Proviamo a immaginare ciò che Salvini deve spiegare agli inquirenti di Repubblica

              Hanno ormai perduto la pazienza dalle parti della Repubblica di carta, dove sembra che nelle indagini, sfogliando la posta ordinaria e quella elettronica e chissà quant’altro, si siano spinti in pochi giorni molto più avanti della Procura di Milano, che pure ha cominciato ad occuparsi dell’affare molto prima, aprendo il solito fascicolo e mettendovi dentro nel mese di febbraio una copia dell’Espresso appena arrivata per le vie ordinarie all’edicola più vicina al Tribunale ambrosiano.

            Poiché non dispongono, per fortuna,  di manette e simili, d’altronde ancora vietate ai polsi di un senatore della Repubblica, quella vera, senza le procedure e le autorizzazioni imposte da ciò ch’è rimasto del vecchio articolo 68 della Costituzione sulle immunità, dopo i tagli apportati a furor di popolo nel 1993, ai tempi di “Tangentopoli”, gli inquirenti della Procura onoraria di Roma hanno mandato al vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno una specie di mandato a comparire.

            “Ora Salvini deve spiegare”, hanno intimato quelli di Repubblica in un titolo di prima pagina su “Moscopoli”, come ha acquisito il diritto di essere chiamata la capitale della Russia da quando proprio Salvini Repubblica.jpgha cominciato a frequentarla, da solo e in compagnia, prima e dopo essere entrato nel governo italiano. Ma cosa, in particolare, deve ancora “spiegare” il leader leghista, magari parlandone finalmente nell’aula di Montecitorio, visto che al Senato un tentativo è già fallito, miseramente scontratosi con l’annunciata decisione della presidente Maria Elisabetta eccetera eccetera di non far perdere tempo ai suoi colleghi di opposizione, e tanto più di maggioranza, con i “pettegolezzi giornalistici” sui viaggi di Salvini, sulle sue simpatie per Putin almeno sinora ricambiate, nonostante le complicazioni intervenute, e sui tentativi compiuti da comuni amici, per quanto inutilmente, almeno sino a questo momento, di rimediare alla Lega, all’ombra di qualche affare petrolifero, un po’ di rubli: non quelli, per carità, che a tonnellate venivano sistematicamente mandati dal Cremlino e dintorni all’allora Pci di Palmiro Togliatti e successori, ma abbastanza per fronteggiare almeno una campagna elettorale: qualcosa -si è sospettato e sventolato da sinistra nelle aule parlamentari- come 65 milioni di dollari-ex rubli.

            Che cosa deve ora spiegare o smentire di più, e per primo, l’incalzato leader leghista? Le ragioni per le quali prima si è accompagnato e fatto fotografare più volte col quasi omonimo Gianluca Savoi e poi ha mostrato di non averlo davvero mai conosciuto, neppure come il “soldato della Lega” ricordato ai giornali dal notissimo, sia pure ex parlamentare ormai, Mario Borghezio? O le ragioni per le quali Salvini, sempre lui, si è mostrato sorpreso di vedere Savoi anche a Villa Madama a brindare una decina di giorni fa con Putin, peraltro tenendo assai Savoini.jpgcafonescamente una mano in tasca, come se fosse l’ex presidente forzista del Senato Carlo Luigi Scognamiglio Pasini?  Che esordì a Palazzo Madama nel 1994 parlando appunto dallo scranno più alto con una mano in tasca. E poi, sempre parlando dell’ex presidente del Senato, continuando a prendersi molto sul serio, sino a viaggiare su una carrozza ferroviaria speciale e a fare fermare il convoglio alla stazione di comodo, suo e dei familiari, anziché a quella programmata per il pubblico comune e pagante.

            Eppure quel Savoi, come il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è premurato di accertare e comunicare facendo sentire “pugnalato” il suo vice presidente, era stato accreditato a quella cena proprio dagli uffici di Salvini D'Amico e Savoini.jpgnelle persone di una segretaria chiamata Barbara e di un collaboratore di rango, diciamo così, Salvini xon D'Amico.jpgClaudio D’Amico, consigliere per le “attività strategiche internazionali”. E speriamo che non ce ne sia anche per le attività tattiche, nazionali e non solo internazionali, con competenze -Dio non voglia- anche nella gestione delle pratiche dei porti e degli sbarchi. Con i tempi che corrono e le Carole in adorazione o processione si potrebbero avvertire brividi di paura.  

            Ma la cosa che, a questo punto, mi sembra più urgente e sensato chiedere a Salvini, o a proposito di Salvini, è un’altra: come ha fatto il leader leghista, con questo metodo di lavoro e selezione di personale che sta emergendo a proposito di quella che a Repubblica chiamano “Moscopoli”, forse per l’imperdibile rima con “Tangentopoli”, a crescere così tanto e così rapidamente nell’interesse e nel consenso degli elettori. Egli è riuscito a sgonfiare per metà il pallone grillino e a confinare in una specie di camera di rianimazione il partito, o quel che ne resta, del vecchio alleato Silvio Berlusconi. Che per meno, molto meno, ha deposto eredi e aspiranti delfini buttando nel cesso -ricordate? – i loro “quid”, e lavandosi le mani in tutti i sensi, con la mania che ha di tenere puliti  i cessi di casa e delle sue aziende: una mania tale da fargli escludere una volta di poterne affidare la manutenzione a ditte o personale di provenienza pentastellata.   

 

 

 

 

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Dagli album di famiglia della Rossanda e di Pansa a quelli di Salvini

              Abituati, almeno noi di una certa età, alla drammaticità degli album come quello evocato da Rossana Rossanda, “la ragazza del Rossanda.jpgsecolo scorso”, poche ore dopo il sequestro di Aldo Moro, nel 1978, riconoscendo nei comunicati dei brigatisti rossi il linguaggio sentito o addirittura insegnato nelle riunioni dei comunisti ancora in attesa della rivoluzione in Italia;  o come quello proposto nel 2003 da Giampaolo Pansa col “Sangue dei vinti” per Pansa.jpgscrivere o riscrivere, finalmente, la guerra civile italiana proseguita per un po’ anche dopo la sua conclusione formale, abbiamo francamente una certa difficoltà a sfogliare e, soprattutto, a prendere sul serio l’album degli amici, veri o presunti, di Matteo Salvini. Di cui si scrive e si disegna in questi giorni, tra smentite, disconoscimenti, testimonianze, proteste, insulti e minacce di querele, a proposito di traffici petroliferi a Mosca e dintorni, sinora fatti più di parole che di bonifici o scambi reali di rubli, per aiutare la Lega nelle campagne elettorali che le hanno consentito in poco più di un anno, dal 4 marzo del 2018, di raddoppiare i suoi voti, e anche più, e di dimezzare quelli dell’alleato a cinque stelle.

            Inserisco fra le minacce, generalmente attribuite solo alle querele che annuncia di tanto in tanto Salvini a chi gli attribuisce amicizie e affari da lui negati, anche quel limaccioso, a dir poco, titolo trovato su un giornale romano non più fra i maggiori, e neppure fra i più Bisignani.jpgnoti: “Gli amici non si mollano”. Mi è sembrato un avvertimento al leader della Lega, vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, che sta scaricando amici, conoscenti e quant’altri diventati scomodi, forse a loro stessa insaputa, non avendo saputoRolli.jpg immaginare la disinvoltura, la mobilità, la volubilità, la spregiudicatezza dei referenti di una volta. O di quanti per  tali si erano mostrati o lasciati scambiare, abbassando le difese dei malcapitati di turno a tal punto da far loro dismettere le divise per indossare solo abiti civili.  Adesso il povero, e non più europarlamentare leghista Mario Borghezio, cogliendo forse l’occasione anche per togliersi qualche sassolino dalle scarpe non più onorevoli che porta ai pedi, ha rispolverato i ricordi decidendo se non di promuovere a generale lo sventurato Gianluca Savoini, indagato a Milano per corruzione internazionale, almeno di attestarne il ruolo a lungo svolto di “soldato” del Carroccio.

            Beh, diciamo la verità, e fatte salve naturalmente tutte le sorprese che potranno arrivare da questa vicenda spionistica, mediatica e giudiziaria solo agli inizi, per quanto risalenti  nei fatti o nelle premesse all’ottobre dello scorso anno,  e forse anche molto prima, Salvini non ci sta facendo una gran bella figura. Che è paradossalmente peggiorata dalla convinzione che pure ho maturato che di rublì, o valute equipollenti, né lui personalmente né il suo movimento ne abbiano visti e tanto meno incassati, o nascosti chissà dove.

            Non è francamente da ministro dell’Interno negare o lasciar negare, per esempio, di avere contribuito alla presenza del suo quasi omonimo Savoini alla recente cena di Putin a Villa Madama, a Roma, sotto la regìa di Palazzo Chigi e poi lasciare in braghe di tela, per quanto ci possa ancheil fatto.jpg stare col caldo che fa, il povero presidente del Consiglio con la diffusione della notizia di un intervento di una collaboratrice del Viminale per l’accreditamento, o qualcosa del simile, dell’ospite nel frattempo diventato ingombrante, pur essendo rimasto sobrio per tutta la cena, No, non è uno spettacolo bello, e neppure Salvini in trappola.jpgmigliore di quel titolone da sollievo, auspicio e quant’altro sparato sulla prima pagina del Giornale della famiglia Berlusconi. Che, in attesa da troppo tempo del ritorno del figliol prodigo nel centrodestra, pur allontanatosene l’anno scorso con l’autorizzazione e persinometropol.jpg l’incoraggiamento del padrone di casa, lo ha ora annunciato “in trappola”, come ogni tanto vi finiscono anche i topi, con annesse microspie, che si aggirano -nonostante le pulizie e il lusso apparente- fra i vasi e i tendaggi dei saloni e delle stanze dell’albergo Metropol di Mosca, a due comodissimi passi dalla Piazza Rossa -si chiama ancora così ?- dove si affacciano le finestre di Putin e riposa la mummia, ormai, di Lenin. 

 

 

 

 

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Il colpaccio di Andrea Marcucci a Salvini, fra analogie, allusioni e foto

              Per quanti sforzi stia facendo la Repubblica di carta per tenersi in testa, seguita dal Fatto Quotidiano, nella caccia a Matteo Salvini per l’affare che chiama “Moscopoli”, e fa rima Repubblica.jpgcon la “Tangentopoli” esplosa a Milano nel 1992 contro Bettino Craxi, il potente di allora, è stato il toscanissimo e renzianissimo capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci a Marcucci.jpgsegnare nelle ultime ore il colpo mediaticamente più scomodo per il leader leghista.  Lo ha fatto in una intervista a Giulia Merlo, del quotidiano Il Dubbio, paragonando le distanze che ha preso Salvini dal suo quasi omonimo Gianluca Savoini, indagato a Milano per corruzione internazionale nel tentativo, quanto meno, di foraggiare la Lega con  finanziamenti russi, al “mariuolo” gridato in piazza da Craxi a Mario Chiesa. Che era stato arrestato il 17 febbraio proprio del 1992 in flagranza di tangente nel proprio ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio.

            Di quel “mariuolo”, preceduto da una rapida espulsione dal partito socialista, avrebbe poi Chiesa.jpgsaputo profittare bene nelle indagini l’allora sostituto procuratore della Repubblica Antonio Di Pietro per far suonare a Chiesa ben bene il suo organo, scatenando tutto quello che ne seguì, fra arresti, suicidi, processi, condanne reclamizzate, assoluzioni o archiviazioni ignorate, scambi di consigli scritti fra pubblici ministeri e giudici e quant’altro, compresa naturalmente la fine della cosiddetta Prima Repubblica.

            Di fotografie di Craxi e di Chiesa insieme non ce n’erano molte. Si faticò molto a trovarne nei giornali. Al Giorno, che dirigevo, facilitai la ricerca segnalando all’archivio una foto che solo qualche Chiesa e Craxi.jpgsettimana prima aveva ripreso insieme i due per l’inaugurazione di un nuovo reparto, o qualcosa del genere, nell’ospedale dello storico ospizio ambrosiano. Vi ero andato anch’io, ritrovandomi poi in dimensioni enormi sulle pagine milanesi dell’Unità, perché avvertito dell’intenzione di Craxi di profittare dell’occasione offertagli dal discorso conclusivo della cerimonia per qualche riferimento importante alla vigilia elettorale in cui ormai si viveva, in attesa del rinnovo delle Camere e -si riteneva allora- dell’assai probabile ritorno del leader socialista a Palazzo Chigi, dopo il brusco allontanamento procuratogli nel 1987 dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita.

            Di fotografie insieme di Salvini e Savoini, in tutte le pose, circostanze e località ce ne sono invece a iosa. Salvini e Savoini a Mosca.jpgE temo che comincino, pur al netto del garantismo cui il leader leghista ha naturalmente diritto, peraltro neppure coinvolto nelle indagini in corso da mesi a Milano per corruzione manifesto.jpginternazionale sugli affari e sugli incontri del quasi omomimo del ministro dell’Interno, ad essere scomode per Salvini anche le foto di e con l’ex parlamentare forzista, esperto di energie alternative per la Lega e imprenditore del ramo Paolo Arata, arrestato di recente.

            Se Schermata 2019-07-13 alle 09.17.19.jpgfossi Salvini, anche se so che non accetta consigli da testone com’è, truce o non truce come lo descrivono sul Foglio Giuliana Ferrara e Annalisa Chirico,  comincerei a rallentare o a interrompere quel frenetico uso che  lui fa e consente, all’aperto e al chiuso, del selfie accettando qualsiasi telefono, o simile, a portata di mano o di vista, magari con qualche trojan, o figlio di trojan, incorporato.

 

 

 

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Stelle che scendono e stelle che sorgono nel firmamento italiano

            Poi dicono, almeno a Rona, che stanno a zero le chiacchiere, o “i pettegolezzi giornalistici”, come le ha chiamate, stizzita, Caseòòato.jpgMaria Elisabetta Alberti Casellati dall’alto della sua postazione di presidente del Senato. E spero di non aver dimenticato qualche pezzo del suo lunghissimo nome.

            Il sentore, o l’odore, o la puzza, come preferite, dei rubli del nuovo conio di Vladimir Putin, che hanno preso il posto di quelli svalutatissimi dei tempi sovietici, e di cui è stata attribuita una grandissima fame a Matteo Salvini, o dintorni, ha in poche ore cambiato gli scenari politici italiani. E persino quelli istituzionali.

            Innanzitutto, è mutato lo stile, spero in modo permanente e non provvisorio, del leader leghista. Che ha smesso di portare le mani alle labbra per mandare baci, bacini e bacioni in tutte le direzioni possibili e immaginabili, come in una riedizione maschile della Cicciolina della fine degli anni Ottanta.

            Più che portare le mani alle labbra, il “capitano” ha cominciato ad allargare le braccia, fuori e dentro le aule parlamentari, per esprimere più umanamente lo sgomento per la stupidità -almeno quella politica- dei suoi avversari. Già, perché occorre appunto stupidità  per immaginare che un politico salito così rapidamente in testa alle graduatorie politiche nel suo paese, che ha fatto tornare di fatto il suo Viminale a quello che era una volta, per esempio ai tempi di Alcide De Gasperi, cioè la sede Salvini e Putin.jpganche della Presidenza del Coniglio e non solo del Ministero dell’Interno, si metta direttamente e indirettamente a cercare soldi sapendo di tutti gli occhi e le orecchie, per non dire altro, della magistratura che ha addosso per le pendenze trasmessegli dai predecessori alla guida del suo partito. E poi avventurandosi personalmente nello Repubblica.jpgscorso autunno a Mosca, o “Moscopoli”, per ripetere il titolo di copertina  appena sparato da Repubblica, che è ormai in competizione diretta o esclusiva col Fatto Quotidiano, ritenendo forse irraggiungibile nelle edicole, a questo punto, il Corriere della Sera.

            Inoltre, costretto dai fatti o dal copione di quella pur sempre singolarissima maggioranza gialloverde improvvisata l’anno scorso, ad avere un rapporto difficile, misto di competizione e di sospetto, col presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il leader leghista ne ha finalmente raccolto una solidarietà piena, totale, gridata ai quattro venti.

             A guardarli insieme nelle ultime foto, Conte e Salvini, dev’essere stato colto da una crisi di gelosia, o simile, il vice presidente grillino Luigi Di Maio, già deluso dal silenzio-assenso opposto dallo stesso Conte all’autopromozione annunciata di recente da Salvini in persona di essere il “vicario” del capo del governo. Non a caso, del resto, gli è già capitato di presiedere qualche seduta del Consiglio dei Ministri, alla faccia di tutti quell’”io qua e io là” che Di Maio, Giggino per gli amici, pronuncia quando parla, a microfoni accesi e spenti, della sua azione pluriministeriale.

            Ma soprattutto, per tornare ai “pettegolezzi giornalistici” con i quali la presidente del Senato, seconda carica dello Stato perché preposta costituzionalmente a sostituire il presidente manifesto.jpgdella Repubblica eventualmente impedito, ha liquidato le cose dette e stampate sui traffici o solo sulle tentazioni da rubli di Salvini e/o dintorni, si può ben dire che forse, forse, è nata una nuova stella nel firmamento politico italiano: altro che le cinque Casellati.jpginventate e lanciate nello spazio, fra una parolaccia e l’altra, fuori e dentro i teatri dei suoi spettacoli di comico o le piazze dei dei suoi comizi, dall’immaginifico Beppe Grillo. Che adesso -pensate un po’ che cosa gli è capitato nella vita- deve fare o recitare la parte del “garante” di Luigi Di Maio. Del quale, fra una battuta e l’altra, l’ombroso Beppe avverte che solo lui al momento opportuno, o se volesse, potrebbe parlare male, essendo l’unico a conoscerlo davvero bene. Bel tipo di garante, verrebbe voglia di dire.

            Se è nata una stella per il coraggio col quale si è messa di traverso nell’aula di Palazzo Madama davanti a chi cercava di ripetere lo spettacolo rissoso svoltosi a Montecitorio, peraltro sugli stessi banchi dove qualche decennio fa sedevano uomini e donne orgogliosi dei rubli che arrivavano al loro partito da un paese potenzialamente in guerra contro l’Italia, facendo parte l’allora  Unione Sovietica dello schieramento “avverso” -avrebbe detto e direbbe Walter Vetroni- alla Nato, cui noi invece partecipavamo, e partecipiamo ancora, a tutti GIARRETTIERA.jpggli effetti; se è nata una stella, dicevo, sia pure giovanile ma non giovane, senza volerne tuttavia riferire esplicitamente l’età per il rispetto e il garbo dovuto a una signora, ben arrivata. E lo dico ripetendo il mitico motto dell’Ordine della Giarrettiera: Honi soit qui mal y pense. “Sia vituperato chi ne pensa male”, tradotto in italiano.

 

 

 

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Il ritorno dei rubli nelle risse parlamentari, come ai vecchi tempi….

A dispetto del cambiamento datosi come parola d’ordine nell’omonimo governo realizzato l’anno scorso con i grillini, e destinato a durare ben oltre le previsioni maturate in Silvio Berlusconi quando autorizzò il leader leghista a prendersi una libera uscita dal centrodestra per evitare che alle elezioni politiche del 4 marzo ne seguissero altre tra luglio e agosto, con tutti i nostri elettori -disse il Cavaliere- inchiodati alle vacanze, Matteo Salvini continua a far rivivere ai vecchi cronisti parlamentari scene del passato. Alla rovescia, potrebbe rispondere il “capitano” del Carroccio, cioè a parti rovesciate, e quindi senza tradire il motto o l’aspirazione al cambiamento, ma sono pur sempre situazioni e spettacoli del passato quelli ch’egli, volente o nolente, ci ripropone.

Ho appena paragonato su queste pagine, qualche giorno fa, i bacioni con cui il vice presidente vicario del Consiglio e ministro dell’Interno cerca di liquidare critici ed avversari dai banchi del governo ai bacini che nel 1987 Cicciolina, appena eletta nelle liste radicali, cominciò a indirizzare nell’aula di Montecitorio ai “cicciolini”, come li chiamava, che non ne gradivano la presenza o non ne condividevano pose e interventi: compreso Giulio Andreotti. Del quale mi sono dimenticato di riferirvi il rimprovero, da lui stesso raccontatomi con l’umorismo che lo distingueva, ricevuto una sera a casa dalla moglie per essersi lasciato chiamare in quel modo dalla pornodiva senza perdere, una volta tanto, il suo storico controllo dei nervi, limitandosi a berci sopra qualche bicchiere d’acqua.

Ebbene, quel diavolo di Salvini è appena riuscito a far tornare a gridare nell’aula di Montecitorio contro i rubli, quelli russi naturalmente, con vivaci richieste di chiarimento, nonostante le smentite da lui già opposte, le querele già presentate e le nuove che ha minacciato a chi ha preso sul serio le “rivelazioni” del sito americano BuzzFeed.com, secondo cui durante un suo soggiorno a Mosca nell’autunno scorso il quasi omonimo, amico e collega di partito Gian Luca Savoini avrebbe negoziato, concordato, tentato e non so cos’altro con quattro russi in un grande albergo finanziamenti alla Lega, in vista della costosa campagna elettorale europea dell’anno dopo. E tutto ciò all’ombra di grandi affari petroliferi.

Di questa vicenda si occupò già in Italia, fra altre smentite e querele, il settimanale L’Espresso. Che naturalmente se n’è vantato, con i ritorni americani, ed ha ripreso a intingere il pane nell’inchiostro quando, vere o false che siano, le notizie sono rimbalzate da oltre Atlantico. Dove peraltro Salvini e Putin.jpgSalvini ha il torto di essere appena andato in visita ufficiale, di avere avuto incontri di alto livello, anche se non altissimo come quello del presidente Donald Trump. Che tuttavia non nasconde certamente né direttamente né indirettamente, attraverso i suoi collaboratori, l’interesse e la simpatia per il leader leghista, che in quell’albergo di Mosca è stato addirittura definito “il Trump italiano”. Cui manca soltanto il passaggio politico, e forse anche elettorale, per diventare il capo del governo prendendo il posto di Conte, pure lui tuttavia apprezzato dal presidente americano, che gli parla chiamandolo “Giuseppi”, perché gli americani hanno problemi con la e finale dei nomi.

Ho trovato curioso, divertente e non so dirvi cos’altro ancora vedere nell’aula di Montecitorio insorgere con grida e cartelli contro i presunti rubli a Salvini e alla Lega quegli stessi settori, a sinistra, contro cui negli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche oltre, insorgevano i deputati della destra e del centro contro i rubli non presunti ma veri, anzi verissimi, che arrivavano dall’allora Unione Sovietica al Pci per finanziarne in modo decisivo la grande e costosa organizzazione. Non potevano onestamente bastare allo scopo né le quote di iscrizione, né i contributi pur consistenti dei parlamentari, né i soldi pubblici forniti dalla legge cui si ricorse dopo lo scandalo dei finanziamenti privati dei petrolieri, che coinvolse pure quel partito dell’odore inconfondibile di bucato come Indro Montanelli chiamava il Pri del suo amico Ugo La Malfa. Né potevano bastare a sostenere i costi di quella potente macchina organizzativa ed elettorale del Pci i consumi di salamelle ed altro nelle pur affollate, a volte affollatissime, feste dell’Unità, dove si mescolavano passioni per i compagni e odi per gli avversari, persino nei menù dove si proponeva il piatto imperdibile della “trippa alla Bettino” Craxi.

Dei rubli arrivati lungamente, sistematicamente e abbondantemente al Pci da Mosca tramite gli affari delle Cooperative o con le valigie diplomatiche direttamente  nell’ambasciata sovietica a Roma, a poca distanza dalla Stazione Termini, si divertiva spesso a parlare, anche quando il traffico era o sembrava cessato, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che li rinfacciava, in particolare, all’ultimo e forse davvero incolpevole segretario del Pci: Achille Occhetto, da lui liquidato come “zombi”.

Nel parlarne, quell’impenitente di Cossiga si divertiva a ricordare, o precisare, che da Mosca arrivavano all’ambasciata romana solo e rigorosamente rubli, alla cui conversione in dollari, non in lire, provvedevano esperti noti alle tolleranti, anzi tollerantissime autorità di vigilanza. Ed erano anni, quelli, di guerra fredda davvero, col muro ben piantato e sorvegliato a Berlino, con i missili puntati nelle basi del Patto di Varsavia contro le capitali europee, Roma compresa: missili diventati ad un certo punto così tanti e così pericolosi da costringere la Nato ad un riarmo al cui passo l’Unione Sovietica non resse sul piano economico e finanziario.

Come se avesse sentito arrivare, anzi tornare attraverso gli Stati Uniti, le polemiche sui rubli ancora una volta incombenti  a torto o a ragione sulla politica italiana, il giornalista e romanziere Walter Veltroni, forse ancora più fortunato in questa veste che come segretario di partito, ministro, vice presidente del Consiglio e sindaco di Roma, dove pure ha fatto molto e spesso anche bene, ha appena riproposto ai lettori del Corriere della Sera, intervistando questa volta sui misteri e sulla fine della prima Repubblica il vecchio amico Aldo Tortorella, con i suoi 93 anni appena compiuti, la storia dei finanziamenti russi al Pci. E dei danni, forse superiori anche ai vantaggi, che ne derivarono al partito allora più forte della sinistra italiana, compromettendone l’automomia o ritardandone l’evoluzione, come la chiamavano quelli che la volevano pure nella Dc per liberarsi di un alleato scomodo come Craxi.

Tortorella non ha fatto numeri ma ha parlato di date, o periodi, raccontando in particolare che  a chiudere la pratica dei finanziamenti sovietici al Pci fu Enrico Berlinguer poco dopo la sua elezione a segretario, avvenuta nel marzo del 1972, e l’attentato che subì l’anno successivo,Tortorella e Berlinguer.jpg rimasto a lungo segreto e controverso, durante una visita in Bulgaria. Dove i padroni di casa gli procurarono un incidente stradale sperando di liberarsene per l’abitudine che aveva preso di parlare dei limiti, chiamiamoli così, della democrazia nei regimi comunisti. Ciò accadeva quindi ben prima del 1980, quando il leader comunista commentando in televisione il colpo di Stato militare compiuto in Polonia autonomamente dal generale Jaruzesky per prevenire il solito intervento delle truppe sovietiche, trovò il coraggio di dichiarare l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione comunista di ottobre del 1917 in Russia. Allora egli finì di compromettere quel poco ch’era ancora rimasto dei vecchi rapporti di scuola e di politica con Mosca.

Berlinguer decise di fare a meno dei rubli in modo sostanzialmente solitario, consultandosi -ha raccontato Tortorella- solo con Gerardo Chiaromonte, e poi passando le direttive necessarie al capo dell’’organizzazione del partito Gianni Cervetti, che si occupava anche dei delicati rapporti finanziari con Mosca. Seguirono non a caso, nel 1973, i tre saggi consecutivi affidati da Berliguer alla rivista del partito Rinascita sulla lezione da trarre dal colpo di Stato militare in cui era sfociata, per reazione interna e internazionale, la svolta dell’alternativa di sinistra realizzata da Salvatore Alliende, che ne sarebbe morto.

Non l’alternativa di sinistra ma il “compromesso storico” con le forze moderate avrebbe dovuto diventare la linea del Pci, che infatti la perseguì con Berlinguer, rivestendola anche dei panni del cosiddetto “eurocomunismo”, sino a realizzare nel 1976 e a rafforzare nel 1978, con l’ultima crisi gestita nella Dc da Aldo Moro, prima del sequestro e dell’assassinio per mano delle brigate rosse, quella che è passata alla storia come “maggioranza di solidarietà nazionale”.

Berlinguer potette farlo -ha raccontato Tortorella- pur non proprio a tutte le condizioni da lui volute, viste le resistenze opposte da Moro a una partecipazione diretta del Pci al governo, che fu invece composto solo di democristiani, e guidato da Giulio Andreotti per garantire o rasserenare i sospettosissimi americani, ma anche la Chiesa; Berlinguer, dicevo, potette farlo solo per essersi nel frattempo garantita sul piano finanziario “l’autonomia necessaria al partito per essere coerente forza nazionale e di governo”.

Eppure, anche se Tortorella non lo ha ricordato né Veltroni ha voluto aiutarlo incalzandolo con qualche domanda, il Pci continuò a tenere i suoi legami con Mosca contrastando, per esempio, il riarmo missilistico della Nato, nonostante Berlinguer avesse detto in una famosa intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, censurata in questo passaggio dall’Unità, di sentirsi anche come comunista garantito sotto l’ombrello atlantico. Dovettero arrivare i già ricordati fatti polacchi del 1980 perché veramente la storia dei rapporti con l’Urss cambiasse e i rubli fossero probabilmente destinati solo a una parte del Pci, quella organizzata alla luce del sole da Armando Cossutta dopo lo “strappo” da questi rimproverato a Berlinguer. E Cossutta fece tutto intero il suo dovere di militante  filosovietico rimanendo nel Pci sino a quando Occhetto, anche a costo di piangerne, non decise di cambiargli nome e simbolo per non lasciarlo sepolto sotto le macerie del muro di Berlino,

Ora, francamente, non so come andrà a finire lo scontro, politico e forse anche giudiziario, di Salvini con quanti lo immaginano imbottito di rubli, o con qualche amico che avrà pensato di fargli un piacere cercando di procurarglieli intrufolandosi in alberghi, ristoranti e quant’altri, ma di  certo mi ha fatto una certa impressione -vi ripeto- vedere protestare contro i rubli veri o presunti della Lega parlamentari negli stessi banchi parlamentari dove sedevano i deputati appartenenti al partito che i rubli li prendeva davvero. E ne fu a lungo anche orgoglioso.

Mancano alla chiama o ai richiami, almeno per ora, i dollari che i comunisti ai loro tempi accusavano la Dc e gli alleati di prendere dagli Stati Uniti. E chissà se, coi tempi e con gli umori che corrono, Salvini non finirà per sentirsi accusare di prendere anche quelli, i dollari, e non solo i rubli.

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Antipasto al Quirinale in attesa del rimpasto, e con odore di vodka

              Più che un rimpasto, l’atteso ma evidentemente non ancora maturo rimpasto, visti i problemi di turbolenza ancora presenti nel movimento grillino dopo i sei milioni e rotti di voti perduti nelle urne europee, regionali ed amministrative del 26 maggio scorso, è stato un antipasto quello che si è consumato con discrezione al Quirinale alla presenza del capo dello Stato e del presidente del Consiglio. Il quale ha proposto, su designazione del vice presidente e leader leghista Matteo Salvini, e ottenuto da Sergio Mattarella la nomina di Alessandra Locatelli a ministra della famiglia, al posto del collega di partito Lorenzo Fontana, chiamato invece ad assumere il Ministero degli affari europei lasciato nei mesi scorsi da Paolo Savona, oggi presidente della Consob.

            Diversamente dalla collega Locatelli, entrata nel governo come una matricola, Lorenzo Fontana non ha avuto bisogno di ripetere la cerimonia di giuramento al Quirinale per avere dovuto solo cambiare funzioni e competenze, occupandosi ora dei rapporti e affari europei cui Lorenzo Fontana.jpgmolto tiene Salvini in vista dei nuovi assetti, per il momento da lui più temuti che auspicati, che stanno maturando nell’Unione dopo il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Dove il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno si è appena doluto che tutti gli italiani abbiano rimediato o stiano rimediando posti, anche i grillini ancora senza un gruppo di appartenenza, fuorchè i leghisti. Che sperano di rifarsi in qualche modo almeno nella nuova Commissione, a Bruxelles, se gli altri governi vorranno, se Giuseppe Conte vorrà e saprà negoziare davvero con impegno e se Salvini saprà indicare il candidato giusto al commissariato cui ambisce il suo partito, che è quello della Concorrenza, già tenuto dall’Italia ai tempi, per esempio, di Mario Monti per conto di governi, a Roma, sia di centrodestra sia di centrosinistra.  

            Tutto lascia prevedere che Salvini, a dispetto dell’immagine che si è creata di uomo rude o “truce”, come lo chiama sul Foglio il non certamente amico o estimatore Giuliano Ferrara, saprà trovare o accontentarsi del candidato giusto della Lega alla Commissione Europea, come ha fatto del resto a livello di rimpasto o antipasto, spostando agli affari europei Lorenzo Fontana e non impuntandosi sull’attuale presidente della Commissione Finanze del Senato, Alberto Bagnai. Alberto Bagnai.jpgChe è considerato tanto scettico verso l’euro da poterne essere definito un nemico. Fontana invece, da non confondere col suo quasi omonimo e collega di partito Attilio, governatore della Lombardia, è abbastanza forte e duttile insieme per cavarsela, anche se come ministro della famiglia si guadagnò nei mesi scorsi la fama di durissimo nella difesa dei valori tradizionali, tanto da mettere in difficoltà persino il Vaticano, o alcune eminenze.

            Un vignettista tuttavia, Stefano Rolli sul Secolo XIX di Genova, della catena ormai di Repubblica, si è divertito a chiedersi se fra le qualità di Lorenzo Fontana al Ministero degli affari europei non possa Rolli.jpgo debba sospettarsi la sua conoscenza, credo improbabile, della lingua russa. E della valuta di quel paese, il rublo, appena tornato di attualità nelle polemiche contro Salvini e la Lega per una storia anticipata nei mesi scorsi dall’Espresso e rilanciata adesso dal sito americano BuzzFeed.com di accordi o trattative svoltesi nell’autunno scorso a Mosca, durante una visita dello stesso Salvini, per finanziare addirittura con 65 milioni di dollari – ricavati da tangenti o qualcosa di simile su affari petroliferi- la campagna elettorale della Lega per le votazioni europee del 26 maggio.

            Salvini è tornato a smentire e a minacciare querele, mostrando però questa volta di spingersi più in là del solito, o di retrocedere, come preferite, prendendo qualche distanza dall’amico e suo ex portavoce Gian Salvini e amico.jpgLuca Savoini, ritratto con lui a Mosca proprio nell’autunno scorso, in affari con oligarchi russi e fra gli invitati a Villa Madama, nei giorni scorsi, alla cena offerta dal governo italiano al presidente russo Vladimir Putin.

            Le smentite e minacce di querele del leader leghista non hanno naturalmente ridotto e tanto meno spento le polemiche, esplose con proteste e cartelli nell’aula di Montecitorio e tradottesi in titoli Schermata 2019-07-11 alle 06.32.15.jpgallusivi di copertina su giornali come Repubblica  e il manifesto: la prima sparando, diciamo così, “Ombre russe sulla Lega” e  il secondo “Zitti e Mosca” su unamanifesto.jpg foto della recentissima cena di Putin a Roma, presenti Salvini e il suo quasi omonimo e presunto uomo di fiducia Savoini. Che a Mosca avrebbe parlato del leader leghista con gli amici russi come del “Trump italiano”, su cui poter scommettere, anche se i rapporti fra il Trump vero e Putin sono a dir poco altalenanti.

             E i grillini di fronte a tutto questo? Sono stati tentati di inserirsi nelle polemiche, offrendosi come i veri difensori degli “interessi nazionali”, di cui ha parlato il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio, ma senza esagerare, almeno sino a questo momento, sentendo evidentemente puzza di bruciato, o falso, e temendo passi falsi nei rapporti con un alleato di governo scomodo ma pur sempre preferibile alla prospettiva di una crisi e di elezioni anticipate.

 

La storia riscritta al telefonino col trojan: Mattarella non è Napolitano

Ci ho messo un po’, viste le mie radicate abitudini e i quasi sessant’anni di mestiere giornalistico, tra volontariato, praticantato e professionismo, ma alla fine ce l’ho fatta, riuscendo peraltro a ridurre il tempo riservato ai quotidiani.

Ho deciso di non leggere le più o meno fluviali pubblicazioni delle intercettazioni, e brogliacci, degli incontri, colloqui, sospiri, racconti, allusioni e quant’altro del magistrato Luca Palamara a telefonino imprudentemente acceso. Esso ha trasformato l’utente, per una specie di virus elettronico iniettatogli per ordine della Procura di Perugia e chiamato “Trojan” con gusto omerico, da indagato perPalamara.jpg corruzione e non so quanti altri reati in una spia. Che, data l’inconsapevolezza dell’interessato, durata non moltissimo per la soffiata che lo ha allertato ma abbastanza per produrre effetti mediaticamente, politicamente e giudiziariamente dirompenti, è qualcosa di più di un infiltrato.

Per fortuna siamo lontanissimi dagli anni della peste a Milano raccontata da Alessandro Manzoni nei suoi storici Promessi Sposi. Altrimenti Palamara, miracolosamente ancora libero, vista la facilità con la quale in Italia si può finire agli arresti “cautelari” durante le indagini, per quanti tentativi siano stati compiuti per limitarli dopo la scoperta degli abusi specie nell’epopea giudiziaria, come molti ancora la considerano, di Mani pulite; altrimenti Palamara, dicevo, sarebbe finito linciato in pieno giorno dietro l’angolo di casa come un untore dalle vittime incolpevoli delle sue frequentazioni e amicizie, di qualsiasi grado e natura.

Il colpo di grazia alle mie tentazioni di lettore, cioè alla mia curiosità, me lo ha dato il sommarietto di prima pagina e il contenuto, all’’interno del Fatto Quotidiano, di una conversazione di Palamara captata il 21 maggio mons. Paglia.jpgscorso, in un bar romano vicino a Piazza Fiume, con un prelato abbastanza famoso e autorevole: il monsignore Vincenzo Paglia, dal 2016 presidente della Pontificia Accademica per la Vita e già vescovo di Terni.

Meno male -c’è da dire da fedele pur facile al peccato- che Palamara non abbia avuto modo di conoscere Papa Francesco e di essere ammesso alla sua presenza, munito di quel diabolico telefonino, nella residenza di Santa Marta. Chissà che cosa si è risparmiato il Pontefice, con quella voglia che ha -benedett’uomo- di informarsi e con quella franchezza con la quale esprime i suoi giudizi su cose e persone. Ne sa qualcosa il povero allora sindaco di Roma Ignazio Marino, mandato quasi grillinamente a quel posto dal Papa parlandone in aereo con i giornalisti al ritorno da un viaggio all’estero, dove il predecessore di Virginia Raggi l’aveva raggiunto mostrando di essere stato invitato.

Ma torniamo al povero monsignor Paglia, colpevole solo, nell’incontro al bar con un Palamara che gli parlava dei problemi personali e di quelli del Consiglio Superiore della Magistratura, letteralmente terremotato poi dal suo “Trojan”, di essersi fatto vincere dalla curiosità di conoscere umori, reazioni e quant’altro del presidente della Repubblica, e dello stesso Csm, Sergio Mattarella di fronte al problema della nomina del nuovo capo della Procura di Roma, dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone.

Forte anche del pur breve periodo in cui da membro togato del precedente Consiglio Superiore della Magistratura aveva avuto modo di vederlo all’opera, fra il 2015 e il 2018, Palamara ha detto all’amico monsignore, testuale Mattarella e Napolitano.jpgnel sommarietto di prima pagina del Fatto Quotidiano: “Mattarella non è Napolitano”. Mi riferisco naturalmente a Giorgio Napolitano, il predecessore dell’attuale capo dello Stato, affettuosamente noto agli italiani anche come “Re Giorgio” per una certa somiglianza giovanile, da lui stesso ironicamente ricordata più volte parlandone in pubblico, con Umberto II di Savoia, l’ultimo sovrano d’Italia.

Avete capito che grande novità, che clamorosa sorpresa ci ha procurato l’invasivo “Trojan” con cui parla, viaggia e persino dorme, se lascia il telefonico acceso sul comodino o sulla poltrona dove si appisola, questa mina vagante che è diventata l’ex, peraltro, presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati Palamara? Abbiamo scoperto che Mattarella “non è Napolitano”. Incredibile ma vero.

A noi giornalisti , forse pennivendoli prima ancora che così ci chiamasse in uno dei suoi inarrestabili scatti d’ira Ugo La Malfa, condannati a raccontare la politica nel dritto e nel rovescio, davanti e dietro le quinte, è sfuggito il particolare rilevato da Palamara. Ci è sfuggito, o abbiamo avuto riguardo o paura di scriverne, anche quando, per esempio, abbiamo dovuto seguire l’anno scorso la gestione della lunga crisi di governo, in apertura della diciottesima legislatura uscita dalle urne del 4 marzo: due giri di consultazioni a vuoto, due missioni esplorative anch’esse a vuoto, l’annuncio dell’imminente conferimento dell’incarico a un tecnico per una soluzione di decantazione, l’avvio autonomo e non disposto da alcun decreto presidenziale di trattative di governo fra grillini e leghisti, il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio a Giuseppe Conte, la rinuncia di quest’ultimo, le minacce di impeachment del capo dello Stato da parte del capo del Movimento delle 5 stelle e candidato alla vice presidenza del Consiglio, Luigi Di Maio, il conferimento del nuovo incarico all’economista Carlo Cottarelli, la nuovamente autonoma decisione di Di Maio e di Salvini di riaprire le loro trattative per trovare un Ministro dell’Economia gradito anche al Quirinale, la rinuncia di Cottarelli e il reincarico a Conte.

Neppure allora a noi giornalisti venne la voglia, l’intuizione, il coraggio, chiamatelo come volete, di dare la notizia scoperta e fornita da Palamara all’amico monsignore: che cioè Mattarella , ripeto, non è Napolitano. Preferibile o no, poco importa. Non è Napolitano. E tanto deve bastare, e avanzare.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Molto comodamente al governo con licenza, anzi diritto all’insulto

              Non saranno sicuramente gli insulti, o simili, che si scambiano sistematicamente ministri e sottosegretari di entrambi i partiti che lo compongono a invertire la rotta sulla quale naviga il governo gialloverde di Giuseppe Conte: dal rimpasto alla crisi.

             Vi è ormai licenza di insultarsi, sfottersi e provocarsi non solo fra opposizioni e maggioranza di turno ma ormai anche all’interno della maggioranza e del governo. E, onestamente, non solo in questa terza Repubblica, presunta o vera che sia, ma già da tempo. Anche negli anni della prima Repubblica i ministri di uno stesso governo si insultavano rimanendo ciascuno al proprio posto, e mettendo in difficoltà o facendo arrabbiare qualche volta solo il presidente del Consiglio di turno. Accadde, in particolare, al povero Giovanni Spadolini quando se ne dissero, e se ne diedero metaforicamente, di tutti i colori i suoi ministri Rino Formica, socialista, e Beniamino Andreatta, democristiano.

            Questa volta, magari, diversamente da allora, la licenza di insultarsi in politica è diventato un diritto, con tanto di giurisprudenza recente che deve avere contribuito a  far fare spallucce al Spadafora e Di Maio.jpgsottosegretario grillino Vincenzo Spadafora, sostenuto alla fine dal capo del suo partito Luigi Di Maio, quando il ministro dell’Interno leghista Matteo Salvini, da lui accusato di sessismo per gli attacchi rivolti alla soccorritrice navigante Carola Rackete,  lo ha sfidato a dimettersi per non trovarsi più in così scomoda compagnia nello stesso governo, per giunta in condizioni sottomesse, essendo pur sempre un sottosegretario di grado inferiore a un ministro, e ancor più a un vice presidente del Consiglio qual è appunto Salvini: anzi, il vice presidente del Consiglio “vicario”, come lo stesso leader leghista ha recentemente precisato, superiore quindi all’altro di parte grillina come il già ricordato Di Maio.

             Il passaggio dalla licenza al diritto all’insulto nella competizione politica, a tutti i livelli, con relativa e sostanziale dissuasione a difendersi nei tribunali per evitare di peggiorare la situazione, anziché ricevere soddisfazione quando si ritiene di essere stati offesi, è passato purtroppo inosservato. Ce ne siamo occupati davvero in pochi. E di quei pochi, sono stati più quelli compiaciuti, Di Maio e Travaglio.jpgche se ne sono vantati con titoli di prima pagina e altisonanti editoriali, che quelli sorpresi o scandalizzati di vedere il giudice Luigi Gargiulo scrivere e sentenziare nel tribunale di Milano che  dare del “cazzaro” a uno, ministro o non ministro che sia, come abitualnente Repubblica.jpgfa Marco Travaglio su Fatto Quotidiano occupandosi di Salvini, significa cedere -letteralmente- a “un linguaggio ormai greve e imbarbarito”, deplorato proprio oggi anche sull’insospettabile Repubblica in un commento di carattere generale in prima pagina, ma senza commettere reato, perché si tratta pur sempre di “espressione veicolata nella forma scherzosa e ironica proprio della satira”.

            Senza voler mancare di rispetto al giudice che ha dato torto a Salvini e ragione a Travaglio nella causa che il primo ha incautamente promosso contro il secondo, sarei curioso di sapere come reagirebbe il magistrato del tribunale di Milano se qualcuno gli desse del “cazzaro” dissentendo dal suo ragionamento.

            D’altronde, per quel che può valere una testimonianza o esperienza personale, mi è capitato negli anni scorsi di subire un processo promosso da due delle tre giudici che condannarono in primo grado per prostituzione minorile Silvio Berlusconi, poi assolto in appello e in Cassazione, avendo definito “talebana” la loro sentenza, superiore alle stesse richieste dell’accusa, se non ricordo male. Per fortuna ho poi trovato un giudice che mi ha assolto, anzi una giudice, senza bisogno di spingermi a Berlino per reminiscenze letterarie, ma fermandomi a Brescia, la sede naturale e legittima della vertenza.

 

 

 

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Cronache surreali di un governo in cerca di rimpasto, non di crisi

              Curiosamente, molto curiosamente, più si allontana il rischio o lo spauracchio della crisi di governo, per quanto sia stata attribuita al capo dello Stato la decisione di ridurre al minimo in questo mese le assenze dal Quirinale per essere pronto a ogni evenienza, più sorgono casi e casini -è proprio il caso di dirlo- nella compagine ministeriale gialloverde.  Scoppiano mortaretti da tutte le parti, questioni che si chiudono e si riaprono il giorno dopo, o viceversa.

            Più che una crisi, sullo sfondo di elezioni anticipate a settembre o ottobre, la posta in gioco è forse un rimescolamento di incarichi, poltrone e poltroncine nel governo gialloverde, tra ministri e sottosegretari, con vuoti da coprire e traslochi da improvvisare. E’ quello che una volta, ai bei tempi della cosiddetta prima Repubblica, si chiamava rimpasto e che è severamente vietato continuare a chiamare così in tempi  dichiaratamente, o velleitariamente, di “cambiamento”.

Anche a costo di sembrarvi spericolato nella interpretazione di fatti e personaggi, appartiene allo scenario del rimpasto, o di comunque lo si vorrà alla fine chiamare, anche lo scontro riaccesosi a sorpresa, peraltro in Parlamento,  fra il ministro dell’Interno Matteo Salvini e la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, dopo che se ne era spento un altro fra i due sulle colonne del Corriere Rolli.jpgdella Sera. Cui la titolare grillina della Difesa aveva annunciato o garantito, come preferite, in una intervista la disponibilità a fare intervenire di più la Marina Militare nelle acque del Mediterraneo, dove si svolge la guerra, o qualcosa di simile, fra il Viminale e le navi del volontariato impegnate a raccogliere naufraghi nelle acque libiche e a trasportarli sulle coste italiane.

Lo scontro si è riaperto non sul presente o sul futuro ma sul passato, in particolare sulla valutazione della ormai ex missione marittima europea nota come Sophia, difesa e rimpianta dalla ministra Trenta e ricordata invece come un incubo da Salvini perché risoltasi in  alcune decine di migliaia di migranti sbarcati tutti, o quasi, in Italia. Ma è una polemica, ripeto, retrospettiva che tuttavia Salvini ha voluto accentuare dando della “nervosetta” alla collega di governo. La quale tuttavia rimane un’interlocutrice utile al ministro dell’Interno: tanto utile da potersi sospettare che il leader leghista la critichi e l’attacchi per incollarla al suo posto, proteggendola da chi fra i grillini vorrebbe sostituirla per ragioni interne a un movimento che bolle come una pentola a pressione dopo la batosta elettorale del 26 maggio.

           Rimuovere a questo punto Trenta dalla Difesa significherebbe darla scenograficamente troppo  vinta a Salvini, che invece ci rimetterebbe perché la signora ministra nell’impegnare di più la Marina Militare nelle acque agitate dai soccorsi sta fronteggiando i dubbi e le resistenze degli ufficiali che emergono ogni tanto anche dalle cronache giornalistiche, sfuggite in questo caso al vignettista del Fatto Quotidiano, Vauro Senesi. Che ha preso così seriamente la polemica fra i due ministri da giocare su numeri e nomi per rinfacciare a Salvini non i trenta ma i quarantanove milioni di euro che la Lega deve allo Stato per i pasticci, e simili, ereditati dalle precedenti gestioni del partito.

            Più concreto o reale è stato invece lo scontro consumatosi fra Conte e Salvini sulla preparazione di quella che molti continuano a definire “manovra finanziaria” ma è invece la preparazione del Titolo su Conte.jpgnuovo bilancio e relativa legge cosiddetta di stabilità per il 2020. Alla rivendicazione delle proprie competenze fatta dal presidente del Consiglio di fronte alla conferma degli incontri con le cosiddette parti sociali programmati al Viminale per i prossimi giorni da Salvini, quest’’ultimo ha opposto qualcosa in un certo senso di inedito, precisando di essere il vice presidente “vicario” del Consiglio, superiore quindi di grado al vice grillino Luigi Di Maio, e non solo per ragioni di età. Alle quali comunque, se fossero vere, si sono aggiunte Consiglio Ministri.jpgil 26 maggio le ragioni politiche del sorpasso, anzi del ribaltamento, effettuato nelle urne dalla Lega sul movimento delle cinque stelle. Ed è un processo per nulla esaurito, come mostrano i sondaggi, per quanti sforzi facciano gli avversari più dichiarati e impegnati del Carroccio per danneggiarlo, sino a sconfinare metaforicamente nelle Chiese  contrapponendo e preferendo il Papa a Salvini sul terreno elettoralmente scivoloso dell’immigrazione, come ha fatto la testata storicamente laica della Repubblica ora diretta da Carlo Verdelli.

            C’è stato un prete, o parroco, di un paese in provincia di Pavia, Pieve Porto Morone, dove la Lega raccoglie il 60 per cento dei voti, che ha preso tanto sul serio Repubblica e dintorni da organizzare una messa in onore della vivente Repubblica.jpgCarola Rackete, ormai promossa di fatto, volente o nolente, da una giudice di Agrigento a campionessa della lotta contro Salvini. Ma i fedeli del Pavese hanno così poco gradito che il prete ha dovuto rinunciarvi. In compenso Repubblica ha avviato addirittura una campagna per il conferimento del Premio Nobel della Pace alla  “capitana” tedesca: una specie di   Giovanna d’Arco dei nostri tempi, o mari.

 

 

 

 

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Dai bacini di Cicciolina ai bacioni di Matteo Salvini

Da quando Matteo Salvini ha cominciato a diffondere baci -lui li chiama “bacioni”- ai suoi critici e avversari anche nelle aule parlamentari, come sulle piazze e piazzuole fisiche ed elettroniche, mi sono tornati alla mente i giorni, anzi gli anni, di Ilona Staller a Montecitorio. Dove Marco Cicciolina 3.jpgPannella -e chi sennò?- si divertì nel 1987 a portare la pornodiva di origini ungheresi facendola eleggere nelle liste del Partito Radicale con tanti voti da rischiare di esserne addirittura superato: 22 mila preferenze nella circoscrizione laziale.

Già nota in arte -diciamo così- come “Cicciolina”, la deputata cercò di prendersi a suo modo seriamente. Partecipava alle sedute in aula, e qualche vola anche a quelle delle commissioni Difesa e Trasporti cui era stata assegnata, senza mai tradire il suo stile. A chi l’interrompeva, dissentendo a volte anche in modo volgare, o solo le rivolgeva sguardi Cicciolina.jpgironici e scettici, come capitò a volte di fare a Giulio Andreotti dai banchi del governo, l’ancor più ironica e per niente imbarazzata onorevole lanciava bacini. E per coinvolgerli di più nel suo stile e modo di dire chiamava “Cicciolini” i suoi interlocutori.

A sentirselo dare, del Cicciolino, quel pomeriggio in cui mi gustai lo spettacolo da una delle tribune riservate alla stampa e affacciate sull’aula di Montecitorio, Andreotti si trattenne a stento da una reazione che non seppi distinguere se più indignata o divertita. Egli si limitò a chiamare un commesso per chiedergli di portargli da bere qualcosa. Il poveretto gli portò un bicchiere d’acqua, su tanto di vassoietto, ma ad Andreotti non bastò. Gliene portò poi una bottiglia.

 

Ora la Staller se la passa davvero male, specie dopo che le hanno ridotto da 2000 a 800 euro mensili il cosiddetto vitalizio parlamentare. Ma come deputata e contributrice delle trattenute previdenziali si guadagnò il diritto riconosciutole dalle regole in vigore  perché la sua prima e unica legislatura -ultima peraltro della cosiddetta prima Repubblica- fu tra le poche a non interrompersi Cicciolina 2 .jpgprematuramente, arrivando alla scadenza ordinaria del 1992 per volontà soprattutto di Bettino Craxi. Che non lo fece di certo, impedendo lo scioglimento anticipato delle Camere che l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga gli avrebbe concesso nel 1991 se richiestone, per fare un piacere a Cicciolina, ormai uscita anche fuori dalle grazie di Pannella.

Craxi salvò quella legislatura, condannandosi peraltro al logoramento del referendum contro le preferenze, alla crescita del fenomeno leghista e all’accensione della miccia sotto la bomba di “Tangentopoli”, per un riguardo politico e umano -pensate un po’- ai comunisti.  Lo ha appena ricordato l’ex ministro socialista Rino Formica aprendo sul Corriere della Sera  una serie di interviste di Walter Veltroni su “misteri e fine della prima Repubblica”.

I comunisti di Enrico Berlinguer, e successori, al leader socialista gliene avevano  dette e fatte di tutti i colori, prendendo come una provocazione nei loro riguardi il suo arrivo a Palazzo Chigi nel 1983, pur concordato con un segretario democristiano non certamente sospettabile di anticomunismo viscerale come Ciriaco De Mita. Ma a Craxi, prima ancora dell’incontro che fece rumore in un camper con Massimo D’Alema, mandatogli dall’allora segretario comunista Achille Occhetto, sembrò scorretto profittare delle elezioni anticipate per aggravare le difficoltà in cui il Pci già si trovava per la caduta del muro di Berlino, nel 1989, e il cambiamento di nome e di simbolo che si era imposto, chiamandosi Pds e confinando la falce e martello sotto una quercia. In più, a quel Pds Craxi, anche se Formica ha omesso di ricordarlo a Veltroni, avrebbe persino fatto aprire, rinunciando al veto che gli spettava per statuto, le porte dell’Internazionale Socialista, utilissime in quel momento alla sinistra che si definiva post-comunista.

Ma torniamo a Salvini, ai suoi bacioni e al richiamo a Cicciolina. Mi chiedo sinceramente se convengano a un ministro dell’Interno, prima ancora che ad un  leader politico, quei bacioni così frequentemente e abbondantemente rivolti col proposito per niente nascosto di liquidare sbrigativamente con l’arma dell’ironia critici ed avversari, anche quando il titolare del Viminale ha argomenti più seri e convincenti da opporre. E ne ha: non dico sempre, per carità, come Salvini 2.jpglui stesso dovrebbe ammettere se ha una percezione umana di se stesso, non ritenendosi ormai infallibile neppure il  Papa, ma ogni tanto sì, ne ha. E avrebbe il dovere di esporre meglio le sue ragioni, e magari anche lasciando un po’ di spazio e di voce chi lavora con e per lui, e forse non è tanto stanco da lasciarsi scappare qualcosa di troppo o di controproducente, specie sul terreno dei rapporti istituzionali.

E’ quanto è capitato in questi giorni al ministro dell’Interno, fra un attracco e l’altro a Lampedusa di navi con migranti sottrattesi ai suoi ordini, dolendosi del fatto di non comandare le Forze Armate, almeno quelle di mare. Beh, le lasci tranquillamente al comando del presidente della Repubblica, come dispone d’altronde l’articolo 87 della Costituzione.

 

 

 

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