai nominati dal capo dello Stato, a una “vera ripartenza”: segno, evidentemente, che la partenza della compagine ministeriale in carica da qualche mese, il cosiddetto Conte 2 o Bisconte, non è stata molto forte e incoraggiante.
come si dice, e ascoltato elettronicamente da più di dieci milioni di connazionali, addirittura “il manifesto della giovane Italia”: un manifesto tradotto a Bari
dalla Gazzetta del Mezzogiorno in una salutare “scossa” per un Paese troppo poco fiducioso e consapevole delle sue potenzialità, pur tanto note e apprezzate all’estero.
da Mattarella nel suo messaggio- perché la smetta di “fare da notaio nella
politica industriale”, che sarebbe gestita quindi da altri, compresi i magistrati. Che sono notoriamente solerti quanto meno a coprire i vuoti politici, se non a scavalcare il potere esecutivo e persino quello legislativo, interpretando spesso le leggi in modo tale da costringere qualche volta il pur sonnolento o tollerante Parlamento a intervenire con leggi autenticamente interpretative di altre evidentemente approvate in termini non abbastanza chiari. E questo è uno scenario destinato a peggiorare con la fine, appena scattata, della prescrizione all’arrivo della prima sentenza di giudizio, se non vi si porrà rimedio rapidamente con l’applicazione della “ragionevole durata” dei processi imposta purtroppo solo genericamente dall’articolo 111 della Costituzione.
Mi riferisco allo scatto d’ira, o d’impazienza, di Papa Francesco, poi scusatosi pubblicamente di essersi troppo bruscamente sottratto alla fedele, schiaffeggiandone le mani, che aveva cercato di trattenerlo sporgendosi dalle transenne in Piazza San Pietro.
ha usato la “cattiveria” quotidiana di prima pagina del suo giornale per chiedere che cosa mettano nell’incenso delle messe del Papa per renderlo così impaziente
con una fedele che di certo non gli voleva fare del male. Rolli invece ha fatto indossare al Papa la cintura nera delle arti marziali giapponesi. Che è un po’ quella appena indossata consapevolmente in politica dal senatore Gianluigi Paragone, espulso dal Movimento delle 5 Stelle come “dal nulla”, ha reagito il parlamentare diventato da qualche tempo il più esplicito e duro nel contestare, anche nelle votazioni al Senato, la leadership di Luigi Di Maio e le coperture sempre fornitegli alla fine dal garante e fondatore Beppe Grillo.