Il gradimento è mobile, come la donna nel Rigoletto di Giuseppe Verdi

            Ora che è finito, per fortuna, anche il supplemento della campagna elettorale di primavera e partiti, leader e leaderini sono in attesa solo dei risultati dei 163 ballottaggi comunali di domani 9 giugno, di cui 15 in capoluoghi di provincia, è davvero augurabile che tutti si diano una calmata e facciano seriamente di conto. E si decidano, magari, ad affrontare i problemi sul tappeto -sia quelli vecchi sia quelli maturati negli ultimi giorni, a cominciare dalla procedura europea d’infrazione per eccesso di debito messa in cantiere dalla pur uscente Commissione di Bruxelles- con maggiore consapevolezza delle loro forze.

            Potrà essere utile, a questo riguardo, in particolare alla maggioranza gialloverde che sembra ricompostasi attorno ai due vice presidenti del Consiglio, incontratisi a Palazzo Chigi senza neppure aspettare il ritorno a Roma dal Vietnam del presidente Giuseppe Conte, che era partito minacciandoli di abbandono, un esame delle rivelazioni appena effettuate per il Corriere della Sera dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli.

            Nel mese e poco più trascorso dal 2 maggio al 5 giugno, comprensivo quindi della parte culminante e alquanto burrascosa della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, del consiglio regionale del Piemonte e di quasi quattromila amministrazioni comunali, e dei loro risultati, noti nella loro interezza nella giornata del 27 maggio, l’indice di gradimento del governo ha perso ben 4 degli 8 punti giocatisi dall’insediamento. Non mi sembrano francamente pochi, anche se il gradimento è ancora di due punti sopra il 50 per cento.

            Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che pure qualche volenteroso ha accreditato del 12 per cento dei voti se decidesse di mettersi in proprio, visti i problemi che gli creano i due vice, e di allestire per le prossime elezioni politiche, anticipate o ordinarie che siano, una sua lista, come fece Mario Monti nel 2013, ha perduto in un mese 6 punti, pur fermandosi a 53. Che è lo stesso livello di Matteo Salvini, partito tuttavia dal 49 per cento personale di un anno fa, contro il 63 del professore, avvocato “del popolo” e via discorrendo, compreso “l’uomo che si fa Stato” gridato al Circo Massimo il 21 ottobre 2018 da Di Maio davanti al pubblico radunatosi anche per festeggiare la fine della povertà. Essa era stata trionfalisticamente annunciata qualche sera prima dal balcone di Palazzo Chigi dallo stesso vice presidente. Era stata la sera -ricordate?- della sfida alla Commissione europea di Bruxelles, e a tutto ciò ch’essa poteva rappresentare oltre l’Unione, col deficit portato nel progetto di bilancio del 2019 al 2,4 per cento del pil: salvo poi premettere uno 0 al 4, dopo faticose trattative condotte da Conte per bloccare la procedura d’infrazione anche allora di fatto già avviata.

            Non può certamente stupire, anche ricordando quella infelice serata e tutto ciò che n’è poi seguìto, compresi il 15 per cento dei voti perduti dai grillini il 26 maggio rispetto al 32 per cento del 4 marzo 2018 per il rinnovo delle Camere, se Di Maio ha conservato quel 32 nell’ultimo rilevamento dell’Ipsos di Pagnoncelli solo come indice di gradimento personale, rispetto al 47 dell’insediamento.

            Per sua fortuna -o sfortuna, si vedrà- il vice presidente grillino del Consiglio ha già evitato col referendum digitale allestitogli in tutta fretta da Davide Casaleggio di perdere la guida del movimento delle 5 stelle, pur lasciatagli -credo- da buona parte di quelli che lo hanno salvato solo per fargli intestare anche la prossima, prevedibile sconfitta.

            Peggio di Di Maio tuttavia sono messi i suoi ministri, fra i quali si distinguono per caduta di gradimento Ipsos 2.jpgpersonale, sempre secondo le rilevazioni ultime dell’Ipsos di Pagnoncelli per il Corriere della Sera, l’ineffabile Danilo Toninelli, precipitato alla guida delle Infrastrutture dagli iniziali 46 punti, prima della caduta del ponte Morandi a Genova, a 21. Che sono comunque sempre più dei 20 del ministro per i rapporti col Parlamento Riccardo Fico, o della ministra del Mezzogiorno Barbara Lezzi, sempre pentastellati.

 

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Il momento dei Rieccoli: la coppia Di Maio-Salvini e…Berlusconi

Indro Montanelli, morto nel 2001 alla pur bella età di 92 anni, non ha fatto in tempo a conoscere la coppia politica guadagnatasi il diritto alla successione a quel famosissimo “Rieccolo” da lui affibbiato ad Amintore Fanfani. Che cadeva e si rialzava con una ostinazione da primato.

Luigi Di Maio e Matteo Salvini, vice presidenti del Consiglio in ordine sino a poco tempo fa sia alfabetico sia di consistenza elettorale, ora solo in ordine alfabetico, visto il rovesciamento dei rapporti forza nelle urne del 26 maggio, hanno ritrovato l’intesa perduta in una campagna elettorale condotta, nelle ultime battute, senza esclusione di colpi.

Essi si sono riconciliati, con tanto di comunicato da summit, in un lungo incontro a Palazzo Chigi svoltosi non a caso, secondo talune maliziose letture di stampa, al minuscolo e al maiuscolo, in assenza del vero padrone di casa: il presidente Giuseppe Conte, in viaggio di ritorno dal Vietnam. Dove il professore si era recato dopo avere dato un ultimatum, sia pure senza scadenza, proprio a loro due perché gli risparmiassero, con la loro sostanziale incomunicabilità, le dimissioni e la conseguente apertura della crisi.

Sembra che i vice avessero gradito poco quell’uscita di Conte avvertendo il rischio che spianasse la strada, con la disponibilità del capo dello Stato rassegnata o minacciosa, secondo i punti di vista, a mettere nella toppa del Quirinale la chiave delle elezioni anticipate. Alle quali, a conti fatti, né Di Maio, che pure ne aveva avvertito l’odore, o la puzza, nei progetti del suo omologo leghista, né Salvini sono evidentemente interessati.

Che non avesse interesse Di Maio si era capito subito dalla consistenza drammatica della sua sconfitta elettorale il 26 maggio, con quei quindici punti perduti in un anno. E che non gli sono costati la carica di capo del movimento delle 5 stelle proprio per il timore delle elezioni anticipate anche da parte dei suoi critici, interessati perciò ad accollargli pure il successivo, prevedibile insuccesso.

Che non avesse interesse neppure Salvini non era invece scontato, nonostante la convinzione da lui espressa pubblicamente prima e dopo il voto che fosse necessario andare “avanti”, senza neppure la necessità o il proposito di chiedere quello che una volta si chiamava “rimpasto” per distribuire in modo più conveniente gli incarichi di governo, e prenotare anche quelli di sottogoverno.

Forti pressioni per elezioni anticipate, dietro la facciata di un partito galvanizzato dai successi elettorali e politici del suo “capitano”, si avvertivano fra i leghisti. Dei quali aveva parlato in pubbliche dichiarazioni, e con un certo compiacimento, anche Silvio Berlusconi nella speranza, almeno apparente, che riuscissero a smuovere Salvini e a farlo tornare nell’ovile del centrodestra, intanto ingranditosi in tutte le realtà locali dove si è votato dopo il 4 marzo dell’anno scorso.

Invece, guarda caso, proprio dopo un incontro di due ore avuto con Berlusconi domenica scorsa, complice forse la circostanza di abitare a Roma l’uno di fronte all’altro, Salvini deve avere ricavato l’impressione che le elezioni anticipate non convenissero neppure a lui, oltre che a Di Maio.

A dare la notizia di questo incontro, cui è seguito cronologicamente e politicamente quello di Salvini con Di Maio a Palazzo Chigi, è stato il giornale di famiglia dell’ex presidente del Consiglio e leader a vita di Forza Italia, dandone una versione un po’ troppo ottimistica, forse, visti gli sviluppi successivi. Che si sono tradotti in un rafforzamento delle prospettive del governo gialloverde, pur su un percorso pieno di ostacoli o di mine, a cominciare dalla procedura europea di infrazione per debito eccessivo messa in cantiere contro l’Italia dalla Commissione uscente, ma non per questo omissiva o rinunciataria, dell’Unione.

Per quanto il Cavaliere, archiviata con la campagna elettorale anche la candidatura del suo fedelissimo Antonio Tajani a Palazzo Chigi, non proprio musica per le orecchie del leader leghista, si sia ritagliato un ruolo lontano, acquistando casa a Bruxelles e proponendosi di essere fra i più attivi nel nuovo Parlamento europeo, Salvini non sembra proprio entusiasta, né impaziente, della possibilità di  un ritorno con lui, fatti salvi -per carità- i loro rapporti personali. Che sono di amicizia e persino di simpatia, a volte.

Tutto sommato, la coppia Di Maio-Salvini appena rinata dalle ceneri delle elezioni europee, ma anche piemontesi e amministrative del 26 maggio, senza voler fare torto a nessuno dei due, e agli interessi politici che entrambi perseguono legittimamente, pur confliggenti spesso fra di loro, può ben essere definita quella della paura.

Parlo non tanto della paura che  la coppia gialloverde incute presso gli altri, avversari o concorrenti che siano, quanto di quella che ciascuno dei suoi componenti nutre: per Di Maio la paura delle elezioni anticipate e per Savini la paura del ruolo che riesce ancora a conservare Berlusconi, per quanto ridotto a risultati elettorali da una cifra soltanto.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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