E’ Franco Frattini l’asso nella manica di Luigi Di Maio nel ginepraio libico

            E’ passata ormai tant’acqua, troppa, sotto i ponti dai giorni in cui, all’inizio della legislatura uscita dalle urne del 4 marzo 2018, Luigi Di Maio scambiava per un’offesa o una provocazione la richiesta, la cortesia, l’idea che gli suggeriva Matteo Salvini, ormai adottato come alleato di governo, non di telefonare ma almeno di rispondere educatamente ad una chiamata di Silvio Berlusconi. “Neanche a parlarne”, diceva il capo ancora in salute politica del Movimento 5 Stelle, forte di quel 32,7 per cento di voti raccolti nelle elezioni politiche e della posizione “centrale” conquistata in Parlamento come una rediviva Democrazia Cristiana: la tanta odiata Dc della cosiddetta prima Repubblica.

            Che il centrodestra avesse preso ancora di più, il 37 per cento e Berlusconi vi avesse contribuito non poco col suo partito, pur sorpassato di qualche punto dalla Lega, a Di Maio non importava un fico secco. Più Salvini gli suggeriva un contatto diretto col Cavaliere, assicurandogli che non gli sarebbe arrivata alcuna richiesta imbarazzante, anche di un semplice sgabello nel governo per qualche sbiadito parlamentare forzista o finto indipendente, più Di Maio gli opponeva un piccato rifiuto, dicendogli che poteva bastare e avanzare il fatto ch’egli fingesse di ignorare la perdurante alleanza del centrodestra nelle amministrazioni locali. Berlusconi, dal canto suo, autorizzò lo stesso  il “capitano” leghista ad accordarsi con i grillini per il tempo necessario a riprendersi dal colpo del sorpasso e ad evitare un turno anticipato di elezioni che aumentasse e non riducesse le distanze fra il Carroccio e Forza Italia.

            Ebbene, tutto questo, ripeto, è acqua passata. E Di Maio, ora al governo con la sinistra e non più con la Lega, non inorridisce più all’idea di parlare non dico con Berlusconi -perché bisogna pur dare il tempo al tempo per certe svolte- ma almeno con qualcuno che gli sia stato vicino, affine e quant’altro. Nella sua nuova veste di ministro degli Esteri, forse imbeccato -chissà- da qualcuno esperto della Farnesina, Di Maio ha scoperto le qualità dell’ultimo ministro degli Esteri di Berlusconi, Franco Frattini, ormai tornato alla sua carriera di magistrato amministrativo al Consiglio di Stato. E gli ha chiesto consigli su come muoversi anche a Bruxelles, dove Frattini ha fatto parte per un certo tempo della Commissione Europea per conto dell’Italia.

            Una conferma dei rapporti con Di Maio l’ha data lo stesso Frattini in una intervista il 7 gennaio Frattini ieri alla Stampa.jpegalla Stampa passata ingiustamente inosservata, in cui l’ex ministro degli Esteri è sLa Stampa di ieri.jpegtato indicato peraltro come un possibile “inviato dell’Italia in Libia”: cosa peraltro tentata ai tempi di Matteo Renzi a Palazzo Chigi da Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea, e non riuscita.

           Grazie anche ai consigli di Frattini il titolare della Farnesina sta cercando di coinvolgere l’”alto commissario” per gli affari internazionali di Bruxelles Josep Borrel per cercare di sfilare Putin dagli affari libici facendola finita con le sanzioni contro la Russia per la questione Luigi Di Maio.jpegucraina e dintorni. E’ proprio con Borrel che Di Maio ha pranzato a Roma, in un ristorante sulla via Appia nuova, prima di volare con lui ad un minivertice europeo con i ministri degli Esteri della Germania, della Francia e della Gran Bretagna sui temi caldi, anzi roventi di questi giorni: dall’Iran, per far capire agli americani che sono amici ma non possono fare tutto quello che vogliono, alla Libia. Dove gli interessi italiani sono insidiati in pari misura dai turchi. che sostengono il premier al Sarraj, riconosciuto dall’Onu e inizialmente molto sostenuto dall’Italia, e dai russi corteggiati, a dir poco, dal generare Haftar.

            Quella di lavorare su Putin per allontanarlo dallo scenario libico in cambio della rinuncia europea alle sanzioni contro la Russia è ,in verità, una vecchia idea di Berlusconi in persona, condivisa e portata avanti poi da Salvini nel governo gialloverde fino a quando polemiche e inchieste giudiziarie sui rubli attribuiti ai sogni della Lega non lo hanno un po’ frenato, diciamo così, spostandolo di più vero gli Stati Uniti, sino a compiacersi pubblicamente della eliminazione del generale iraniano Soleimani disposta personalmente da Trump. E ora è addirittura Di Maio a seguirne le tracce originarie, e comuni a un Frattini diventato un mezzo asso nella manica del ministro grillino degli Esteri. Curioso, no?

 

 

 

 

Le arti poco marziali di Conte alle prese con le complicazioni internazionali

            All’indomani del quasi marziale, anche se più implicito che esplicito annuncio della decisione di Giuseppe Conte Repubblica ieri.jpeg di lasciare i militari italiani in Iraq al loro posto, anche dopo il peggioramento, Il Secolo XIX.jpega dir poco, delle condizioni di sicurezza a causa del raid americano contro il generale iraniano Soleimani, delle  ritorsioni minacciate da Teheran e del pronunciamento La Stampa.jpegdel Parlamento iracheno contro la permanenza dei contingenti statunitensi e loro alleati in quella terra, la realtà si è presa la sua rivincita. E’ arrivato cioè l’annuncio che i Carabinieri italiani di stanza nella base americana di Baghdad sono stati prudenzialmente allontanati.

            Contemporaneamente il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si è una volta tanto discostato dai problemi interni al suo movimento, che l’opprimono da quando ne ha più che dimezzato la consistenza elettorale in tutte le sedi dove si è votato dopo l’8 marzo del 2018, e si è pronunciato sulle questioni di governo alle quali è stato preposto con la formazione del Gabinetto Conte 2 o Bisconte. Di Maio al Fatto.jpegIn particolare, intervistato dall’ospitalissimo Fatto Quotidiano, oltre alle solite professioni di fede nel dialogo, nelle soluzioni diplomatiche delle crisi internazionali e tutto il resto, il titolare della Farnesina ha posto il problema di “rimodulare le nostre missioni militari all’estero”. Non sembra, francamente, una questione da poco, di amministrazione ordinaria, diciamo così.

            Sarebbe forse il caso, visto lo slittamento delle riunioni interpartitiche annunciate a vali livelli di maggioranza sul tema spinosissimo della prescrizione e addirittura sul rilancio dell’azione di governo, la cosiddetta fase 2, peraltro rivelatasi fatale per tante altre compagini ministeriali che hanno preceduto quella in carica; sarebbe forse il caso, dicevo, che il presidente del Consiglio promuovesse con l’urgenza imposta dai convulsi sviluppi della situazione internazionale, anche di fronte alle nostre coste, come in Libia, con tutto ciò che ne potrebbe derivare, un vertice giallorosso per definire bene la linea da seguire.

           E’ certamente importante che il presidente del Consiglio parli al telefono, come ogni tanto vieneConte al telefono .jpeg annunciato,  con i suoi omologhi europei, e anche oltre, auspicabilmente anche con quel presidente americano che è in tali buoni rapporti con lui da chiamarlo Giuseppi, al plurale, ma ancor più importante è che egli abbia alle spalle nel proprio Paese una maggioranza davvero coesa sui temi di politica estera. Che è cosa della quale è quanto meno lecito dubitare. E pare che ne dubitino anche taluni, almeno, degli interlocutori internazionali dell’inquilino di Palazzo Chigi.

 

 

 

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Le curiose modalità dell’annuncio che i soldati italiani “restano” in Irak

             Mentre dall’Irak in mano ormai agli iraniani si è levata la richiesta del Parlamento ai paesi occidentali, compresa l’Italia, di Schermata 2020-01-06 alle 06.31.07.jpegritirare le loro truppe, e il quotidiano abitualmente più vicino da noi al partito grillino di maggioranza relativa – Il Fatto- sollecitava l’accoglimento dell’istanza di Baghdad, a Roma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha opposto un vistoso ma curiosissimo rifiuto.

            “I nostri soldati restano” ha annunciato in prima pagina il giornale La Repubblica raccogliendo un’intervista Repubblica.jpegal capo del governo, apparso così ad un tempo preoccupato dei pericoli che corrono i nostri militari nel clima di paura per le ritorsioni annunciate dall’Iran contro l’azione ordinata in Irak personalmente dal presidente americano Donald Trump di eliminare il potente generale iraniano Soleimani e alcuni dei suoi più stretti collaboratori e alleati, ma anche convinto della necessità, opportunità e quant’altro di lasciare coraggiosamente sul posto il nostro contingente, mandato a suo tempo per concorrere alla sicurezza di quella regione.

            Grande pertanto è la sorpresa avvertita quando,  leggendo e rileggendo scrupolosamente l’intervista raccolta da Stefano Cappellini, si scopre che il virgolettato della titolazione in prima pagina non corrisponde letteralmente ad alcuno dei passaggi contenuti pubblicati all’interno. Dove c’è di tutto, anche la conferma dell’annuncio recentemente affidato alla stessa Repubblica che Conte continuerà a fare politica anche dopo che non guiderà più l’attuale governo, si vedrà in quale modo inedito, visto che non intende creare un suo partito né aderire, almeno sino ad ora, a qualcuno dei tanti che formano la sua maggioranza giallorossa; c’è tutto, dicevo, anche la ormai solita, irrinunciabile polemica con l’ex alleato leghista Matteo Salvini, ma non la pur coraggiosa ed esplicite decisione di di confermare la permanenza dei militari italiani sul rischiosissimo  territorio dell’Irak. Di conferme ci sono quelle dei motivi che portarono a quella missione e della partecipazione del ministro della Difesa italiana alle riunioni, consultazioni e quant’altro nell’ambito dell’Alleanza Atlantica.

            Il meno che si possa dire di questo mancato, interrotto, cloroformizzato scoop affidato da Conte al giornale la Repubblica –con cui sembra creatosi dopo la scoperta personale, da parte del fondatore Eugenio Scalfari, della matrice morotea del presidente del Consiglio, un filo di comunicazione particolare, così diverso dalle polemiche e dalle cautele dei primi tempi dello stesso Conte a Palazzo Chigi- è che esso riflette un certo vuoto, o ritardo, e non so cos’altro, della Farnesina e del suo titolare: il ministro degli affari esteri e della cooperazione Luigi Di Maio, nonché capo della delegazione del Pd al governo e dello stesso movimento. Che è appena ricomparso sulle prima pagine dei quotidiani per un incontro di 45 ministri a Palazzo Chigi  col segretario del Pd Nicola Zingaretti dedicato ai preparativi della verifica o di come si preferisce e si preferirà chiamare la ricerca di un chiarimento, se non di un rilancio, della già affannosa maggioranza di governo improvvisata a fine agosto. E lo dico nonostanta la buona parola, o qualcosa di simile, per il titolare della Farnesina che ha cercato di spendere Pier Ferdinando Casini  in una intervista liquidando come “ipocrita” l’impressione che “il problema della politica estera italiana si chiami Di Maio”, dato che essa zoppicherebbe o mancherebbe già da tempo.

            Un’altra triste realtà emersa dall’intervento di Conte a mezzo stampa, al posto di Di Maio, sulla questione irachena, e più in generale sulla politica estera italiana, è il sostanziale declassamento dei passaggi una volta puntuali ed obbligati, su questi temi, per il Parlamento. Dove d’altronde si è appena approvata per la seconda volta un bilancio dello Stato con la museruola imposta con le procedure della fiducia ad uno dei suoi due rami.

 

 

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Nella calza della Befana impertinente destinata a Matteo Salvini

              Non conosco Matteo Salvini. E non mi è mai capitato di incontrarlo neppure occasionalmente, o di unirmi ai cortei improvvisati dei mei colleghi giornalisti che lo inseguono negli attraversamenti dei corridoi parlamentari per strappargli una dichiarazione, una battuta e magari anche una stretta di mano, utile a quanti lavorano in Rai e dintorni anche a ricollocarsi in quella infinita girandola lottizzatoria denunciata con rigore quasi scientifico a suo tempo da Alberto Ronchey. E in cui -lo confesso- mi trovai convolto anch’io una volta, con qualche polemichetta sul manifesto e altri quotidiani, su iniziativa del mio amico ed estimatore Massimo Pini, consigliere d’amministrazione della Rai per conto dei socialisti ai tempi di Bettino Craxi, contro il cui parere -confesso anche questo, per dirvi quanto curiosa possa a volte essere un’amicizia vera- accettai una collaborazione che cercai di onorare al meglio. Fu mia, fra l’altro, l’ultima intervista televisiva al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, poche settimane prima che venisse ammazzato da Cosa Nostra, in cui l’allora prefetto di Palermo incitò la politica ad applicare nella lotta alla mafia il ricorso ai pentiti sperimentato efficacemente da lui stesso nella lotta al terrorismo.

            Non conosco Salvini, dicevo. E ho sinora resistito alla tentazione di votarlo che mi fanno venire certi modi di combatterlo, mettendogli addosso gli stivaloni come si faceva negli anni Ottanta contro Craxi, o scommettendo sulla magistratura per liberarsene, sempre secondo il modello Craxi. Ma se fossi lcalza 1 .jpega Befana gli lascerei sul davanzale, o appesa alla porta di casa, o di dov’altro si sveglierà domani mattina, una calza piena di rosari, crocifissi e medagliette di ogni ordine e grado della Madonna con un biglietto di accompagnamento per diffidarlo dall’usarli in pubblico, neppure per scherzo. E ciò non foss’altro per togliere al suo ormai odiato e odiatore Giuseppe Conte uno dei pochi argomenti buoni, se non l’unico, che il presidente del Consiglio ha adoperato contro di lui al Senato, nel “processo” del 20 agosto scorso, e cerca di rinverdire ogni volta che l’ex ministro dell’Interno gliene offre l’occasione.

            Iddio, il Signore e la Madonna secondo me hanno troppo da fare, osservando questo nostro tormentatissimo mondo, per occuparsi anche del leader leghista e dargli una mano nella scalata Salvini e coroncina.jpega Palazzo Chigi. Ma, per sua fortuna,  neppure per dare una mano ai suoi nemici, come ha dimostrato la figuraccia rimediata dai frati francescani d’Assisi contrastandone le recente campagna elettorale non vinta, ma stravinta in Umbria.

            Non si può francamente sfidare la pazienza e la distrazione di “Dio e del cuore immacolato di Maria”, da lui invocati la sera di San Silvestro per riproporsi alla “guida del Paese” ed  esultare dopo qualche giorno al modo scelto dagli americani per liberarsi in territorio iracheno del generale iraniano Soleimani e dei suoi accompagnatori. Che non saranno stati, per carità, degli stinchi di Santi ma della cui morte, in quel modo, non possono essere compiaciuti “Dio -ripeto- e il cuore immacolato di Maria”, anche se la storia del Cristianesimo è fatta anche di crociate e altre guerre, che sono sempre tali, funeste anche a dispetto degli ideali invocati per condurle.

            No, non sono una mammoletta sciocca. Mi ritengo solo un po’ più avveduto di Salvini, e forse meno opportunista della  sua alleata Giorgia Meloni, che si è premurata a prenderne le distanze. Anche se il leader leghista lascia allegramente chiamare “Bestia” l’equipe dei suoi consiglieri o com’altro vanno chiamati quelli che l’informano 24 ore su 24 e gli suggeriscono le cose da dire e da fare, la politica non ha bisogno di diventare bestiale per essere La cattiveria a Salvini.jpegcredibile ed efficace. Debbo ancora riconoscermi -e comincio a preoccuparmene- in una felice “cattiveria” di Marco Travaglio sul Fatto, che ha appena immaginato Salvini lanciare “una bomba carta dal balcone” finendo per incendiare anche la sua auto come bilancio del 2019. E’ stata una “cattiveria” felice come quella che ha chiesto cosa mettano in Vaticano nell’incenso che adopera il Papa nelle messe per renderlo quasi manesco com le infedeli che Schermata 2020-01-03 alle 06.19.51.jpeglo strattonano in piazza. Peccato però che alle prese col Vaticano Travaglio non si sia fermato qui ed abbia il giorno dopo esagerato attribuendo all’impazienza di un altro Papa, nel frattempo diventato Santo Giovanni II, l’impiccagione a Londra del banchiere Roberto Calvi.

 

 

 

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Luigi Di Maio tra i fuochi esterni e interni al Movimento 5 Stelle

            Ora che il mondo ha paura, come ha titolato la Repubblica, Repubblica.jpegper “l’incendio” appiccato, secondo il manifesto, dagli Stati Uniti di Donald Trump uccidendo il manifesto.jpegin Irak il potente e sanguinario generale iraniano Cassem Soleimani anche per “ristabilire chi comanda in Medio Oriente”, Il Foglio.jpegcome ha titolato in rosso Il Foglio trovandosi una volta tanto d’accordo col soddisfatto ma “truce” leader leghista Matteo Salvini, in Italia si ha solo l’imbarazzo di scegliere fra due inconvenienti, diciamo così, o addirittura sommarli.

            Il primo inconveniente è la “dimenticanza” attribuita dal Corriere della Sera al segretario di Stato americano Corriere.jpegMike Pompeo  di avvertire dell’operazione Soleimani il governo Conte, unico fra tutti gli alleati, nonostante il “Giuseppi” confidenziale che il presidente degli Stati Uniti riserva abitualmente e personalmente all’attuale inquilino di Palazzo Chigi.

            Il secondo inconveniente è che ad occuparsi degli affari internazionali in Italia sia come ministro degli Esteri, e ora anche della Cooperazione, Luigi Di Maio. Del quale, a sua volta, ci sono altri due inconvenienti fra cui scegliere, o sommare. Il primo è l’appartenenza ad un movimento politico, per giunta attuale partito di maggioranza in Parlamento, sia pure relativa, che ha una certa simpatia per l’Iran degli ayatollah, e non solo per la nazionalità persiana della moglie del fondatore, “garante”, “elevato” e quant’altro Beppe Grillo. All’Iran, come alla Cina rossa, altro paese che ha rapporti, diciamo così, complessi con gli Stati Uniti, i grillini riservano molto interesse. Non a caso sta per recarvisi in vacanza Alessandro Di Battista, l’ex parlamentare e amico/concorrente del capo ancora formale del movimento Luigi Di Maio. Cui Dibba, come Di Battista è chiamato affettuosamente dai suoi, ha appena procurato la delusione, o il dispetto, come preferite, di solidarizzare con l’espulso di grido Gianluigi Paragone: il primo, a quanto pare, di una lista di cacciandi in questo “meraviglioso” 2020 annunciato personalmente da Grillo nel video augurale di Capodanno sul suo blog personale.

            In questa azione dura di pulizia sotto le cinque stelle è impegnato in prima persona proprio Di Maio, anche a costo di frantumarle e sporcare o ammaccare con polvere e frammenti la maggioranza giallorossa. Che comincia a perdere altri pezzi anche alla Camera, come dimostra l’uscita fresca di annuncio di Nunzio Angiola e Gianluca Rospi, dopo quella dell’ex ministro della Pubblica Istruzione Lorenzo Fioramonti. 

            E’ obiettivamente forte la tentazione di chiedersi a questo punto se nella situazione interna  a dir poco difficile di partito, dove la sua leadership, per quanto formale, è da tempo in progressivo calo, Di Maio abbia non tanto la voglia ma proprio il tempo di occuparsi come dovrebbe della sua materia di governo. E ciò sia che lo si immagini, come è stato ripreso nell’aeroporto di Madrid, alle prese con un viaggio non La Gazzettapeg.jpegcredo di lavoro con la fidanzata, sia che lo Rolli.jpegsi immagini, come ha fatto l’impertinente vignettista Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX in bilico nel vuoto su un pezzo di roccia che sta cadendo. O, come nella vignetta di Nino Pillinini sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno, in  groppa al cammello sulla strada epifanica di Gesù Banbino, guidato con gli altri Re Magi non dalla stella cometa ma dalle cinque stelle cadenti dell’omonimo movimento.

Paolo Armaroli su Conte, l’affare Gregoretti, Salvini e dintorni

Macché giornalista di strada, come si dipinge! La verità è che Francesco Damato è una colonna del giornalismo. Un fuoriclasse. Per anni braccio destro e sinistro di Indro Montanelli, e scusate se è poco. Direttore di giornale. Commentatore e notista tra i più autorevoli di accadimenti politici e istituzionali. Un uomo che ha avuto dimestichezza con cavalli di razza quali Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Bettino Craxi e tanti altri. E che ha dimestichezza anche con “questi qui”. Perché ancora frequenta, Iddio lo perdoni, Montecitorio e Palazzo Madama. Teatri della democrazia che meritano il massimo rispetto, sicuro. Ma gli attori che colà recitano sono quelli che sono. E un Ermete Zacconi, per dire, non lo si scorgerebbe neppure con il lanternino di Diogene. Come se tutto questo non bastasse, Damato ha una memoria di ferro degna di un Pico della Mirandola, che gl’invidio. Perciò mi permetterei di invitarlo a scrivere due svelti saggi alla sua maniera. Il primo. “Storielle di una Repubblica una e trina”. Una, perché i fondamentali della Costituzione sono sempre gli stessi. Trina, perché abbiamo avuto la Prima Repubblica dei partiti, la Seconda Repubblica di Silvio Berlusconi e Romano Prodi nata all’insegna del bipolarismo soprattutto grazie al Mattarellum ideato dal Capo dello Stato, e la Terza Repubblica dove, alla faccia della competenza, uno vale uno. E chi si è visto, si è visto. Non ammoniva forse un grande giornalista come Enrico Mattei che la storia d’Italia può essere noiosa ma le storielle sono imperdibili? Il secondo saggio. “Ritratti dall’A alla Zeta. Da Andreotti a Zamberletti”. Sì, l’indimenticabile angelo custode della Protezione civile.

Si deve sapere che questo monumento al giornalismo che è Damato dice un gran bene di me alle mie spalle. E ha avuto il modo, anche qui sul Dubbio, di spifferare ai lettori le stesse cose che afferma in privato. Troppa grazia, Francesco. Si vede che ti fa velo l’antica amicizia. Fatto sta che Damato non ha studiato dalle Orsoline. Voglio dire che è un uomo scafato. Non mi permetto di mettere in dubbio la sua perfetta buonafede nei miei confronti, ci mancherebbe. Ma stai a vedere che mi ha messo in tocco e toga anche per darmi un buffetto, ma piccolo piccolo, dopo tante carezze immeritate? Difatti, non appena viene al merito, con estremo garbo lui si dissocia dal sottoscritto. Perché con una metafora sostiene che il bicchiere di Giuseppe Conte è mezzo pieno e non mezzo vuoto o vuoto del tutto, come ho scritto sul quotidiano diretto da Carlo Fusi.

Ma usciamo dalla metafora, altrimenti rischiamo di far ubriacare il presidente del Consiglio. Damato dice che c’è una bella differenza tra Luigi Di Maio che, prima ancora che l’apposita Giunta del Senato si esprima, anticipa a prescindere che i Cinque stelle non vedono l’ora di mandare sotto processo Matteo Salvini per il caso Gregoretti, e Conte che, assalito dalla mazziniana tempesta del dubbio ( con la d minuscola, beninteso), compulsa nevroticamente agendine, email, messaggi e quant’altro prima di esprimersi al riguardo. Ora, sulla bella differenza siamo perfettamente d’accordo. Perché, al confronto del Capo pentastellato, il presidente del Consiglio pro tempore può essere a buon diritto considerato la reincarnazione di Cavour. Ciò premesso, Damato sospende il giudizio. Anche perché ricorda che Palazzo Chigi ha informato il tribunale dei ministri di Catania che nei giorni caldi della Gregoretti, alla fine di luglio dell’anno scorso, non si è tenuto nessun Consiglio dei ministri con all’ordine del giorno l’oggetto in questione. Ma questo depone a favore di Matteo Salvini. Perché se Conte avesse avuto da ridire sull’operato dell’allora ministro dell’Interno, avrebbe potuto riunire i ministri e sconfessare pubblicamente il Capitano leghista. Non solo non lo ha fatto, ma non ha mai aperto pubblicamente bocca sull’intera vicenda. E se per caso Conte accertasse che in privato ha avuto qualcosa da ridire, la cosa non varrebbe un fico secco. Perché Conte non è un passante. Non è un privato cittadino, come lo era prima di entrare ( e restare?) in politica. No, è il capo del governo ormai in quinci e quindi dopo essere stato un Carneade nella precedente esistenza. E chi come lui pubblicamente tace, con ogni evidenza acconsente.

A pensar male, si sa, si fa peccato ma spesso s’indovina. E allora suppongo che Conte prenda tempo per non essere preso in contropiede dalle carte che ancora di recente l’ex ministro Giulia Bongiorno, un avvocato che non parla a vanvera, ha confermato che esistono. Concludo, per la gioia del mio amico Damato, con un gloria a Conte. Diavolo d’un uomo, impara alla svelta. Dopo tanto patire, ha imparato il mestiere di presidente del Consiglio schivando ostacoli a più non posso. E in comicità, con quel suo sfruculiare i suoi telefonini, ormai supera addirittura Woody Allen. Ad maiora.

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

 

Polveri di stelle cadono sulla maggioranza e sullo stesso governo

            Di fronte alle “guerre 5stellari” -come le ha definite col titolone di prima pagina la Repubblica di Repubblica.jpegcarta riferendo sulla crisi dell’omonimo movimento- superiori per impatto sui nostri giornali persino ai venti ancora più forti di guerra vera e propria che soffiano sulla Libia, ed manifesto.jpeghanno maggiormente interessato col solito titolo felice il manifesto, bisogna riconoscere che solo il masochismo di un comico può spiegare l’allegria con la quale Beppe Grillo ha voluto salutare sul suo blog personale l’arrivo dell’anno Grillo nella fossa.jpegnuovo. Che lui in persona, con la sua voce e la sua faccia, ha preannunciato “magnifico” spalando la terra per la fossa nella quale sta sprofondando il suo movimento anche o ancor più nella nuova esperienza di governo col Pd, dopo i danni subiti governando con la Lega.

            Non ci vuole certo la fantasia del pur brillante vignettista del Foglio, che rappresenta Grillo contrariato più dalla permanenza di Luigi Di Maio al Il Foglio.jpegvertice del movimento che dall’espulsione del senatore Gianluigi Paragone, per immaginare che il comico sapesse bene ciò che stava per accadere dalle sue parti mentre scavava  con compiacimento quella fossa a Capodanno.

            Già chiare con le dimissioni di Lorenzo Fioramonti da ministro della Pubblica Istruzione, e con i suoi progetti di scomposizione a livello parlamentare, le previsioni di crisi sotto le cinque stelle e dintorni, compreso il governo della ”maratona” di  tre anni ottimisticamente annunciato o promesso da Giuseppe Conte, si sono rafforzate con l’intervento di Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici e gli adoratori, a favore dell’appena espulso Paragone. Che non sarà un campione di coerenza, per carità, come ha documentato con le solite stringatezza e bravura Mattia Feltri sulla Stampa e sul Secolo XIX, ma rappresenta come pochi altri nelle parole, nei fatti e negli sprezzanti giudizi su capi e capetti del movimento, in groppa al quale è arrivato in Parlamento, quel magma di confusione e di velleitarismo che è il partito-non partito inventato nel 2009 da Beppe Grillo. Il quale aveva appena tentato inutilmente di infiltrarsi, diciamo così, nel Pd iscrivendosi alla sezione di Arzachena, in Sardegna, e proponendosi di concorrere alle primarie per la successione a Walter Veltroni, decapitato dai contrasti interni a quell’”amalgama mal riuscito” lamentato da Massimo D’Alema a proposito della fusione fra i resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli vari.  

            La coppia Di Battista-Paragone, a piedi o in moto, come si rappresentò qualche tempo fa all’insorgenza delle prime, grosse difficoltà del movimento, al termine di una riunione rovente nel palazzo di Montecitorio, potrebbe terremotare non solo i grillini ma l’intero quadro politico in quest’anno appena cominciato e già stracarico di problemi. In testa ai quali c’è, ai fini della stabilità del governo, la sempre più evidente difficoltà di Di Maio a guidare e controllare quella che sulla carta sarebbe ancòra la componente principale della maggioranza. I provvedimenti di espulsione attorno ai quali lo raccontano impegnato baldanzosamente i retroscenisti fanno immaginare lo scenario di espulsioni dal partito fascista, nel 1943, alla vigilia del famoso Gran Consiglio del 25 luglio.

            So bene che Salvini.jpegvignettisti, analisti, sardine e quant’altro preferiscono immaginare e rappresentare con gli stivali Matteo Salvini, che spesso presta loro il fianco, ma neppure Luigi Di Maio scherza. Non a caso, d’altronde, i due hanno già governato insieme, prima di scoprirsi incompatibili fra di loro: ma non tanto incompatibili, in fondo, se Salvini anche dopo la rottura propose che l’altro capeggiasse una seconda edizione della maggioranza gialloverde. Ricordate?  

Attenti al bicchiere mezzo pieno di Conte nella partita sull’affare Gregoretti

Una citazione di Paolo Armaroli vale più di un’onorificenza per il valore dell’insigne professore universitario di scienze politiche, ma anche di diritto parlamentare: un valore dimostrato anche sul piano politico nel ruolo di Armaroli.jpegdeputato di Alleanza Nazionale nella tredicesima legislatura, fra il 1996 e il 2001. Furono gli anni in cui gli capitò, fra l’altro, di inorridire da costituzionalista per quella riforma del titolo quinto della Costituzione, sulle regioni, improvvisata da una striminzita maggioranza di centrosinistra nel tentativo, peraltro fallito, di ingraziarsi la Lega e impedirne il ritorno nel centrodestra, dopo la repentina rottura con Silvio Berlusconi  intervenuta come un parto, quasi al nono mese dalla comune vittoria elettorale del 1994. Da quella riforma, di cui si pentirono poi gli stessi promotori, nacque un contenzioso che intasò letteralmente la Corte Costituzionale, come Armaroli previde e fu invece permesso da un elettorato che ratificò svogliatamente la riforma partecipando al referendum confermativo con un’affluenza del solo 34 per cento.

Da costituzionalista egli ha avuto i suoi buoni motivi nel vedere mezzo vuoto, o del tutto vuoto, il bicchiere di Giuseppe Conte da me invece visto politicamente mezzo pieno sullo spinoso problema del processo che il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, peraltro in difformità dalla Procura, ha chiesto al Senato di autorizzare contro Matteo Salvini. Il quale è accusato di sequestro aggravato di oltre cento immigrati bloccati per tre notti  a fine luglio sulla nave militare Gregoretti, finché non se concordò la distribuzione fra vari paesi europei.

Oltre che come costituzionalista, in verità Armaroli ha ragione anche come uomo di buon senso, essendosi quella vicenda svolta non clandestinamente ma alla luce di tutti i riflettori mediatici, com’era accaduto l’anno prima nell’analoga vicenda della nave Diciotti, gestita da Salvini con la totale ed esplicita copertura del governo, per cui l’allora ministro dell’Interno scampò al processo per il riconoscimento di avere agito nell’interesse superiore dello Stato, cioè in difesa dei confini e di un’immigrazione regolare, non illegittima.Savini.jpeg Stavolta, invece, per la vicenda della nave Gregoretti la copertura totale ed esplicita del governo, è sinora mancata. E’ invece intervenuta una comunicazione burocratica di Palazzo Chigi agli uffici giudiziari sulla mancanza di un Consiglio dei Ministri dove si fosse discusso di quella vicenda  Ad Armaroli non è piaciuta -e posso capirlo, conoscendone la franchezza non solo verbale- la riserva che Conte si è presa di esaminare atti, informazioni e quant’altro per potersi pronunciare a tempo debito, cioè quando della questione si occuperà, votando, la giunta competente delle immunità del Senato per riferire poi in aula. Dove -ha puntigliosamente ricordato Armaroli- si dovrà votare, in forza del regolamento, in modo palese e non segreto, come si sarebbe invece portati a pensare essendo in gioco il destino di una persona.

Accetto volentieri l’amichevole e implicita tiratina d’orecchie che mi sono meritato, avendo pensato da giornalista di strada, diciamo così, dotato di quel senso comune di memoria e critica manzioniana, che volendo si potesse, quanto meno, anche votare a scrutinio segreto. Esso consente notoriamente più libertà a chi è chiamato a decidere. Le regole sono regole, appunto, e bisogna rispettarle, per carità, anche quando vengono applicate con svolte repentine, come accadde nel 2011, quando l’allora presidente del Senato Pietro Grasso fece votare a scrutinio palese la decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare in applicazione della controversa legge Severino, dopo la condanna definitiva per frode fiscale rimediata in Cassazione.

Si dà tuttavia il caso che per i cosiddetti reati ministeriali, quale appunto è quello contestato dai magistrati di Catania all’allora titolare del Viminale, il regolamento della Camera, dove Salvini sarebbe finito se si fosse stato eleggere deputato e non senatore, non contempla l’obbligo del voto palese. E’ prescritta solo, come al Senato, una decisione a maggioranza assoluta, cioè la metà più uno dei componenti dell’assemblea.

Anche di questo penso che si debba discutere a proposito dell’affare Gregoretti, non foss’altro per non confermare la famosa locuzione latina che dà al Senato della “cattiva bestia”, pur dando ai senatori dei “boni viri”.

Comunque, il bicchiere mezzo pieno di Conte me lo tengo stretto, specie confrontando la prudenza del presidente del Consiglio con la fretta del capo della delegazione grillina al governo, Luigi Di Maio, e ancòra capo anche del suo movimento. Il quale ha sentenziato che il suo ex collega di governo, forse proprio in quanto ex, essendo Di Maio.jpegnel frattempo passato all’opposizione, andrebbe processato, diversamente dalla vicenda Diciotti. Se poi Conte il bicchiere lo svuoterà per non peggiorare i suoi già difficili rapporti con Di Maio, o non terremotare i grillini , ma forse anche i piddini, più di quanto già non lo siano, sarà una storia tutta da raccontare e giudicare.

 

 

 

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Quello che i giornali hanno scoperto nel messaggio d’auguri del capo dello Stato

            Il bello dei messaggi presidenziali di Capodanno è vedere dopo 30 ore, a edicole riaperte, quello che i vari giornali vi hanno trovato o scoperto, diversamente dalla disattenzione o dalla noia dello spettatore rappresentato assopito sulla prima pagina del Corriere della Sera dall’impietoso Emilio Giannelli: neppure assopito, in verità, ma persino russante davanti alla televisione, al punto da farsi abbaiare addosso dal cane ai suoi piedi.

            Sullo stesso Corriere, meno irriverentemente, il quirinalista storico Marzio Breda con il suo abituale e rispettoso acume politico ha attribuito a Sergio Mattarella, interpretando Marzio Breda.jpegpiù che rileggendo testualmente le sue parole, il tentativo di incoraggiare anche il governo e la sua maggioranza giallorossa, mai nominati dal capo dello Stato, a una “vera ripartenza”: segno, evidentemente, che la partenza della compagine ministeriale in carica da qualche mese, il cosiddetto Conte 2 o Bisconte, non è stata molto forte e incoraggiante.

            Più ottimisticamente, enfaticamente, retoricamente, come preferite, la Repubblica –quella di cartaha visto e indicato nel messaggio televisivo trasmesso dal Quirinale a reti unificate, Repubblica.jpegcome si dice, e ascoltato elettronicamente da più di dieci milioni di connazionali, addirittura “il manifesto della giovane Italia”: un manifesto tradotto a Bari La Gazzetta.jpegdalla Gazzetta del Mezzogiorno in una salutare “scossa” per un Paese troppo poco fiducioso e consapevole delle sue potenzialità, pur tanto note e apprezzate all’estero.

            La segretaria generale della Cisl Annamaria Furlan si è spinta sul Dubbio a vedere tra le righe del discorso del presidente della Repubblica una strigliata salutare al governo -ripeto, mai citato Furlan.jpegda Mattarella nel suo messaggio- perché la smetta di “fare da notaio nella Furlan.jpegpolitica industriale”, che sarebbe gestita quindi da altri, compresi i magistrati. Che sono notoriamente solerti quanto meno a coprire i vuoti politici, se non a scavalcare il potere esecutivo e persino quello legislativo, interpretando spesso le leggi in modo tale da costringere qualche volta il pur sonnolento o tollerante Parlamento a intervenire con leggi autenticamente interpretative di altre evidentemente approvate in termini non abbastanza chiari. E questo è uno scenario destinato a peggiorare con la fine, appena scattata, della prescrizione all’arrivo della prima sentenza di giudizio, se non vi si porrà rimedio rapidamente con l’applicazione della “ragionevole durata” dei processi imposta purtroppo solo genericamente dall’articolo 111 della Costituzione.

            Di positivo per Mattarella e i suoi cultori è sicuramente il fatto che il suo messaggio -con la sola eccezione quanto meno della Nazione, la testata toscana del Quotidiano Nazionale,  o QN,  in cui il gruppo Riffeser Monti ha unificato Il Giorno, il Resto del Carlino e la stessa  Nazione, dove in prima pagina non c’è traccia alcuna del discorso di Capodanno del capo dello Stato- ha retto benissimo alla concorrenza dell’altro evento che ha avuto invece in tutto il mondo un’eco ben maggiore. Papa arrabbiato.jpegMi riferisco allo scatto d’ira, o d’impazienza, di Papa Francesco, poi scusatosi pubblicamente di essersi troppo bruscamente sottratto alla fedele, schiaffeggiandone le mani, che aveva cercato di trattenerlo sporgendosi dalle transenne in Piazza San Pietro.

            Sulla inedita esperienza del Pontefice, che ha fornito a Matteo Salvini l’ennesima occasione di una controprestazione mediatica giocando sulla neve con la sua fidanzata, è da segnalare la felice ironia del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio e del vignettista del Secolo XIX Stefano Rolli. Il primo La cattiveria.jpegha usato la “cattiveria” quotidiana di prima pagina del suo giornale per chiedere che cosa mettano nell’incenso delle messe del Papa per renderlo così impaziente Rolli.jpegcon una fedele che di certo non gli voleva fare del male. Rolli invece ha fatto indossare al Papa la cintura nera delle arti marziali giapponesi. Che è un po’ quella appena indossata consapevolmente in politica dal senatore Gianluigi Paragone, espulso dal Movimento delle 5 Stelle come “dal nulla”, ha reagito il parlamentare diventato da qualche tempo il più esplicito e duro nel contestare, anche nelle votazioni al Senato, la leadership di Luigi Di Maio e le coperture sempre fornitegli alla fine dal garante e fondatore Beppe Grillo.

 

 

 

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Sergio Mattarella snobba la politica nel messaggio di Capodanno

       Per quanti sforzi abbiano fatto e continueranno a fare i cosiddetti quirinalisti per spiegare che il presidente della Repubblica si è tenuto lontano dalla politica nel messaggio televisivo di Capodanno perché se n’era già occupato nell’incontro augurale con le cosiddette autorità dello Stato, le distanze che Sergio Mattarella ha preso dal governo ignorandolo del tutto costituiscono l’elemento più significativo del suo discorso di San Silestro. Ciò spiega d’altronde il favore col quale il messaggio è stato apprezzato dalle opposizioni, o anche dalle opposizioni, nel cui ambito il più solerte è stato Silvio Berlusconi. Lo ha seguìto la pur scatenata Giorgia Meloni, che reclama ogni giorno crisi e  ricorso alle urne. Matteo Salvini invece, dissentendo dai “discorsi melliflui” tipo quello evidentemente da lui attribuito a Mattarella, ha preferito lanciare un messaggio dei suoi, “pronto a prendere per mano -ha detto- il Paese con l’aiuto di Dio e del cuore immacolato di Maria”. Che dovrebbero evidentemente ispirare al capo dello Stato le elezioni il più rapidamente possibile.

       Ho colto nel silenzio politico del presidente della Repubblica un certo imbarazzo, una certa delusione per la salute obiettivamente incerta della maggioranza giallorossa, sulla quale egli non esitò a scommettere qualche mese fa, pur di evitare lo scioglimento delle Camere, per chiudere la crisi del governo gialloverde provocata da Salvini comiziando sulle spiagge e dintorni.

        Quasi ingessato sulla poltrona allestita nell’improvvisato studio televisivo del Quirinale, in uno scenario più da mausoleo che da salotto, in verità, Mattarella ha avuto lo scrupolo, per esempio, di mandare un saluto devoto al Papa Francesco ma non  un pensiero, un apprezzamento, un augurio al governo della Repubblica, diversamente da altri presidenti e/o da altri Capodanni.

         Tutto il resto, scusatemi la franchezza, dalla fiducia riposta negli italiani all’appello al senso di responsabilità che tutti debbono mostrare e praticare per fare esprimere al Paese le sue potenzialità tanto apprezzate anche all’estero, mi è sembrato se non mellifluo, come ha detto Salvini, vagamente retorico e manieristico, per quanto appropriato, per carità, alla figura di un capo dello Stato.  Che non può certo essere confuso o scambiato né per un Masaniello né per una sardina. Il cui genere sembra andare molto di moda in questi tempi, dentro e fuori le piazze d’Italia.

 

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