Vita difficile per i nuovi dorotei, impegnati nel Pd a inseguire i grillini

Come ha detto con sorprendente levità Matteo Salvini commentando le condizioni della maggioranza gialloverde dopo le votazioni al Senato sulla Tav, “qualcosa si è rotto” anche nei rapporti fra i grillini e i “dorotei” del Pd, come io chiamo -e vi spiegherò perché- quelli che da qualche tempo coltivano più o meno apertamente la speranza di potersi inserire nelle tensioni fra grillini e leghisti per aiutare i primi a fare a meno dei secondi, sostituendoli col maggiore partito della sinistra.

Nelle votazioni parlamentari sulla realizzazione della linea ferroviaria per il trasporto ad alta velocità delle merci dalla Francia all’Italia il Pd si è ritrovato non con i grillini ma con i leghisti. E ben poco sarebbe cambiato se i nuovi “dorotei” fossero riusciti a strappare al loro partito la decisione di disertare tutte le votazioni per non confondersi, appunto, con i leghisti. La mozione grillina per un no alla Tav formalmente attribuito al Parlamento e non al governo, nello specioso tentativo di lasciare fuori dalla contesa il presidente del Consiglio schieratosi per il sì, sarebbe stata ugualmente bocciata.

A salvare i rapporti fra i “dorotei” del Pd e i grillini difficilmente basterà il rammarico espresso per la gestione del passaggio parlamentare dall’ex capogruppo del Pd al Senato e ora tesoriere del partito, Luigi Zanda. Che rappresenta la corrente di Dario Franceschini nella delegazione incaricata recentemente dalla direzione del partito di seguire gli sviluppi della situazione politica nella speranza di una crisi.

I “dorotei” piddini hanno dovuto ingoiare  non solo la partecipazione alle votazioni, ma anche una modifica, all’ultimo momento, della mozione del loro gruppo, a favore della Tav, per consentire ai leghisti di approvarla interamente. E’ stato eliminato, in particolare, un passaggio polemico verso il governo, che avrebbe comportato la votazione del documento per parti separate.

Ma perché chiamo “dorotei” i piddini favorevoli, pur con varie sfumature o modalità, ad un’intesa con i grillini, con o senza la condizione di un preventivo passaggio elettorale? Che è stata posta dal segretario del partito Zingaretti nel tentativo di ridurre le tensioni interne e di scongiurare il disegno di una scissione attribuito, a torto o a ragione, a Matteo Renzi.

I “dorotei”, dal nome della santa protettrice delle suore nel cui convento si riunirono a Roma, nacquero come corrente della Dc nel 1959 per rivolta contro Amintore Fanfani, formalmente accusato di volere correre troppo verso i socialisti, superando il centrismo degli anni degasperiani, ma in realtà inviso per una certa bulimia di potere. Essa era stata avvertita nella decisione presa dal segretario della Dc, dopo il successo elettorale del 1958, di fare anche il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri.

A dimostrare che l’elemento distintivo dei “dorotei” fosse il potere, da conservare e insieme distribuire equamente fra di loro, e non la linea politica, fatta di programmi e di alleanze in un partito a Fanfani e Moro.jpgmaggioranza relativa e non assoluta, fu il fatto che Aldo Moro, chiamato a succedere a Fanfani alla guida dello scudo crociato, non ripudiò per niente le aperture ai socialisti. Fu lui, anzi, a completare l’operazione politica di Fanfani con una più accorta gestione realizzando personalmente nel 1963 il primo governo di centro-sinistra “organico”, a partecipazione cioè dei socialisti, al posto dei liberali dei governi centristi e in aggiunta ai socialdemocratici e ai repubblicani.

Nonostante si fosse guardato bene, visti i precedenti di Fanfani, dal cumulare troppe cariche lasciando la segreteria del partito all’amico di corrente Mariano Rumor, anche Moro finì per essere sospettato di volere rimanere troppo a lungo, e a tutti i costi, sulla scena da protagonista. Gli fu rimproverato dai colleghi di corrente di essere troppo aperto e tollerante con i socialisti, che pure non erano ancora quelli guidati dal volitivo e giovane Bettino Craxi, ma dall’anziano Pietro Nenni, e di averne anche favorito l’unificazione con i socialdemocratici. Di cui nella Dc temevano di fare le spese elettorali nel 1968, al rinnovo delle Camere.

Nonostante l’unificazione socialista fosse sostanzialmente fallita nelle urne, e destinata a dissolversi rapidamente anche a livello organizzativo, i “dorotei” pretesero dopo le elezioni la rimozione di Moro da Palazzo Chigi. Dove, pur di insediarsi al suo posto, Rumor offrì ai socialisti una edizione del centro-sinistra “più incisiva e coraggiosa”. Che tuttavia non bastò al Psi non più unificato, che reclamò poco dopo “equilibri più avanzati” ancora: tanto avanzati che il centro-sinistra non resse alla prova e si dissolse nelle emergenze della “solidarietà nazionale” col Pci e del terrorismo. Si passò negli anni Ottanta al “pentapartito”, comprensivo di liberali e socialisti, grazie alla svolta socialista di Craxi.

Ditemi voi, con questi precedenti, se sbaglio, o sbaglio più di tanto, a considerare “dorotei” quelli che nel Pd inseguono i grillini pur di recuperare il potere perduto con la sconfitta elettorale dell’anno scorso.

 

 

Publicato su Il Dubbio

Accomunati nella sconfitta sulla Tav grillini e corteggiatori del Pd

            Quei 181 voti con i quali è stata bocciata al Senato la mozione dei grillini contro la linea ferroviaria per il trasporto delle merci dalla Francia all’Italia, nota come Tav, non hanno segnato soltanto la sconfitta del Movimento 5 Stelle.

            Non meno significativa, se non addirittura più decisiva sul piano delle prospettive politiche, è la sconfitta subita all’interno del Pd, in una battaglia svoltasi sotto traccia, dalla componente più aperta ai grillini e disponibile a lavorare per una maggioranza con loro da cui estromettere i leghisti dopo un passaggio elettorale reclamato dal segretario del partito Nicola Zingaretti nella consapevolezza di non poterne disporre per l’esclusiva competenza, in questo campo, del presidente della Repubblica. Un cui rifiuto di sciogliere le Camere, in caso di crisi, comunque motivato, potrebbe rimettere in gioco nel Pd i favorevoli a un’intesa con i pentastellati, ben piantati in Parlamento con la rappresentanza uscita dalle urne del 4 marzo dell’anno scorso, a dispetto del dimezzamento dei voti subito due mesi fa nel rinnovo dell’Europarlamento.  Ma ora una prospettiva del genere si è fatta molto più difficile.

            Costretto dalla coerenza politica a votare contro la mozione grillina anti-Tav, il Pd si è paradossalmente ritrovato in maggioranza non coi i pentastellati ma con i leghisti e, più in generale, col centrodestra. La delusione, il disagio, il fastidio e quant’altro sono chiari nel rammarico espresso dall’ex capogruppo del Pd al Senato Salvini.jpge ora tesoriere del partito Luigi Zanda, un pezzo da novanta della corrente dell’ex ministro ed ex segretario Dario Franceschini. Che avrebbe preferito sottrarre il partito alla votazione sia per distinguersi dagli altri sì alla Tav sia  per cercare addirittura di far prevalere la mozione grillina, scommettendo in questo caso su una crisi di governo promossa dai leghisti.

            Questi ultimi invece sono usciti dal passaggio del Senato doppiamente vincenti. Essi hanno portato a casa -ad alta velocità davvero- sia la conferma del sì alla Tav, o alla versione maschile preferita dal Fatto Quotidiano, che ora Il Fatto.jpgaccusa la Lega di di volere più corpose “poltrone”, sia l’ulteriore ridimensionamento dei grillini all’interno della compagine ministeriale. Di  cui Luigi Di Maio sarà probabilmente costretto anche a subire un rimaneggiamento, o rimpasto, ben più di quanto non avesse immaginato o messo nel conto con la batosta elettorale del 26 maggio.

            Le capriole alle quali hanno dovuto ricorrere i pentastellati nel tentativo davvero disperato, e fallito, di salvare la faccia sono state davvero spettacolari. In particolare, essi hanno reinventato la centralità del Parlamento per affidargli l’ultima parola sulla Tav dopo averlo svuotato, o comunque depotenziato, con una riforma che ne ridurrebbe la consistenza e valorizzerebbe invece la democrazia cosiddetta dei referendum anche propositivi, per non parlare della valanga dei decreti legge di cui hanno sommerso le Camere e delle umilianti procedure sommarie imposte nell’esame del bilancio alla fine dell’anno scorso.

              In secondo luogo i grillini hanno dovuto umiliare, a dir  poco, il “loro” presidente del Consiglio, che si è tenuto fisicamente lontano dall’aula del Senato per non assistere allo spettacolo da “carrozzone”, secondo ilmanifesto.jpgil manifesto, di due sottosegretari che, in rappresentanza dello stesso governo ma per conto dei grillini e dei leghisti, si sono rispettivamente rimessi all’esito della votazione e rivendicato il merito di avere sostenuto l’opera contestata dai grillini e alla fine riconosciuta vantaggiosa da Conte per i maggiori costi che sarebbero derivati dalla rinuncia.

              In terzo luogo i pentastellati hanno paradossalmente aperto, dietro la facciata della ritrovata compattezza contro la Tav un’altra fase interna di recriminazioni di cui potrebbe essere destinato a subire prima o poi le estreme conseguenze il capo ancora formale del movimento, Di Maio. Che non a caso ha dovuto sconvocare all’improvviso una riunione congiunta dei  suoi gruppi parlamentari, così come Conte, dopo un incontro con Salvini, ha dovuto annullare una conferenza stampa già indetta precipitosamente per oggi.

             Pur di evitare una crisi e ancor di più le elezioni anticipate, Di Maio -si vedrà se anche Conte- ha tradotto il tanto declamato “cambiamento” sotto le stelle  in un personale salto indietro, ai tempi Gazzetta.jpge ai costumi della parte più disinvolta della buonanima della Dc: quella che si riconosceva nella massima andreottiana del “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ma ciò -va detto- senza avere della buonanima di Andreotti la conoscenza della macchina dello Stato, la proverbiale arguzia, che ne faceva un monumento, e le relazioni internazionali, ben oltre il Tevere più o meno largo di spadoliniana memoria: un Tevere che in un Paese cattolico come l’Italia, dove Salvini ostenta crocifissi e rosari nei comizi, è decisamente più importante del Po venerato dalla Lega di Umberto Bossi.   

 

 

 

Ripreso da www,startmag.it http://www.policymakermag.it

Gli allenamenti di Matteo Salvini alla Presidenza del Consiglio

             E’ inutile negarlo o fingere di non capire girandovi intorno con pretesti, e non con ragionamenti sensati. Quelle che un giorno sì e l’altro pure fa Matteo Salvini, dai comizi sui palchi a quelli sulle spiagge, dalle interviste ai messaggi elettronici, dai viaggi all’estero agli incontri con le cosiddette parti sociali nella sede del “suo” Ministero dell’Interno, specie dopo l’ultrasorpasso sui grillini eseguito nelle urne del 26 maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, sono allenamenti da presidente del Consiglio.

            Gli stessi capi dei due sindacati maggiori, la Cgil e la Cisl, che per riguardo al capo del governo in carica, Giuseppe Conte, hanno evitato di presentarsi al Viminale per il secondo incontro con ben 46 sigle Aalvini e sindacati 2 .jpgassociative in vista della manovra fiscale d’autunno annessa al bilancio, alla fine hanno convalidato la prova di forza, la sfida e quant’altro al presidente del Consiglio, se non vi piace l’immagine dell’allenamento, mandando all’appuntamento le loro brave delegazioni.

            Il problema, a questo punto, non è di Salvini, del contenuto delle sue proposte, dei suoi incontri, affiancato da ministri, sottosegretari ed esperti, della disponibilità a modificare leggi volute dai grillini, e votate anche dai leghisti, di fronte ai risultati contestati dalle parti sociali, e neppure dei minacciosi avvertimenti su una crisi che potrebbe scoppiare anche prima di settembre per “mandare tutti a casa”, o qualcosa del genere, dell’intenzione di “trattare” lui personalmente con l’Unione Europea la “flessibilità” necessaria ai suoi progetti, e persino delle sue assenze mai casuali dal Consiglio dei Ministri  Il problema è di Conte e dei grillini, che subiscono il gioco del leader leghista senza anticiparlo o contrastarlo davvero.

            A Conte Il Foglio non a torto ha rinfacciato, con una finestrella gialla in fondo alla prima pagina, i “67 giorni”  inutilmente Il Foglio.jpgtrascorsi dal 2 giugno, quando prima di volare per un viaggio in estremo Oriente egli minacciò le dimissioni se al ritorno non avesse trovato i suoi due vice, Luigi Di Maio e Salvini, in ordine alfabetico, finalmente d’accordo ad assumere le loro “responsabilità” adottando i “comportamenti conseguenti”.

            Ai grillini l’editorialista ed ex direttore di Repubblica Ezio Mauro altrettanto giustamente ha Repubblica.jpgrinfacciato la posizione o il ruolo di “prigionieri di se stessi” dopo avere deciso di evitare praticamente ad ogni costo il rischio delle elezioni anticipate rimanendo ai loro posti di governo, o aprendo ad un generoso rimpasto a favore dei leghisti, dopo avere perduto il 26 maggio metà dell’elettorato del 4 marzo dell’anno precedente.

            Ora, grazie alla…lungimirante decisione presa dalla sindaca grillina di Roma Virginia Raggi, non si può neppure Trinità dei Monti.jpgchiedere a Salvini di andarsi a sedere tranquillamente sulla scalinata di Piazza di Spagna per attendere il suo turno a Palazzo Chigi come presidente del Consiglio. Egli rischierebbe la multa, come chi soccorre i migranti in mare, specie dopo il secondo decreto legge sulla sicurezza appena convertito definitivamente in legge dal Senato.

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it policymakermag.it

Salvini ringrazia la Madonna per il salvataggio del decreto sulla sicurezza

            Abbronzato, vestito a dovere, con abito scuro, camicia bianca e cravatta, attorniato al Senato dai colleghi di governo e di partito, Matteo Salvini ha ringraziato “la Beata Vergine”, ricordandone peraltro “il compleanno”, per l’approvazione definitiva del suo secondo decreto legge sulla sicurezza. O per il mancato “biscottone” di una crisi, come ha detto la berlusconiana Stefania Craxi, convinta che in tal caso il leader leghista non avrebbe rimediato, né rimedierebbe se si ripresentasse l’occasione, lo scioglimento anticipato delle Camere e le elezioni ma la perdita del Ministero dell’Interno in chissà quale governo di quasi emergenza. Che verrebbe improvvisato dal presidente della Repubblica per mettere prima in sicurezza i conti dello Stato col varo e l’approvazione della cosiddetta legge di stabilità, senza ricorrere all’esercizio provvisorio pur contemplato dalla Costituzione. Ma in cui Sergio Mattarella vede lo spettro di una precarietà dannosa nell’Unione Europea, nei mercati finanziari e dintorni.

            La gratitudine alla Madonna ha esonerato il leader leghista dall’obbligo di ringraziare i numerosi assenti, fra Matteo Renzi.jpgi quali persino l’uomo del Pd che maggiormente l’avversa in pubblico. Che è l’ex segretario del partito ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, felicemente in Colorado. Assenti naturalmente anche i cinque grillini irriducibilmente contrari al provvedimento.

            A causa delle assenze, con 238 votanti su 315 senatori, senza contare i cinque a vita, il decreto avrebbe potuto essere convertito in legge con soli 109 voti. Di fronte ai quali i 160 raccolti a favore sono stati più che abbondanti, pur di un punto sotto la teorica maggioranza di un Senato nel pieno delle presenze.

            Allo spettacolo delle apparenze festose ha voluto partecipare anche la capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini, inutilmente proposta peraltro all’avvio della legislatura da Salvini alla presidenza del Senato, Anna Maria Bernini.jpgvantando la dimostrazione antigovernativa data, secondo lei, dai colleghi di partito rimasti in aula durante la votazione conclusiva per non fare scendere ulteriormente il cosiddetto quorum della maggioranza. Ma assenze ci sono state anche tra i forzisti, attraversati in questo periodo da una crisi più grave del solito, con l’annunciata o minacciata nascita di un nuovo partito guidato dal governatore della Liguria Giovanni Toti, che non muore certo dalla voglia di vedere Salvini in difficoltà.

            La “Beata Vergine” onorata dal leader leghista vigilerà probabilmente anche sull’ultimo passaggio difficile prima delle ferie del Senato: quello voluto dai grillini con una mozione per far credere che il loro Movimento rimane contrario alla Tav -la linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci dalla Francia all’Italia- anche dopo che il governo ne ha confermato e sbloccato la realizzazione. Vale evidentemente anche per loro la celebre “moglie mia, d’agosto non ti conosco”.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it policymakermag.it

Quel curioso conflitto d’interessi attribuito al Quirinale

Ogni tanto, in questa estate davvero scomposta, oltre che torrida, si leggono segnali e messaggi troppo allusivi contro Sergio Mattarella perché si possa continuare a fare finta di nulla. L’allusione principale è ad una specie di conflitto d’interesse al Quirinale di fronte all’ipotesi delle elezioni anticipate in caso di crisi.

Più che dalla preoccupazione di danneggiare immagine e conti dello Stato, prima di metterli in sicurezza con la nuova legge di cosiddetta stabilità, e relativo bilancio, il presidente della Repubblica sarebbe condizionato dalla voglia di una rielezione, sovente viene attribuita, a torto o a ragione, all’inquilino di turno del Quirinale quando si avvicina la scadenza del suo mandato. Che in questo caso tuttavia non è proprio imminente, mancando tre anni. Ma -si sa anche questo- le corse al Colle più alto di Roma cominciano sempre con largo anticipo, almeno nella fantasia dei cronisti, retroscenisti e quant’altri. Che precedono la partenza dei corridori.

Ciò accadeva già ai tempi della cosiddetta Prima Repubblica, con la complicità degli uomini soprattutto della Dc che si posizionavano anzitempo dove ritenevano di potersi trovare avvantaggiati al momento opportuno:  per esempio, insediandosi al vertice di Palazzo Madama come nell’anticamera del capo dello Stato, poiché il presidente del Senato diventa supplente al Quirinale in caso di impedimento del titolare. Ma l’espediente non funzionò nel 1971, quando Amintore Fanfani da presidente appunto del Senato si fece candidare dal suo partito per la successione al socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che un pensierino per la rielezione lo aveva fatto pure lui, fallendo come Fanfani nella scalata, sconfitto dagli avversari interni allo scudo crociato.

Costoro, vinta da “franchi tiratori” la battaglia contro “il nano maledetto, non sarai mai eletto”, come uno si spinse a scrivere sulla scheda che Sandro Pertini da presidente della Camera evitò di leggere scrutinandola, non ebbero poi la forza numerica di far passare nei gruppi parlamentari la candidatura di Aldo Moro e ripiegarono alla fine, quasi sotto le luci dell’albero di Natale, sul collega di partito Giovanni Leone. Che, defilato dal gioco delle correnti, era stato più volte presidente della Camera e poi anche presidente, sia pure balneare, del Consiglio dei Ministri.

Mattarella, a sentire e a leggere chi certamente non ha molte simpatie per lui, vorrebbe salvare ad ogni costo le Camere in caso di crisi perché la sovra-rappresentazione dei grillini, dopo il tonfo elettorale del 26 maggio scorso, gli consentirebbe appunto la rielezione con l’aiuto del Pd. Le cui componenti smaniose di aprire al Movimento delle 5 Stelle per sostituire i leghisti godrebbero non a caso del pur doverosamente silenzioso sostegno del presidente della Repubblica nel braccio quasi quotidiano di ferro con Salvini.

Peccato, almeno per chi la coltiva, che questa storia stia politicamente poco in piedi, ammesso e non concesso che davvero Mattarella, o anche Mattarella, sia stato preso dalla voglia di una conferma. Né fra i grillini né fra i piddini, che fra di loro fanno per ora più rima che altro, la strada di un’intesa di governo, in caso di crisi, per scongiurare le elezioni anticipate e salvare la legislatura fortunosamente uscita dalle urne del 4 marzo del 2018, si vedono francamente le condizioni unitarie necessarie non dico a un matrimonio, ma almeno ad una convivenza.

Ma poi chi l’ha detto che i grillini abbiano la voglia e la capacità di confermare Mattarella al Quirinale, peraltro proprio nell’ultimo anno della legislatura, nel 2022, prenotando una sconfitta elettorale non meno vistosa e rovinosa di quella del 26 maggio scorso? Dei grillini, nei riguardi di Mattarella, personalmente ricordo solo il tentativo compiuto, e abortito, di promuoverne il processo davanti alla Corte Costituzionale l’anno scorso per alto tradimento, avendo osato rifiutare il ruolo di passacarte di fronte alla lista dei ministri portatagli da Giuseppe Conte.

Ricordo inoltre che a quella clamorosa iniziativa annunciata alla Robespierre dal  candidato alla vice presidenza del Consiglio e capo dei pentastellati Luigi Di Maio il primo ad opporsi, procurandosi l’accusa di vigliaccheria politica, o qualcosa del genere, fu il “capitano” leghista Matteo Salvini. Che pure, se avesse voluto, avrebbe potuto contestare al presidente della Repubblica di non avere conferito l’incarico di formare il governo a lui, che sorpassando nelle urne Silvio Berlusconi  aveva assunto la leadership di un centrodestra uscito vincente dalle elezioni, col 5 per cento dei voti in più dei solitari grillini.

Va bene che le cose e anche le idee, gli umori, i sentimenti e i risentimenti cambiano, non essendo notoriamente, e qualche volta per fortuna, dei paracarri. Ma sarebbe pur sempre consigliabile un po’ di memoria e di prudenza nell’approccio a certi problemi, e a certe scadenze che in passato sono costate la faccia a un bel po’ di partiti e di leader, veri o presunti che fossero.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Il filo diretto di Salvini col Paradiso…e un pò anche con Berlusconi

              Stanco ma non sfinito, forse, dalle vacanze sulla spiaggia di Milano Marittima, con annessi e connessi, Matteo Salvini si è concesso le penultime battute contro i compagni grillini di governo nella festa leghista di Colico. Dove “il capitano” si è riconciliato con le immagini religiose dei suoi comizi elettorali cantando la Madonnina dai riccioli d’oro, “in filo diretto col Paradiso”, come dice il testo in apertura.

            In filo diretto, ma giù dal palco di Colico, e forse già dalla spiaggia romagnola dove aveva adorato ben altro, il leader leghista deve essersi informato in questi giorni con i suoi di Palazzo Madama Schermata 2019-08-05 alle 06.35.15.jpgsulle assenze dei forzisti di Silvio Berlusconi e dei fratelli d’Italia di Giorgia Meloni nel momento in cui si voterà per la conversione finale del decreto sulla sicurezza da lui così fortemente voluto. La cui sorte è minacciata dai soliti mal di pancia sotto le 5 stelle, aggravatisi ultimamente con la rottura fra Di Maio e un fedelissimo di Davide Casaleggio e di Beppe Grillo: Max Bugnai.

            In verità, come ha ricordato Paolo Mieli sul Corriere della Sera, citando per altri motivi un recente sondaggio curato da Roberto D’Alimonte per Il Sole-24 Ore, l’86  per cento di quel che rimane dell’elettorato di Berlusconi smania di essere richiamato alle urne, per quanto esse siano diventate poco divertenti per il Cavaliere, ma ben diverso è lo stato d’animo dei parlamentari forzisti eletti l’anno scorso. Che sanno di poter tornare in pochi al prossimo rinnovo delle Camere, per cui se possono dare una mano a Salvini, loro alleato peraltro in tante amministrazioni locali, per risparmiargli una crisi lo fanno volentieri.

            Lo stesso si può dire, in fondo, anche per i senatori del Pd, pur così pugnaci a voce contro il governo e, sempre a voce, smaniosi di tornare alle urne, questa volta con la speranza concreta di ritrovarsi più numerosi di un anno fa, ma anche interessati ad evitare passi falsi. E tale potrebbe rivelarsi una crisi chiusa dall’imprevedibile presidente della Repubblica, ostinato nella difesa dei conti dello Stato, con la formazione di un governo gravato solo del compito di varare una manovra fiscale a dir poco impopolare. Cui i piddini potrebbero essere costretti a contribuire per quello stesso senso di responsabilità e sacrificio chiesto loro dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano all’epoca di Mario Monti a Palazzo Chigi.

            Sarebbe uno scherzo da prete per il partito che anche Nicola Zingaretti peraltro è costretto a guidare Zingaretti.jpgmettendosi le mani fra i capelli che non ha, visto che non passa giorno senza che pure lui, come Matteo Renzi ai suoi tempi, debba registrare mugugni, scricchiolii e  venti di scissione: stavolta soffiati dai renziani dispersisi all’ultimo congresso fra più gruppi ma rimasti uniti nel rifiuto di accordi o inciuci con i grillini, anche adesso che i numeri elettorali dei pentastellati fanno meno paura grazie alla dieta imposta loro da Salvini.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it policymakermag.it

La dannazione marittima del ministro dell’Interno Matteo Salvini

             Il mare è diventato una dannazione per Matteo Salvini: una dannazione sia quando egli cerca di blindare i porti per evitare gli sbarchi dei migranti, almeno quando sono trasportati da navi vistose, perché barchini, gommoni e simili accedono a Lampedusa e altrove fra la generale indifferenza, sia quando vi si reca per bagni e quant’altro, comprese conferenze stampa e improvvisati spettacoli da discoteca, e dintorni. Che hanno procurato al ministro dell’Interno la qualifica onoraria di deejay, o dj nella versione abbreviata e più diffusa.

            La Repubblica, quella di carta, peraltro orgogliosa del colpaccio fatto riprendendone il figlio scorazzato dalla scorta su una moto d’acqua della Polizia, ha deciso di costruire sulle vacanze Salvini.jpgmarine di Salvini una storiaccia a puntate. Mancano solo le rituali dieci domande con le quali cercare di inchiodare il leader leghista alle sue responsabilità, di sapore anche penale, come ai tempi di Silvio Berlusconi accorso da presidente del Consiglio alla festa di compleanno di una ragazza che lo chiamava “papy”, in Campania.

            Il Corriere della Sera, più contenuto, si è limitato a intimare al leader leghista il ritorno al Viminale con una breve nota dove manca, per fortuna e dignità di chi l’ha scritta, solo la parolaccia con la quale un ufficiale della Sarzanini.jpgCapitaneria di Porto di Livorno destinato a diventare senatore del Movimento 5 Stelle, e ad esserne poi espulso, ordinò al comandante Francesco Schettino di risalire a bordo della sua nave da crociera. Dalla quale lo sventurato era sceso, autosoccorrendosi dopo averla fatta sbattere rovinosamente con un “inchino” contro uno scoglio dell’isola del Giglio, e lasciando ancora a bordo incolpevoli viaggiatori ed equipaggio.

            Al Fatto Quotidiano lo spettacolo di Salvini a Milano Marittima ha naturalmente procurato “ribrezzo”, con vignetta Il Fatto.jpgannessa e connessa, per cui il ministro è diventato ancora più “cazzaro” di quanto già non fosse stato definito più volte col consenso della magistratura, vista l’assoluzione guadagnatasi dal direttore Marco Travaglio nel tribunale di Milano non marittima.

            Francamente, non so se siano più stucchevoli gli spettacoli da spiaggia del ministro dell’Interno, che in ogni caso rischia di suo come politico, anche se i sondaggi continuano a registrarne la crescita, o le dimensioni -quanto meno- delle reazioni dei giornali. Dove temo che non si avverta il pericolo di prestarsi al gioco del leader leghista, visti proprio gli andamenti dei sondaggi. Dei quali evidentemente Salvini si accontenta, non avendo voluto tentare con una crisi la strada delle elezioni anticipate, o avendo temuto e temendo di non ottenerle dal presidente della Repubblica. Che vuole prima mettere in sicurezza i conti dello Stato, e i rapporti con l’Unione Europea, facendo preparare e approvare  la cosiddetta legge di stabilità, e relativo bilancio, senza il ricorso all’esercizio provvisorio, pur previsto dalla Costituzione. Ma nella preparazione e nella gestione di questo passaggio politico e istituzionale potremmo assistere, fra l’autunno e l’inverno,  a spettacoli ancora più sorprendenti di quelli estivi di Salvini a Milano Marittima, peraltro depurata, nell’occasione, da rom e vù cumprà.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it policymakermag.it

 

L’imbarazzo di Conte con Ursula per le condizioni del governo gialloverde

             Al di là dei sorrisi e delle cortesie davanti ai fotografi, immagino l’imbarazzo in cui non ha potuto non sentirsi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte quando, a quattr’occhi, si è sentito chiedere notizie sulla salute del governo da Ursula Von der Leyen. Che è venuta anche a Roma nella perlustrazione delle Capitali dell’Unione Europea dopo l’elezione a presidente della nuova Commissione di Bruxelles da parte del Parlamento di Strasburgo.

            C’è in effetti qualcosa, e qualcuno, che sta peggio di Ursula e della sua costituenda Commissione, vista l’esiguità della maggioranza con cui lei ha passato l’esame dell’Europarlamento: il governo appunto di Conte. Che al Senato non ha una maggioranza numericamente migliore dei 9 voti di scarto della Von der Leyen a Strasburgo. E alla Camera, dove i margini sono abbastanza larghi, le cose stanno messe ugualmente così male che per evitare rischi i deputati sono stati mandati  frettolosamente in ferie per 38 giorni, rinviando a quasi metà settembre la discussione della mozione di sfiducia personale del Pd al vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini per il presunto finanziamento russo inutilmente cercato per il suo partito da altrettanto presunti emissari su cui indaga la Procura di Milano. 

            L’altro vice presidente del Consiglio, il grillino Luigi Di Maio, “stanco di litigare”, come ha titolato il Corriere della Sera una sua intervista, ha curiosamente cercato di smentire le liti, o di Corriere.jpgminimizzarle, mandando a dire a Salvini e, più in generale, ai leghisti: “Adesso prendiamoci i meriti delle cose fatte e continuiamo su questa strada”. Letteralmente: “su questa strada”, quella appunto delle liti quotidiane, dei messaggi e delle minacce trasversali, delle allusioni, degli sgambetti mediatici e parlamentari. Che i giornali riferirebbero con enfasi ingiusta e strumentale, allo scopo di “mettere zizzania” fra i sottoscrittori del famoso contratto di governo del cambiamento, come lo chiamarono l’anno scorso grillini e leghisti consegnandone la prima copia a Conte, professore di diritto e “avvocato del popolo”, secondo la sua stessa definizione. Che, designato in campagna elettorale come ministro della funzione pubblica di un ipotetico governo tutto a 5 stelle, fu promosso dopo le elezioni a presidente del Consiglio del governo bicolore gialloverde, con la partecipazione ingombrante del Carroccio.

            A questo punto, rovesciatisi nel Paese i rapporti di forza fra le due componenti del governo con i risultati delle elezioni europee del 26 maggio scorso, temendo i grillini giustamente le elezioni anticipate, e non gradendole neppure i leghisti per lo stato a dir poco confusionale in cui si trova il centrodestra, che obbligherebbe probabilmente il partito di Salvini a tentare da solo la scalata alla maggioranza assoluta dei seggi nelle nuove Camere, “dobbiamo pensare seriamente -ha detto Di Maio al suo omologo- a fare una cosa: governare”.

            In fondo, anche se molto, ma molto in fondo, “tutti i provvedimenti -ha detto Di Maio, sempre al Corriere della Sera- sono stati condivisi. Si è sempre lavorato con impegno e serietà. Continuiamo a farlo”. E pazienza se i mercati non ne hanno sentore, visto l’andamento del cosiddetto e famoso spread.

            L’eccesso di ottimismo di Di Maio è pari forse solo a quello di Silvio Berlusconi nella capacità di venire a capo della nuova, ennesima crisi della sua Forza Italia e di creare un nuovo contenitore, questa volta tutto di centro, per contrastare l’ormai destra “truce” di Salvini, come la chiamano Il Foglio.jpgal Foglio. Dove il Cavaliere, alla cui generosità Marcenaro.jpgil giornale fondato da Giuliano Ferrara deve la sua nascita ai tempi d’oro del centrodestra, continua ad essere avvertito come “l’amor nostro”, ha appena assicurato nella sua rubrica di prima pagina Andrea Marcenaro. Il quale però ha confessato che a seguire le evoluzioni berlusconiane, o “il sogno” di una destra “popolare senza essere populista”, come ha scritto il direttore Claudio Cerasa, gli è venuta “una botta di sonno”.

 

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Paradossale soccorso dei grillini a Berlusconi negli attacchi a Salvini

             Nella foga della polemica con i leghisti per la sostanziale bocciatura come “acqua fresca” della riforma della giustizia predisposta dal guardasigilli pentastellato Alfonso Bonafede i grillini sono paradossalmente riusciti a soccorrere l’odiato Silvio Berlusconi proprio nel momento della sua maggiore debolezza, mentre gli esplode fra le mani il partito. Dove la corte si è ulteriormente ristretta e praticamente aumentano, nella solita voglia di saltare sul carro del vincitore, i simpatizzanti di Matteo Salvini.

            Quando Bonafede, spalleggiato dal vice presidente grillino del Consiglio e capo del movimento Luigi Di Maio, alfonso Bonafede.jpgcerca di liquidare le obbiezioni di Salvini, e della ministra leghista Giulia Bongiorno che lo fiancheggia come avvocato sotto tutti i punti di vista, riconducendole alla politica e agli interessi di Berlusconi, appunto, fornisce a quest’ultimo un argomento nella polemica con i dissidenti di Forza Italia, o come altro ha in testa di chiamare il suo partito il Cavaliere alla ricerca di un’Italia diversa da quella attuale. Che pure è nata o cresciuta, come preferite, grazie anche a lui che, bene o male, l’ha governata a più riprese, direttamente o indirettamente, per buona parte della cosiddetta Seconda Repubblica. E ciò senza parlare del sostegno da lui dato ad alcuni protagonisti della Prima Repubblica, quando era “solo” un imprenditore, con tre reti televisive a disposizione e contorni vari.

            Che bisogno c’è di cambiare e di pensionarmi -potrebbe dire Berlusconi ai malpancisti del suo partito- se siamo ancora protagonisti e facciamo tanta paura ai nostri vecchi e nuovi avversari? E così anche il governatore della Liguria Giovanni Toti, inventato politicamente dal Cavaliere selezionandolo fra i giornalisti delle sue televisioni, può essere rimosso da un giorno all’altro da “coordinatore” di Forza Italia e praticamente costretto all’uscita, sulle orme di Gianfranco Fini prima e di Angelino Alfano poi, ai tempi del Pdl.

            Toti può ben considerarsi, a dispetto delle ambizioni che nutre, come quelli che lo hanno preceduto nella pratica del dissenso e infine della rottura col Cavaliere, il trentacinquesimo delfino spiaggiato dopo i 34 cetacei morti da gennaio nelle acque del Tirreno, di cui gli ultimi tre in soli tre giorni. In una cosa Berlusconi non sbaglia, neppure nelle dimensioni elettorali via via più ridotte del suo partito, e nella sonnolenza che ogni tanto lo prende per comprensibilissime ragioni di età: nel prevedere scarsa fortuna per chi lo abbandona condannandosi o alla marginalità o al cambiamento di mestiere, o ritorno a quello originario.

            D’altronde, anche chi soffre, nella corte che gli è rimasta accanto, della continua crescita di Salvini ha poco da recriminare contro il Cavaliere, avendone condiviso l’anno scorso il permesso accordato al leader del Carroccio di fare il governo con i grillini, pur di non andare alle elezioni anticipate e di non certificare ulteriormente la realtà del centrodestra a trazione leghista uscita dalle urne del 4 marzo col sorpasso del Carroccio su Forza Italia.

            Oltre al paradosso del soccorso a un Berlusconi mai così in difficoltà come adesso, i grillini compiono un falso storico quando ne evocano il fantasma dietro la separazione, per esempio, delle carriere fra giovnni falcone.jpgpubblici ministeri e giudici reclamata dai leghisti. Prima ancora che Berlusconi scendesse in politica, o vi salisse, come lui preferisce dire, la separazione delle carriere era stata condivisa da un magistrato come Giovanni Falcone. Non dico altro.

            Falso, sul piano della lotta alla prescrizione condotta dal guardasigilli, sino a inserirne la fine con la prima sentenza in una legge dall’enfatico titolo di “spazzacorrotti”, è anche l’argomento usato da Bonafede della correzione garantista, o garantistica, costituita dalla durata del processo penale fissata dalla riforma in sei anni, peraltro rispetto ai nove originariamente proposta dal ministro della Giustizia. Non ha la dignità, diciamo così, di una garanzia qualsiasi limite, di nove, sei e anche meno anni ancora, a violare il quale -e per manifesta negligenza affidata al giudizio dei suoi colleghi- un magistrato rischia solo una misura disciplinare. Che non può essere certo una sufficiente consolazione per l’imputato a vita, una volta che la prescrizione è cessata con la prima sentenza di condanna.  giulia bongiorno.jpgDi questo la ministra Bongiorno ha sicuramente maggiore esperienza di Bonafede come avvocato. E le è facile anche difendersi dall’accusa di volere boicottare le intercettazioni, limitandone la diffusione, dopo gli scontri avuti su questo terreno nelle scorse legislatura da esponente finiana del centrodestra proprio con l’odiato Berlusconi.

            Ci vuole obiettivamente del coraggio a chiamare riforma della giustizia quella proposta dai grillini e a liquidarne le critiche imprecando contro gli errori comportamentali e d’altro tipo che il leader leghista compie nelle funzioni di governo e di papà, a proposito del figlio scorazzato dalla scorta -scusate il bisticcio delle parole- su una moto d’acqua della Polizia.

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it policymakermag.it

Si avvicina la fine della prescrizione e si allontana la riforma del processo penale

            Chissà se le nove ore di tensione nel Consiglio dei Ministri e dintorni -tante ne hanno contate i cronisti- sulla cosiddetta riforma della giustizia predisposta dal guardasigilli Alfonso Bonafede, un po’  sfottuto da Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera come un Giustiniano mancato, hanno indotto il presidente della Repubblica a pentirsi del troppo ottimismo mostrato nella promulgazione della legge nota come “spazzacorrotti”. Dove c’è, quasi come un inciso, fortemente voluto dai grillini nonostante le resistenze e le riserve non solo e non tanto dei leghisti quanto del Consiglio Superiore della Magistratura presieduto dallo stesso capo dello Stato, la norma che dal 1° gennaio prossimo spazzerà via, con la sentenza di primo grado, la prescrizione. E affiderà anche agli assolti, in caso di ricorso da parte dell’accusa, a un processo praticamente a vita. Dalla “fine pena mai” dell’ergastolo si rischierà di passare al “fine processo mai” del rito antiprescrittivo.

            Ebbene, a cinque mesi dalla fine dell’attuale regime della prescrizione, modellato secondo la gravità dei reati e delle pene, la riforma del processo penale reclamata dai leghisti, e promessa dai grillini, per evitare di consegnare alle Procure le chiavi del processo come ai carcerieri quelle delle celle degli ergastolani, non si è avvicinata ma allontanata.  “Stallo sulla giustizia”, ha titolato La Stampa. Quella finta approvazione, con la formula ormai tristemente abusata del “salvo intese”, del disegno di legge predisposto come “acqua fresca”, secondo le parole del vice presidente leghista del Consiglio e La Stampa.jpgministro dell’Interno Matteo Salvini, negli uffici del Ministero della Giustizia permette tutti i dubbi. E tutte le paure, viste anche le condizioni di precarietà, quanto meno, in cui si trascina il governo, fra minacce, annunci e rinvii di una crisi sullo sfondo di elezioni anticipate. Che potrebbero diventare funeste per chi le invoca per mostrare forza dai banchi delle opposizioni -a cominciare da Silvio Berlusconi, ora impegnato a trasferire la sua Forza Italia in un nuovo involucro chiamato L’Altra Italia– ma in realtà è il primo a sperare che vengano evitate con qualsiasi stratagemma.

            Quella legge con la supposta incorporata della fine della prescrizione, una volta arrivata al Quirinale per la controfirma del presidente della Repubblica e la promulgazione, sembrava destinata- nella migliore delle ipotesi, per i suoi sostenitori- ad uscirne solo all’ultimo momento utile, al limite dei trenta giorni concessi dall’articolo 73 della Costituzione. Sarebbe stato un modo per fare avvertire le perplessità di Mattarella. Ma all’improvviso, chissà per quale motivo, forse temendo di contribuire all’aumento della temperatura politica che aveva cominciato a salire per la campagna elettorale in alcune regioni e infine in tutta Italia per il rinnovo del Parlamento Europeo, il capo dello Stato si decise ad anticipare la firma, sorprendendo persino qualche collaboratore.  

 

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑