Ce n’è per tutti i gusti leggendo le cronache e i commenti sulla preparazione della cosiddetta legge
di stabilità, anche su uno stesso giornale. Il Corriere della Sera, per esempio, riferisce in prima pagina dei “primi screzi nella maggioranza sulla possibile rimodulazione dell’Iva” e sul voto contrario già minacciato dal nuovo partito di Matteo Renzi, che quanto meno al Senato dispone dell’azione
d’oro del governo giallorosso. E nella colonna a fianco, con l’editoriale dell’ex direttore Paolo Mieli, il quotidiano milanese di via Solferino già ridimensiona tutto a “qualche scaramuccia”, utile a “rendere il clima più frizzante”, come l’acqua che probabilmente hanno bevuto i partecipanti al vertice notturno che Giuseppe Conte ha dovuto convocare e presiedere in vista del Consiglio dei Ministri.
Sarà pure “frizzante” il clima avvertito da Mieli, sarà pure brillante e sarcastico il rimprovero fatto dal nuovo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri all’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini di aver lasciato al governo “il conto del Papeete” da pagare, che sarebbe appunto un intervento sull’Iva, ma certo è che Matteo Renzi in persona ha avvertito, in una lunga
intervista al direttore del Foglio, che “l’aumento selettivo dell’Iva
sarebbe una presa per il naso selettiva”, cui il suo partito non si presterebbe, neppure per far “piangere i ricchi”, secondo una vecchia formula della sinistra. “Il mio obiettivo -ha avvertito l’ex segretario del Pd, ex presidente del Consiglio, il non più “semplice senatore di Scandicci” ma fondatore di Italia Viva e socio quindi autonomo e decisivo della maggioranza- non è la punizione sociale per chi sta bene ma aiutare chi sta peggio”.
Stupisce, a dire il vero che della lunga, anzi lunghissima intervista ottenuta da Renzi, pur titolata in prima
pagina “Manifesto per un governo vivo”, il direttore del Foglio Claudio Cerasa abbia scritto come di “un’ora di chiacchiere”. Alle quali non possono obiettivamente essere declassate le parole spese dall’intervistato per ribadire le ragioni della sua uscita dal Pd, rivendicare orgogliosamente la sua azione di governo, fra il 2014 e il 2016, descrivere non meno orgogliosamente l’ambizioso
progetto del partito “a due cifre” che ha in mente di ispirare e guidare e puntualizzare infine alcuni limiti delle improvvise aperture da lui fatte ai grillini: aperture, peraltro, nel momento non della loro maggiore forza, come sarebbe avvenuto l’anno passato, ma della loro maggiore debolezza, dopo la scoppola elettorale del 26 maggio scorso, nel rinnovo del Parlamento europeo.
I limiti posti da Renzi, in chiave allusivamente polemica con quanti nel Pd si sono già spinti oltre nella gestione dell’intesa con i pentastellati, risultano in tutta evidenza da questo passaggio, in particolare, dell’intervista: “ Non abbiamo fatto questo governo per diventare alleati in pianta
stabile di Casaleggio, sia chiaro. Salvare il paese è un dovere, salvare la Rousseau no. Alla fine di questa legislatura torneremo liberi e felici competitor…..Lavoriamo insieme al governo fino al 2023. Poi ognuno per la propria strada. Una bella stretta di mano e via, non un abbraccio per sempre”. Ciò significa il rifiuto dell’esperienza attuale, come sembra invece desiderare e sognare, per esempio, Dario Franceschini nel Pd, come l’antipasto di un bipolarismo costituito da Pd e grillini da una parte e centrodestra, o come diavolo esso vorrà o potrà chiamarsi alla fine delle ristrutturazioni in corso, dall’altra.
La stessa scadenza del 2023 indicata da Renzi, alla fine cioè della durata ordinaria delle Camere elette il 4 marzo del 2018, risulta ridimensionata in un altro passaggio significativo della sua intervista al Foglio. E’ quello nel quale egli ha tradotto l’intesa agostana di governo con i grillini
in “un anno di tempo” strappato all’Europa rientrandovi dopo la marginalizzazione praticata e vissuta per effetto del peso di Salvini durante il primo governo di Giuseppe Conte. Questo “anno di tempo”, terminato il quale si potranno valutare i risultati dell’operazione, scadrà ben prima della fine ordinaria della legislatura. E prima anche del passaggio istituzionale del 2022, quando scadrà il mandato di Sergio Mattarella e dovrà essere eletto il suo successore al Quirinale, o potrà essere confermato il presidente uscente, come ha auspicato di recente il capo del governo Giuseppe Conte, non certamente un passante a Piazza Colonna o alla adiacente Galleria felicemente dedicata alla memoria di Alberto Sordi.
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riconosco tutte le qualità”, ha detto Conte apprezzandone, in particolare, la “saggezza, l’equilibrio e la semplicità”. E’ “anche alla mano”, ha assicurato il capo del governo con l’esperienza maturata in più di un anno e mezzo di frequentazione diretta. Anche dal Colle è giunto un silenzio totale, almeno in pubblico, non so se più compiaciuto o imbarazzato, che tuttavia ha probabilmente aiutato il quirinalista della Stampa Ugo Magri a ritenere che dietro “la sviolinatura” del presidente del Consiglio “nulla induce a sospettare un piano di rielezione” di Mattarella.
dovesse vacillare, in modo da farsi rieleggere da questo Parlamento prima di vedersi costretto da una crisi a scioglierlo. Ma francamente viene fuori da una simile congettura un Mattarella troppo cinico o spregiudicato, almeno per i miei gusti e per l’idea che ho maturato di lui.
schieramento, allargato in verità a Silvio Berlusconi nell’assemblea di Strasburgo, ci fu subito chi ne interpretò la sortita come ritorno in campo proprio per il Quirinale. Dove il professore emiliano
sarebbe stato sicuramente eletto nel 2013, alla scadenza del primo mandato presidenziale di Giorgio Napolitano, se Stefano Rodotà si fosse lasciato convincere da
Beppe Grillo a rinunciare alla propria candidatura. Ma Rodotà, che i grillini avevano preso l’abitudine di applaudire nelle piazze ritmando le finali del suo nome, non volle neppure sentirne parlare. E lo stallo portò alla rielezione del presidente uscente.
Casaleggio vi si è lasciato intervistare telefonicamente dagli Stati Uniti. Dove ha un po’ dato il cambio, diciamo così, all’amico ministro degli Esteri e capo ancòra del movimento griillino Luigi Di Maio, che ne è appena partito per tornare alla Farnesina e lì incontrare ministri e sottosegretari pentastellati, giusto per dispiacere al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che dopo un incontro analogo aveva raccomandato con pubbliche dichiarazioni di non fare uso, o di farne uno parco, delle sedi istituzionali, dove le riunioni di partito, di corrente e quant’altro stonano un po’.
l’intervistatore lo ha interrogato sulle vicende interne al movimento. Dove le tensioni certamente non mancano, dopo il repentino cambio di alleati al governo, come anche i problemi di Di Maio. Che è ormai talmente
preoccupato, sorpreso, scandalizzato e quant’altro da quello che ha appena definito “il mercato delle vacche” parlando dei grillini passati o tentati di passare ad altri partiti, da avere posto sul tappeto del dibattito politico, e dei rapporti con i suoi nuovi alleati, il cosiddetto vincolo di mandato dei parlamentari: l’opposto di quanto oggi stabilisca la Costituzione e sia in un uso nella quasi totalità dei Paesi democratici. Multe ed espulsioni dalla Camera di appartenenza, o qualcosa del genere: questo dovrebbe essere il destino dei dissidenti dalle decisioni di turno dei vertici del partito nelle cui liste sono stati eletti.
Corte Costituzionale. E quel che resta non è certamente poco, anche se i giudici hanno cercato di facilitare il compito ai legislatori elencando una serie di condizioni e principi cui attenersi per non varare una norma destinata, magari, a tornare al loro esame, come la vecchia, su iniziativa di qualche tribunale incapace di applicarla.
irreversibile” e alla consapevole
determinazione del paziente di sottrarvisi. “Più liberi di morire con dignità”, ha giustamente titolato su tutta la prima pagina la Repubblica. “Consulta eutanasica”, ha titolato in piccolo, parlando di “sconfitta della solidarietà umana”, Il Foglio di Giuliano Ferrara in versione molto eminente, quasi cardinalizia.
questione di legittimità dell’articolo 580 del codice penale sollevata dal tribunale dove è sotto processo il radicale Marco
Cappato per l’assistenza fornita nel 2017, tra Italia e Svizzera, alla morte volontaria del tetraplegico Fabiano Antonioni- i giudici del Palazzo della Consulta avevano passato la parola al Parlamento l’anno scorso dandogli undici mesi per legiferare.
al presidente della Corte Costituzionale per “informarlo” dei disegni di legge giacenti sulla materia del suicidio assistito, e derivati, e del loro stato procedurale, come per chiedere molto tra le righe un altro po’ di pazienza ai giudici. Non l’avesse mai fatto, la povera Maria Elisabetta Casellati Alberti. Si sono rovesciati su di lei dubbi, moniti e persino qualche insolenza. E il Parlamento è rimasto così nudo, solo davanti alle sue insufficienze, e la legislatura davanti alla sua insolvenza: una pagina decisamente brutta per l’uno e per l’altra. Ma, in fondo, anche per la Corte Costituzionale, illusasi l’anno scorso di poter fare affidamento sull’uno e sull’altra, appunto.
a suo modo alla battaglia della mitica Greta per salvare il pianeta, affiancato questa volta dal ministro e compagno di partito Sergio Costa, appena confermato all’Ambiente, Luigi Di Maio dev’essere rimasto maluccio apprendendo le notizie giuntegli da Roma. Dove 70 dei 103 senatori pentastellati hanno tentato di fargli la festa in un’assemblea, diciamo così, infuocata. Non sono volate contro di lui solo grida, ma anche parole scritte in un documento che una certa carità di movimento, gestita dal vice presidente del gruppo che presiedeva l’assemblea, non ha fatto mettere ai voti.
all’uscita da una riunione della giunta del Senato per le autorizzazioni a procedere, è stato il più esplicito a contestare i troppi poteri concentrati nelle mani di Di Maio all’intero del movimento e, visto che si trovava, anche la sua scarsa competenza, per ragioni non foss’altro di età e di esperienza nel settore, per fare il capo della diplomazia italiana.
con la sola eccezione, almeno in prima pagina, del distratto -una volta tanto- Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, il giovane capo -ancòra- del movimento delle 5 stelle
eviti di sentirsi e dichiararsi vittima di notizie false, diffuse ad arte da una stampa perfida e prevenuta per danneggiarne l’immagine e il lavoro nel quale è impegnato. E di cui fa parte in questi giorni la preparazione, la regìa e quant’altro dell’elezione dei nuovi capigruppo parlamentari, dopo la promozione al governo di quelli uscenti. E’ un lavoro diventato particolarmente difficile alla Camera per la maggiore presenza e partecipazione degli amici del presidente di Montecitorio Roberto Fico, non proprio in linea con Di Maio, e al Senato per i numeri, al solito, molto stretti della maggioranza di governo, per cui malumori non gestiti con la necessaria accortezza potrebbero provocare seri e irreparabili danni.
è anche per questo che sembra avere perso quota nelle ultime ore la candidatura a capogruppo pentastellato al Senato dell’ex ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, cui lo stesso Di Maio sembra che avesse pensato per compensarlo del posto negatogli al governo, dopo le notissime vicissitudini del no-Tav affossato alla fine dal presidente del Consiglio in persona. Che decise di dire sì facendo poi finta di non accorgersi di una mozione presentata proprio al Senato dai grillini per cercare di sconfessarlo, con la scusa di impegnare ancora per il no l’assemblea di Palazzo Madama, anziché il governo. La mozione fu naturalmente bocciata per la convergenza fra le opposizioni e i leghisti, ancora per qualche ora partecipi della maggioranza gialloverde. Ma ormai è storia vecchia, anzi vecchissima, nonostante risalente solo al mese scorso: esattamente il 7 agosto.
Luciana Lamorgese con i colleghi di Francia, Germania e altri paesi riuniti a Malta in vista del Consiglio degli Affari Interni dell’Unione convocato per l’8 ottobre a Lussemburgo, il leader leghista ha liquidato tutto come una “sòla” e “calata di braghe”.
generale delle Nazioni Unite. Egli si è vantato, in particolare, con la solita enfasi del Fatto Quotidiano in prima pagina, che “abbiamo fatto più a Malta in un giorno di Salvini in un anno”. E’ un po’ la ripetizione, o prosecuzione, della gaffe compiuta di recente dallo stesso Conte raccontando un una festa di partito
che l’ospitava di avere trascorso troppo tempo al telefono, nella sua prima esperienza di presidente del Consiglio, con una maggioranza gialloverde, a chiedere ai suoi omologhi europei “la cortesia personale” di farsi carico di un po’ dei migranti bloccati al largo dal suo ministro dell’Interno. Da cui pertanto in qualche modo egli prendeva e continua a prendere distanze non meno imbarazzanti degli eccessi che potevano essere stati compiuti dal suo allora alleato di governo. Ma alle gaffe di Conte l’ex ministro dell’Interno dovrebbe cominciare a sapere opporre atteggiamenti diversi, costruttivi, non foss’altro per evidenziarne i torti. Non ci vuole molto, francamente, a capirlo.
sull’Europa che “si è desta”. Non è tanto desta, per esempio, da farsi carico anche degli sbarchi che avvengono quotidianamente sulle coste italiane con barche a vela, a motore e gommoni senza preventivi soccorsi in mare, per cui risultano a questo punto privilegiate, con le ripartizioni concordate di massima a Malta, le operazioni delle navi del cosiddetto volontariato. Se n’è resto conto, del resto, anche il presidente del Consiglio quando ha promesso, sempre a New York, smentendo quindi il trionfalismo di altre sue dichiarazioni, che “non accetteremo alcun meccanismo che possa risultare incentivante per nuovi arrivi”.
dalla crisi promossa il mese scorso lo scioglimento delle Camere e il ricorso anticipato alle urne. Egli sta scambiando per elezioni politiche, a strascico, le pur rilevanti ma diverse elezioni regionali in programma nei prossimi mesi, a cominciare da quelle del 27 ottobre in Umbria. Scambia insomma per politiche le elezioni regionali come quelle europee del 26 maggio scorso, con tutti gli effetti che ne sono derivati quando ha tentato di “capitalizzarne” i risultati, secondo la formula adottata e contestatagli da Conte. Peccato per lui, Salvini, che pure aspira a diventare prima o poi presidente del Consiglio, a dispetto del cordone quasi sanitario che cercano di creargli intorno gli avversari, perché il pregiudizio è un cattivo affare, sia in entrata sia in uscita, cioè sia quando lo si subisce sia quando lo si pratica.
bruscamente interrotto le emozioni itineranti, diciamo così, del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, compiaciuto di frequentare “per la prima volta” tante feste o raduni di partito e di sindacato, si è visto e sentito invitare per via elettronica, attraverso un messaggio su facebook, a smetterla di parlare di nuove tasse o balzelli. Così aveva fatto il presidente del Consiglio, per esempio, in una delle sue sortite di fine settimana aprendo alla proposta del ministro grillino della Pubblica Istruzione e dell’Università, Lorenzo Fioramonti, di finanziare interventi sulla scuola con tasse su merendine, bevande gassate e viaggi aerei.
quello di abbassare le tasse, non di aumentarle. E’ totalmente sbagliato scatenare un dibattito ogni giorno per parlare di nuovi balzelli”. E, immaginando già gli effetti della sua uscita, perché ormai una certa esperienza politica se l’è fatta, ha aggiunto: “Qualcuno dice che stiamo dando un ultimatum al governo. Ma io non sono stato eletto per passare le mie giornate a dire che non è così”, fuori e dentro il suo stesso partito.
E’ il presidente della federazione locale degli albergatori Vincenzo Bianconi. “E’ una candidatura bella e forte”, ha commentato il segretario del Pd Nicola Zingaretti. “Vincenzo è supercompetente”, ha garantito Di Maio chiamando significativamente per nome l’amico. Che, dal canto suo, ha assicurato di “amare” la sua terra, come Silvio Berlusconi disse dell’Italia candidandosi nel 1994 alla guida del governo. E non è forse casuale che Bianconi nelle già citate elezioni di maggio avesse sostenuto una candidata berlusconiana al Parlamento europeo.
sindaca di Assisi, Stefania Proietti, e di
Francesca Di Maiolo, presidente dell’Istituto Serafico, sempre di Assisi. Donna era anche la presidente piddina uscente della regione, travolta dalle indagini giudiziarie sulla sanità. Donna infine è la candidata del centrodestra Donatella Tesei, sponsorizzata in modo particolare da Matteo Salvini, che ostenta ottimismo di fronte ai problemi incontrati dai suoi avversari sulla strada dell’intesa, cambiando -secondo lui- troppi candidati e “prendendo in giro” gli elettori con la “maschera” di una soluzione “civica”, dietro la quale nascondere i partiti rimasti ugualmente protagonisti.
è già stata esclusa la sua partecipazione ai prossimi rinnovi delle amministrazioni regionali, risulta provenire per l’1,8 per cento dalla formazione +Europa di Emma Bonino e Bruno Tabacci, peraltro in crisi per l’opposto atteggiamento assunto dai due in Parlamento: l’una negando e l’altro accordando la fiducia al secondo governo di Giuseppe Conte. Per l’1,6 per cento l’area d’interesse per Renzi proviene dal Pd e per l’1,5 da Forza Italia, alla quale però basta e avanza questo per ritrovarsi sotto Italia viva nella graduatoria dei partiti.
contrasti già esplosi nel Pd, ma per dire che l’argomento non lo eccita per niente. Egli si è vantato di avere tentato, per quanto inutilmente, di rafforzare con le sue riforme il sistema maggioritario, quando era al governo, e di essere indifferente davanti alle modifiche di cui si parla, essendo convinto che le sorti del suo nuovo partito saranno positive in tutti i casi, cioè con qualsiasi sistema di voto.
sue iniziative. Tornano quasi a sovrapporsi, inseguendo la Procura fiorentina, i titoli
di due giornali pur così diversi fra loro come Il Fatto Quotidiano di Matteo Renzi e la Verità di Massimo Belpietro, entrambi molto attenti alle indagini che da Arturo Bianchi, il presidente della peraltro disciolta “Fondazione Open”, come ha ricordato lo stesso Renzi nella già citata intervista al Messaggero, si sono estese al gruppo abruzzese di Alfonso Toto.
ben 40 tentativi praticamente falliti di animare o rianimare il centro negli ultimi 25 anni. Ed Eugenio Scalfari sulla sua Repubblica ha espresso addirittura l’opinione che Beppe Grillo sia “più saggio di Renzi”.
dai grillini col 32 per cento e più di voti l’anno scorso e con la conseguente forza di cui dispongono in Parlamento, messa in sicurezza dalla maggioranza giallorossa che ha consentito al presidente della Repubblica di non chiudere la crisi d’agosto con lo scioglimento delle Camere e con le conseguenti elezioni anticipate, come reclamato invece da Matteo Salvini -dopo avere raddoppiato i voti della Lega e dimezzato quelli penstalleati nelle elezioni europee del 26 maggio- dagli altri partiti del centrodestra ancora operante a livello locale e per un po’ anche dal segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che poi si è allineato alla posizione di Dario Franceschini e infine di Renzi. La cui concezione però della maggioranza giallorossa va sempre più rivelandosi diversa dai suoi ex compagni di partito. Lo si capisce, fra l’altro, da queste dichiarazioni del renzianissimo Sandro Gozi, attuale consigliere del presidente francese Emmanuel Macron, alla Repubblica di ieri: “L’alleanza con i grillini è stata dettata dalla necessità democratica e di rilancio europeo contro
la politica dei pieni poteri” reclamati da Matteo Salvini, “ma per noi non è una prospettiva politica”, come mostrano invece di intenderla nel Pd i fautori delle intese anche locali col movimento delle 5 stelle. E ciò, va detto, anche se Renzi, sempre al Messaggero, ha voluto precisare che “se umbro, voterebbe” il 27 ottobre per la presidenza della regione il candidato civico su cui stanno trattando ancora faticosamente, almeno nel momento in cui scrivo, piddini e grillini all’insegna della soluzione “civica”. Renzi tuttavia è toscano. E si vedrà cosa dirà se anche nella sua regione si tenterà nei prossimi mesi una soluzione analoga.