Peccato che Mattarella non abbia partecipato alla seduta straordinaria del Csm

            Con tutto il rispetto dovuto, per carità, alla persona e al ruolo del presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, si fatica a capire perché non abbia ritenuto di partecipare al cosiddetto plenum Gazzetta.jpgstraordinario -con 5 dei 16 consiglieri togati assenti perché dimissionari o autosospesi- dell’organo di autogoverno delle toghe. Cui l’articolo 105 della Costituzione conferisce “le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”.

            Eppure, dichiaratamente -ripeto- straordinaria, la riunione del Csm appena svoltasi nella sua sede, nota come Palazzo dei Marescialli, era stata convocata sotto l’incalzare di quella che ormai vieneCorriere.jpg generalmente ritenuta e definita “la questione morale anche dei magistrati”, dopo tutto ciò che è già emerso giudiziariamente e mediaticamente – a proposito della nomina del nuovo capo della nevralgica Procura della Repubblica di Roma- sui mercanteggiamenti correntizi e d’altro tipo nell’assegnazione degli uffici dove si amministra la giustizia.

            E’ emerso qualcosa che ha già evocato l’immagine o il fantasma della P2 degli anni Ottanta, al netto di tutte le strumentalizzazioni fatte allora di quella inquietante vicenda di condizionamento e infiltrazione  delle istituzioni. E il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, non uso certamente Breda 1 .jpgad abusare degli umori e delle notizie che raccoglie sul Colle, ha assicurato che Sergio Mattarella è ben più che “sconcertato e molto contrariato”, come dicono i suoi uffici. Egli è “scandalizzato” di quel che è accaduto apprendendo di riunioni in un albergo romano in cui si preparavano quelle delle commissioni e dello stesso plenum del Consiglio Superiore della Magistratura per assegnare cariche e promozioni.

            D’altronde, verrebbe voglia di dire, lo stesso Palazzo dei Marescialli ha rischiato qualche anno fa di diventare un albergo, quando si progettò il trasferimento del Csm a Villa Borghese, nella sede dell’allora morituro Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, poi salvato incredibilmente dal 60 per cento dei partecipanti al referendum che bocciò il 4 dicembre del 2016 la riforma costituzionale approvata dal Parlamento su proposta del governo di Matteo Renzi.

            Ebbene, proprio la circostanza di un Mattarella “scandalizzato”, come ha riferito il quirinalista del più diffuso giornale italiano, rafforza l’impressione ch’egli si sia lasciato scappare un’ottima occasione per dire direttamente ciò che ha preferito far dire invece al vice presidente David Ermini sulla “ferita profonda e dolorosa” inferta alla magistratura col mercato delle nomine.  “O sapremo riscattare con i fatti  -ha ammonito l’ex parlamentare del Pd- il discredito che si è abbattuto su di noi o saremo perduti”, se non è già troppo tardi, vista l’illusione che si continua a coltivare -come si evince dal documento approvato all’unanimità dal plenum- della capacità della magistratura di autoriformarsi. E’ dura a morire evidentemente l’abitudine delle toghe di scambiare quasi pregiudizialmente per un attentato alla loro indipendenza ogni riforma non condivisa dalle loro rappresentanze sindacali e istituzionali, cioè con esse non negoziate dal Parlamento e della maggioranza di turno. Così purtroppo è avvenuto sino ad ora, con tutti i governi, di ogni colore e gradazione, succedutisi nella prima e nella seconda Repubblica, come siamo ormai soliti chiamare quella che sarebbe finita col referendum elettorale del 1993 e quella che sarebbe cominciata con le elezioni del 1994.

            Sempre Breda, sul Corriere, ha riferito o assicurato che “quando la situazione si sarà decantata” Mattarella troverà la voglia e il tempo -osservo io- diBreda 2 .jpg interrompere i suoi frequenti e Mattarella.jpgmeritati, per carità, bagni di folla per “farsi sentire”  sulla questione morale apertasi nella magistratura, dopo tutte le altre questioni morali sollevate o gestite alla stessa magistratura a carico, per esempio, della politica. Ma sarà -ha anticipato Breda- un intervento, quello di Mattarella, “a modo suo, che non somiglierà certo alle ruvidezze di Cossiga verso i magistrati”. I quali arrivarono -lo ricordo bene- a scioperare contro il capo dello Stato. E con quali effetti, quegli scioperi, si è visto proprio con la questione morale avvertita o denunciata proprio sulla prima pagina del Corriere “anche tra i magistrati”, andati via via convincendosi di una loro onnipotenza.

 

 

 

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Quella verifica di governo che Conte non vuole chiamare così

Pur con quel “singulto di autorità” riconosciutogli giustamente da Carlo Fusi, che forse lo ha immaginato un po’, com’è capitato a me, al posto del guerriero a cavallo ritratto nella tela di Giovan Battista Pace appesa alle sue spalle nella sala dei Galeoni di Palazzo Chigi, dove teneva la sua conferenza stampa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte mi è sembrato emulo dei tanti predecessori costretti dalle circostanze alle “verifiche” dei loro governi, e relative maggioranze. Ma mi rendo conto, con tutto l’uso e anche l’abuso che si fa della parola magica del “cambiamento”, di quanto debba costare ai politici d’oggi adottare formule e linguaggi della cosiddetta prima Repubblica, ma un po’ anche della seconda.

 Si stenterà anche a chiamare “rimpasto” quello che avverrà, se vi si giungerà davvero, riempiendo nel governo le caselle che si sono via via scoperte, a cominciare da quella dell’ex ministro degli affari europei Paolo Savona. O assegnando diversamente gli altri dicasteri ai quali non sono più interessati i partiti degli attuali titolari. Oppure vi sono troppo interessati i leghisti così fortemente cresciuti nelle urne del 26 maggio.

 Se poi vi sarà davvero la crisi prematuramente già annunciata da alcuni giornali, allora sì che il dizionario della politica si prenderà la sua rivincita. E si tornerà a chiamare almeno quella cosa col suo vecchio nome. E sarà crisi più o meno al buio, come si diceva una volta, anche se al gioco delle scommesse va forte l’ipotesi delle elezioni anticipate a settembre, e persino prima, con gli italiani a rischio di astensionismo da bagni, più ancora che da delusione o stanchezza dopo le votazioni di maggio, e i ballottaggi comunali di domenica prossima. Per i quali si sta spendendo, in particolare, il leader leghista Matteo Salvini con un’energia tale da commentare quasi di sfuggita fra un comizio e l’altro ciò che accade a Roma. Dove peraltro i maggiori sforzi di alleati, concorrenti e avversari sono quelli di interpretare le laconiche e sempre uguali dichiarazioni del “capitano” miste di ottimismo e scetticismo per le sorti di un governo che pure gli ha permesso in poco più di un anno di raddoppiare i voti delle elezioni politiche, e di dimezzare quelli dei grillini, facendoli entrare in una fibrillazione da pronto soccorso.

Mi stupisce che, così pronto quasi scaramanticamente, e non solo per i mutamenti di linguaggio, a non ripetere la vecchia formula della “verifica” applicata alla ricognizione dello stato di salute del governo, alla diagnosi e possibilmente alla cura per evitare esiti infausti, il presidente del Consiglio Conte e, prima ancora di lui, il vice presidente grillino Luigi Di Maio abbiano parlato nei giorni scorsi del passaggio ad una “fase 2”. Di cui -ahimè- sono morti fra prima e seconda Repubblica parecchi governi, anche quelli di pur breve durata guidati, per esempio, da Romano Prodi e da Massimo D’Alema.

Altre due cose mi hanno invece sorpreso piacevolmente della conferenza stampa tenuta da Conte in orario da mercati chiusi, si è detto con una prudenza o un timore eccessivo, essendo escluso che un uomo della sua cautela, e consapevolezza giustamente vantata dei rapporti con l’Europa e con i mercati finanziari, appunto, potesse provocare il panico nelle Borse.

La prima sorpresa positiva è stata la saggia rinuncia al monologo, anticipato alla vigilia dagli addetti ai lavori, per cui sono tornate a sentirsi a Palazzo Chigi le domande di cui l’associazione della stampa parlamentare aveva lamentato la troppo frequente soppressione negli ultimi tempi. L’altra  sorpresa positiva è il proposito espresso dal presidente del Consiglio di tenere un comportamento non dico neutrale ma equidistante fra i due partiti della maggioranza. Che dovrebbero perciò sentire ora di più il dovere di rispettare le funzioni del professore e di non scavalcarlo.

La sorpresa di questo impegno deriva dall’impressione, avvertita magari a torto anche da chi scrive, e denunciata ultimamente e pubblicamente con forza particolare e interessata, per carità, dal sottosegretario leghista a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, che il presidente del Consiglio fosse stato da qualche tempo più sensibile alle esigenze, almeno quelle di facciata, dei grillini che dell’altro partito della maggioranza. E’ un’impressione -lo confesso- che mi sono portato appresso dal 21 ottobre scorso, quando Conte –“l’uomo che si fa Stato”, annunciò con una certa enfasi il vice presidente del Consiglio Di Maio- saltò sul palco del raduno nazionale del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo e, riferendo sui primi 143 giorni trascorsi a Palazzo Chigi, pronunciò un discorso più da festa di partito -quello che lo aveva in effetti designato alla guida del governo promuovendolo da ministro della sburocratizzazione, come era stato annunciato agli elettori- che da festa di un governo di coalizione tra forze -riconobbe lui stesso- “sotto molti versi eterogenee”, a dir poco.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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