Non solo l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, sospettabile di averlo detto per coprire l’amico e collega di partito Luca Lotti nei guai per i suoi rapporti d’albergo o d’altro tipo con i magistrati, ma anche l’ex ministro leghista della Giustizia Roberto Castelli ha definito “festival dell’ipocrisia” le proteste e le polemiche sul traffico, chiamiamolo così, delle carriere giudiziarie. E sulla crisi che ha investito così duramente il Consiglio Superiore della Magistratura da averlo portato sull’orlo dello scioglimento, scongiurato forse solo per il timore, giustamente avvertito dal suo presidente, che è lo stesso capo dello Stato, di vederne poi eleggere un altro con gli stessi difetti e gli stessi rischi, senza una preventiva riforma. Che è poi una parte della più generale riforma della Giustizia di cui tanto si parla, da tanto tempo, e così poco e male si riesce a fare.
Il “festival dell’ipocrisia” consiste nel voler fingere che le cose non siano andate, nel Palazzo dei Marescialli e dintorni, compresi alberghi e ogni altro ritrovo, come è emerso, nelle more della nomina del nuovo capo della Procura di Roma, dopo il pensionamento di Giuseppe Pignatone, registrando col sistema particolarmente invasivo del “Trojan”, immesso nel suo telefonino, tutti indistintamente gli incontri di Luca Palamara: un ex consigliere superiore ancora attivissimo, ed ex presidente sempre allertato dell’associazione nazionale dei magistrati, ora sotto indagine per corruzione a Perugia.
Non ho per fortuna -sarei persino tentato di dire- l’esperienza politica, di governo e quant’altro di Renzi e Castelli, ma ho una lunga esperienza professionale di giornalista che mi consente di dire con tutta tranquillità che le cose non sono sempre andate come è emerso dall’intercettazione costante di Palamara, 24 ore su 24, e a telefonico anche spento, se non ho capito male: una dannazione, insomma. Certo, non sono mancate interferenze politiche nelle nomine giudiziarie spettanti sulla carta all’organo di autogoverno della magistratura, ma non del livello, del tipo, dello stile, chiamatelo come volete, di quelle apprese in questi giorni, peraltro col solito sistema, generalmente deplorato e insieme tollerato, delle fughe di notizie, verbali e quant’altro ad alta velocità.
A questo proposito vi racconto la storia, credo non minore, anche per gli effetti clamorosi, poco importa a questo punto se del tutto casuali o anche voluti, che ne derivarono, compresa la fine della cosiddetta Prima Repubblica. E’ la storia della successione, nel lontano 1991, al famoso e autorevole Adolfo Beria d’Argentine alla Procura Generale della Corte d’Appello di Milano.
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Sono gli anni della Milano craxiana “da bere”. Quando il potere del leader socialista è stato sì ridimensionato nel 1987 con le elezioni anticipate – imposte dall’allora segretario democristiano Ciriaco De Mita proprio per interrompere anzitempo l’esperienza di Craxi a Palazzo Chigi, a capo di un governo di cui la Dc deteneva la metà dei Ministeri lasciandone l’altra divisa fra i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani e i liberali- ma sembra prossimo a tornare splendente con le elezioni ordinarie del 1992. Dopo le quali, gestite dal governo di Giulio Andreotti succeduto nel 1989 a quello di breve durata dello stesso De Mita, si danno per scontati il ritorno di Craxi a Palazzo Chigi, la promozione di Arnaldo Forlani da segretario della Dc a presidente della Repubblica e la giubilazione di Andreotti a presidente del Senato. Dove a sorpresa il capo dello Stato Francesco Cossiga l’ha trasferito dalla Camera conferendogli il laticlavio destinato dall’articolo 59 della Costituzione a chi ha “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”: una generosità che provvidenzialmente, per l’allora presidente del Consiglio, lo avrebbe poi messo al riparo dal pericolo di arresto nei processi che avrebbe subìto, uscendone peraltro assolto, sia pure con un pizzico, diciamo così, di prescrizione che ancora gli contesta alla memoria il suo grande accusatore oggi in pensione. Si tratta naturalmente di Gian Carlo Caselli.
Nella Milano craxiana -ripeto- “da bere” il potente
e prestigioso Adolfo Beria d’Argentine va in pensione il 6 dicembre 1990. La pratica della successione arriva e procede veloce al Consiglio Superiore della Magistratura. Concorrono alla carica di procuratore generale alla Corte d’Appello, in ordine alfabetico, il capo della Procura della Repubblica di prima istanza nella stessa Milano Francesco Saverio Borrelli, il procuratore generale di Trento Adalberto Capriotti e l’avvocato generale Mario Daniele.
Racconterà lo stesso Borrelli nel 1998 a Marcella Andreoli, autrice di una sua biografia –Borrelli, direttore d’orchestra-
pubblicata da Baldini&Castoldi: “Il Consiglio Superiore della Magistratura decise di ascoltare tutti e tre per poter decidere a ragion veduta. La commissione incarichi direttivi ci convocò a Roma e ciascuno di noi fece il suo piccolo show” (pagina 158).
“Ma poi, poche settimane più tardi, salta fuori dal cappello del prestigiatore -racconta l’autrice del libro- un quarto nome, quello di Catelani”: Giulio Catelani, “giurista di estrazione cattolica”, spiega la stessa autrice, “incoraggiato” a candidarsi all’ultimo momento “dal presidente della Corte d’Appello di Milano, Pajardi”. E sarà proprio Catelani, proveniente da Firenze come presidente di sezione della Corte d’Appello, a vincere la gara e ad ottenere il 14 marzo 1991 la successione ad Adolfo Beria d’Argentine.
L’informatissima biografa di Borrelli riferisce che fu il presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura in persona, Francesco
Cossiga, a convocare a Roma con una telefonata il nuovo procuratore generale di Milano per consegnargli il decreto di nomina e per incoraggiarlo “tra arazzi, stucchi dorati e corazzieri a fare una visita anche a Palazzo Chigi”, da Andreotti. Il quale “in contraccambio” dell’omaggio ricevuto come presidente del Consiglio -racconta lo stesso Catelani con le parole di Marcella Andreoli (pagina 159)- “mi onorò della sua presenza quando mi insediai” a Milano, arrivandovi – “mai successo”, commenta l’autrice del libro- con ben tre ministri: quelli della Difesa, il democristiano Virginio Rognoni, del Turismo e dello Spettacolo, l’ex sindaco socialista milanese Carlo Tognoli, e dei rapporti col Parlamento, il liberale di elezione ambrosiana Egidio Sterpa, non quindi il ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli, da poco subentrato al vertice del dicastero di via Arenula al collega di partito e giurista Giuliano Vassalli, diventato il 4 febbraio giudice della Corte Costituzionale per assumerne la pur breve presidenza l’11 novembre 1999, pochi mesi prima della scadenza del mandato.
Tra Borrelli e Catelani, l’uno sottoposto gerarchicamente all’altro con quella imprevista successione alla Procura Generale della Corte d’Appello di Milano, “non era mai corso un gran feeling”, racconta la biografa del capo della Procura
ambrosiana riportandone così il racconto, o la spiegazione: “All’inizio, ma è normale, mi sembrò un po’ spaesato: non conosceva i problemi della magistratura milanese, né i suoi uomini. Ma era anche impaziente: alle riunioni con venti o trenta pubblici ministeri in cui ognuno di noi manifestava il proprio punto di vista, improvvisamente lui diceva: “Va bene, ci siamo capiti, siamo tutti d’accordo”. Invece non lo eravamo per niente”.
Non deve quindi stupire più di tanto il fatto che, arrivato a Milano l’anno prima della esplosione di Tangentopoli con l’arresto in flagranza di mazzette del socialista Mario Chiesa
e con la storica inchiesta “Mani pulite”, destinata a spazzare via tutti i partiti di governo e a compromettere anche l’esordio della cosiddetta Seconda Repubblica, visti gli scontri anche diretti fra Borrelli e Silvio Berlusconi; non deve quindi stupire, dicevo, il fatto che il successore di Beria d’Argentine rimanga a Milano solo quattro, agitatissimi e contestatissimi anni. Nell’autunno del 1995 egli chiede e ottiene dal Consiglio Superiore della Magistratura
un liberatorio pensionamento. Viene sostituito da Umberto Loi in una gara alla quale per ragioni di evidente opportunità rinuncia spontaneamente di partecipare Borrelli, che vi concorrerà invece, vincendo, la volta successiva.
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Nel tentativo di leggere, interpretare, spiegare circostanze e ragioni dell’imprevisto e in qualche modo insolito arrivo di Catelani a Milano, nel suo libro del 1998 la biografa di Borrelli, precisando nella premessa il carattere “del tutto personale” delle sue “valutazioni”, pur maturate dopo “lunghe e preziose conversazioni” con lo stesso Borrelli, scrive: “Ricordate il Caf? Sembra che sia passato un secolo, ma non è lontano il tempo in cui il tridente Craxi-Andreotti-Forlani faceva il diavolo a quattro vincendo spesso le partite. Figurarsi se non guardava alla Procura Generale di Milano con interesse. L’inchiesta Duomo connection aveva già messo il naso negli intrecci tra mondo politico e mondo degli affari”. Ne era stata in qualche modo investita la giunta comunale di sinistra di Milano, guidata dal sindaco socialista Paolo Pillitteri, cognato di Craxi.
Ebbene, proprio parlando delle prime anticipazioni di quel libro comparse, fra l’altro, sull’Espresso, quando già le sue condizioni di salute erano peggiori di quanto lui non ritenesse, tanto che lo avrebbero portato alla morte in poco più di un anno, Bettino mi raccontò e svelò nella sua casa tunisina l’arcano di quella prima mancata nomina di Borrelli a procuratore generale della Corte d’Appello di Milano, sorpassato all’ultima curva da Catelani.
Non ci furono emissari e mercati di chissà quanto basso livello. Accadde solo che Andreotti in persona chiese a Craxi un incontro urgente e riservato, nel quale di prima mattina gli domandò, sorprendendolo non poco, se i “tuoi a Milano” avessero davvero preso impegni a favore della
promozione di Borrelli. Bettino gli chiese le ragioni di quella domanda: in particolare, se gli risultassero condizioni ostative alla promozione del capo della Procura milanese. Andreotti gli rispose che non ne esistevano di nessuna natura, se non di opportunità. Borrelli -gli spiegò- aveva fatto la sua carriera tutta a Milano: giudice del tribunale, consigliere di Corte d’Appello, presidente di sezione, procuratore aggiunto, procuratore capo. Diventando procuratore generale della Corte d’Appello a nove anni di distanza dalla pensione, egli avrebbe di fatto accumulato un potere d’influenza anomalo.
Il ragionamento di Andreotti parve -ahimè- condivisibile a Craxi, che forse non immaginava i sospetti, a dir poco, cui avrebbe potuto prestarsi il suo assenso a chi era destinato a farne le spese e ne fosse stato in qualche modo informato. O avesse solo potuto averne sentore.
Alla fine dell’incontro fu lo stesso Andreotti, un conoscitore non certo sprovveduto degli umori e degli equilibri del Consiglio Superiore della Magistratura pur presieduto dal vulcanico Cossiga, che aveva privato con una sfuriata pubblica di alcune deleghe il vice presidente Giovanni Galloni, a prospettare l’ipotesi di Catelani, proveniente da Firenze e più vicino alla pensione.
La riservatezza alla quale Craxi mi vincolò raccontandomi questo retroscena -e che retroscena- fu legata al percorso non tanto della sua vita ormai compromessa quanto di quella di Andreotti. Della cui buona fede, nell’intervento sulla vicenda milanese di Borrelli, Bettino era tanto convinto da reagire malamente a chi, parlandogli, sospettava lo zampino, o qualcosa di analogo, dell’allora presidente del Consiglio, e suo ex ministro degli Esteri, in tutto ciò che andava maturando e sarebbe rovinosamente esploso nella “mia” Milano, come diceva Craxi.
Pubblicato su Il Dubbio