La vicenda della teutonica Carola Rachete, o Rackete, che al comando della solita nave tedesca sotto bandiera olandese ormai specializzata in soccorsi in acque libiche ha sbarcato contro ogni divieto il suo carico nel porto italiano di Lampedusa, rischiando peraltro di schiacciare una motovedetta della Guardia di Finanza e procurandosi anche per questo l’arresto, si è
paradossalmente trasformata
in un manuale per rendere tanto popolare Matteo Salvini, nonostante le sue smargiassate verbali, quanto impopolare l’Europa. Cui la Repubblica italiana di carta col solito titolo forte di prima pagina ha riconosciuto il merito di stare “con Carola”, appunto. E quindi contro l’Italia o il suo governo legittimamente in carica, per quanto ogni giorno traballante per contrasti interni, che però non riguardano l’immigrazione, essendo su questo terreno leghisti e grillini in sintonia, o in dissenso misurato.
Ormai la legittimità, di cui tutti si riempiono la bocca quando parlano degli avversari, è diventata un valore relativo. Per molti è legittimo solo ciò che fa comodo, o collima con le proprie opinioni, illegittimo tutto il resto. Anche il fondatore della Repubblica italiana di carta, Eugenio Scalfari, che pure da qualche tempo onora la sua veneranda età immergendo i propri articoli domenicali nella filosofia, nella letteratura, nella storia e nelle arti, è sceso questa volta sul terreno della quotidianità per mettere sugli scudi la teutonica Carola e buttare nelle fiamme dell’Inferno politico Salvini.
Scalfari ha ritrovato nel leader leghista quel Benito Mussolini che peraltro lui fece in tempo, da giovanotto, a sentire e vedere invaghendosene al pari di tanti altri, coetanei o meno giovani. Poi, certo, e prima ancora di farsi crescere la barba, il signore si ravvide per battere altre strade e ammirare altri uomini o storie, l’ultima delle quali è stata quella di Enrico Berlinguer, che “Barpapà” è tornato anche in quest’ultima domenica di giugno a proporre
come modello al Pd del fratello del mitico commissario Montalbano. Dove però, anziché studiare Berlinguer, con le sue luci e naturalmente anche con le sue ombre, pur generosamente dimenticate da Scalfari, taluni dirigenti hanno avuto altro da fare in questi giorni: tifare pure loro per Carola, salire sulla sua barca, incoraggiarla a sfidare le leggi italiane e assistere anche alla sua dimostrata incapacità di attracco, di cui lei stessa ha dovuto scusarsi con le guardie di Finanza appena scampate alla morte.
Se l’Europa, quella ritrovatasi a Osaka con gli altri “Grandi” della Terra e quella tornata a Bruxelles per trattare la ripartizione delle cariche dell’Unione dopo il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, dovesse essere disgraziatamente
e davvero l’Europa solidale con Carola Rachete, o Rackete, potremmo ben dire e scrivere di lei quello che
Scalfari ha appena scritto dell’Italia per lamentare i voti che così abbondantemente raccoglie la Lega di Salvini. “L’opinione pubblica italiana è in gran parte fuori strada”, ha sentenziato don Eugenio trovando così, a sua insaputa, anche la ragione forse principale delle tante copie perse in questi anni nelle edicole pure dalla sua Repubblica: compie che non temo destinare a tornare con quei titoli nerboruti come “Forza Capitana” e “L’Europa sta con Carola”.
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con una quarantina di migranti, non certamente destinati a morire di fame e altri stenti dal momento del loro soccorso in mare, la giovane “capitana” tedesca Carola Rachete è riuscita paradossalmente a creare più danni a chi l’ha issata come una bandiera in questi giorni che a se stessa, e ai proprietari della nave battente bandiera olandese affidata incautamente alla sua guida.
Sofocle, è di tale livello da lasciare tramortiti. E’ stato Domenico Quirico, lo storico inviato della Stampa, che ne ha viste, vissute e raccontate di tutti i colori nella sua esperienza professionale a contatto con guerre, carestie e atrocità di ogni tipo, a scrivere un onestissimo e ragionevolissimo articolo intitolato con la stessa semplicità ed efficacia dei suoi reportage: “Cara Carola, stai sbagliando”. Ne sarà arrossito di imbarazzo, spero, leggendolo il direttore dell’affiliata, associata e non so come altro definirla Repubblica diretta da Carlo Verdini, dopo i ventenni di Eugenio Scalfari e di Ezio Mauro, e il regno breve di Mario Calabresi.
nell’inferno libico e li ha resi ostaggi della sua personalissima e curiosa guerra contro le regole, gli interessi, la linea del legittimo governo dell’Italia. Della quale tutto si può francamente dire e scrivere ma non che non abbia dato, e abbastanza, di suo sul terreno dell’ospitalità e del soccorso ai migranti, tra l’indifferenza e spesso la dichiarata ostilità di altri paesi europei che godono della loro lontananza dalle coste africane. E stanno lì a misurare, di giorno e di notte, di quanti decimali di punti siano contestabili i nostri bilanci, e di quali e quante multe e procedure d’infrazione sia minacciabile il governo di turno a Roma. Via, diciamo la verità, è un’autentica vergogna. E che lo si lasci dire solo a Salvini è un’altra vergogna.
Carola c
ontro il “capitano” Salvini hanno sognato per qualche giorno un morto, qualsiasi e per qualsiasi ragione, sulla nave Sea Watch, o su qualsiasi spiaggia italiana, da poter fotografare e stampare sulle prime pagine accanto all’immagine del padre e della figlia affogati nelle lontane acque ai confini fra gli Stati Uniti e il Messico. Vergogna, per la terza volta.
parlamentari saltativi a bordo, una specie di Papessa di un Pd rigenerato, capace finalmente di mettere nell’angolo o schiacciare come un verme Salvini. Il quale invece sta ora festeggiando, e a ragione, anche quest’altra occasione che il Pd ha voluto perdere per non rendere inconciliabile la sicurezza e la sinistra, che solo il povero Marco Minniti da quelle parti raccomanda, inascoltato, di sapere invece coniugare.
appena demolito del tutto per farne costruire uno nuovo. Naturalmente Atlantia -così si chiama la società decottanda, diciamo così, ma ancora utile a salvataggi tipo quello di Alitalia– ha protestato e minacciato azioni legali per i danni che subiscono i suoi titoli in Borsa, e i risparmiatori che li posseggono, ad ogni annuncio governativo che ne compromette le sorti.
dalla “capitana” tedesca di un nave battente bandiera olandese. Che si fa scudo di 42 migranti a bordo per sottrarsi agli ordini e ai divieti nelle acque territoriali italiane, tra gli applausi e le incitazioni di tante anime belle alle quali ha deciso di offrire soccorso e titoli-bandiera anche il giornalone Repubblica. Che con quella testata sente ogni tanto l’orgoglio e l’occasione di fare concorrenza, per capacità di influenza, al Quirinale.
la magistratura, di cui si teme un intervento delegittimante nel caso in cui il prefetto competente, eseguendo il nuovo decreto legge sulla sicurezza appena entrato in vigore, sequestri davvero la nave alla capitana, confiscandola, oltre che multandola, e non la fermi per qualche giorno per lasciarla poi ripartire, com’è accaduto con le toghe prima delle nuove norme.
lamentato lo stesso presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura, ma anche fra i giuristi Salvini, “il capitano”, stenta a trovare sostegni veri, col clima che c’è contro di lui, del quale il meno che si sogna è la fine di Mussolini a Piazzale Loreto.
è uscito allo scoperto a favore del ministro dell’Interno: il solito Carlo Nordio, magistrato naturalmente in pensione, anche se ha avuto coraggio ad esporsi controcorrente sin da quando era in servizio, pagandone gli effetti naturalmente in termini di carriera.
vertice della graduatoria elettorale
d’Italia. Sono invece convinto che così si lavori indefessamente, e in tanti, a suo favore, commettendo un’autorete politica e psicologica di lunghissimo effetto. E lo dico pensando a tutti gli altri titoli, fotomontaggi, vignette che si vedono sfogliando una qualsiasi rassegna stampa: da Repubblica al Fatto, dal manifesto al Secolo XIX e ad altro ancora.
così, ha deciso di sfidare non tanto Salvini quanto un intero governo, per quanto malmesso, al comando di un mercantile in cui, francamente, non so dire se i 42 migranti soccorsi in mare siano alla fine diventati ostaggi più di lei che di quelli che li avevano messi in mare nell’esercizio del più turpe dei mercati o traffici.
più sfavorevole, dopo avere perduto ogni possibile appoggio o appiglio dei pur generosi organismi giudiziari, o simili, della imbelle Europa. Che da tempo, direi troppo tempo, sta letteralmente abusando della posizione geografica dell’Italia: la più vicina ed esposta al fenomeno biblico delle migrazioni dall’Africa e dallo stomachevole commercio che hanno deciso di farne i trafficanti di carne umana.
Carola Rachete, e per i soldi suoi personali e della sua famiglia benestante, e per quello specialista delle provocazioni politiche e di piazza che le sta metaforicamente dietro, l’italiano Luca Casarini, già affacciatosi di persona sulla stessa scena marittima prima di andarsi a prendere un aperitivo nella buvette di Montecitorio. Continuate pure in questo gioco
in cui Salvini ha tutto da guadagnare, specie se la situazione politica dovesse precipitare verso le elezioni anticipate, con una campagna elettorale infernale, per temperatura fisica, politica e sociale. Fate, fate. E poi correrete tutti a farvi consolare in qualche buon ritrovo dal mio amico Giulianone Ferrara. Che sul Foglio ha deciso di partecipare a suo modo a questa incredibile corsa verso l’abisso, lasciando tuttavia che ogni tanto si spenda per Salvini sullo stessol giornale, affidato alla direzione di Claudio Cerasa, la solitaria Annalisa Chirico, da lui chiamata -o sfottuta- Chirichessa. Che fa rima con baronessa, al minuscolo per favore.
cercare di fermare la procedura europea di infrazione per debito eccessivo, coll’approdo in Parlamento delle cosiddette autonomie differenziate, per non provocare la crisi ad opera dei leghisti, con la revoca delle concessioni autostradali ai Benetton, minacciata da un anno dai grillini per reazione al crollo del ponte Morandi a Genova ma bloccata dal timore di costosissime penali, e dall’intervenuto interesse degli stessi Benetton ad un progetto pentastellato di salvataggio dell’Alitalia, e con altro ancora; la lista del contenzioso, dicevo, si è improvvisamente allungata col ritorno sulla scena della cosiddetta Tav. O della versione maschile -il Tav- preferita dagli espertissimi del Fatto Quotidiano nella campagna che conducono per impedirne la realizzazione.
va avanti, per giunta con lo stanziamento di nuovi fondi da parte dell’Unione Europea condizionato alle tappe cui stanno provvedendo i bandi d’appalto appena annunciati dal Consorzio internazionale Telt. Il cui consiglio d’amministrazione si è riunito a Parigi non in clandestinità. E neppure all’insaputa -è stato precisato- della “struttura” più o meno commissariale che si occupa della vicenda a Palazzo Chigi, almeno da quando i grillini si sino rimessi, o hanno mostrato di rimettersi, alle valutazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte anche come avvocato.
delle olimpiadi invernali del 2026 a Milano e a Cortina. Di cui al Fatto Quotidiano -e dove sennò?- hanno già cominciato ad elencare i possibili “predatori”, varianti evidentememte dei “prenditori”, a loro volta varianti degli imprenditori. Tutto da quelle parti si tiene: concetti, parole e invettive.
ministeriale di Luigi Di Maio e amici, secondo l’analisi orgogliosamente “scorretta” di Alessandro Di Battista condivisa, ma esposta più filosoficamente, diciamo così, dal presidente della Camera Roberto Fico in una intervista pubblicata da Repubblica con l’aria di uno scoop eccezionale.
dovuto consigliare lo spirito sia pure parzialmente maggioritario voluto dagli italiani col referendum di cinque anni prima, D’Alema concesse la grazia, diciamo così, a tutti i colleghi giornalisti con la rinuncia alle querele pendenti. Ma, diavolo di un uomo, ci ricascò alla prima occasione
denunciando Giorgio Forattini per una vignetta che lo rappresentava impegnato a sbianchettare una lista di spie italiane, vere o presunte, degli scomparsi servizi segreti sovietici. E furono soldi che il vignettista avrebbe dovuto sborsare vendendosi qualche casa se a pagare non fosse intervenuto l’editore con una generosità spontanea come i contributi di solidarietà imposti per legge.
ha appena proposto sul Foglio una specie di manifesto della sinistra riformista che, secondo lui, sarebbe oggi rappresentata soprattutto dai sindaci che nelle
ultime elezioni amministrative hanno dimostrato capacità di resistere alla deriva populista e di destra. E pensare che D’Alema una volta liquidò come “cacicchi” i sindaci cresciuti di peso con l’elezione diretta, tanto da sentirsi più forti dei partiti in cui militavano. Analogie col “manifesto” di Minniti le ho un po’ trovate, specie sul tema della sicurezza, nella bella intervista di Claudio Petruccioli a Carlo Fusi.
Consiglio grillino – o paragrillino- Giuseppe Conte, il Movimento delle 5 Stelle è il convitato di pietra nella festa mediatica e politica esplosa in Italia con l’assegnazione dei giochi olimpici invernali del 2026 a Milano e Cortina: un’assegnazione decisa a Losanna dall’apposito comitato internazionale con 47 voti contro 34, regolarmente segreti. Ma ne se ne sarebbero bastati 42 per prevalere sulla candidatura svedese.
solito Fatto Quotidiano. Che tanto bene riflette l’anima grillina, e l’alimenta con i suoi titoli, le sue cronache, le sue invettive, i suoi appelli, per fortuna non sempre ascoltati, da avere già cominciato a strillare e a piangere sulla “sconfitta” addirittura dell’Italia. E si prepara a fare previsioni e conti di tutto ciò
che potrebbe costarci questa dannata impresa. Dalla quale non a caso si è tirata fuori la Torino della sindaca a cinque stelle, come la Roma della sindaca pentastellata si tirò fuori da altri giochi olimpici, in coerenza -si vantò- con una linea adottata a livello nazionale da quel governo tecnico di Mario Monti su cui il movimento grillino ha pur scritto e scrive le peggiori cose possibili.
titolato sul Foglio il direttore Claudio Cerasa, è un po’ la ciliegina sulla torta della lunga stagione elettorale di questo
2019. Che tra votazioni europee, regionali e amministrative, si è conclusa per i pentastellati come peggio, francamente, non poteva, dimezzando la loro consistenza ed aprendo all’interno del Movimento una crisi dagli sviluppi davvero imprevedibili.
d’infrazione per debito eccessivo messa in cantiere dalla Commissione uscente di Bruxelles, facendone coincidere il percorso, guarda caso, con le trattative sulle nuove cariche nell’Unione Europea; in questa situazione, dicevo, è stato sin troppo facile a Matteo
Salvini far prevalere la propria festa, accanto alla bandiera nel suo ufficio al Ministero dell’Interno, su quella di facciata di Giuseppe Conte, francamente molto meno credibile e coerente del leader leghista e del suo fidato Giancarlo Giorgetti, che ha partecipato personalmente al progetto infine riuscito a Losanna.
questa pianta, che è di genere sia maschile, con un fiore che troneggia tra le foglie come un fallo, sia femminile, al cui centro si forma una gigantesca e morbida ovaia. Erano piante costose una volta. La loro diffusione le ha un po’ deprezzate, ma rimangono -ripeto- molto belle e resistenti.
colore della Lega, raddoppiata di voti e di consensi nelle urne. E che, a dire il vero, tenta ogni tanto di archiviare il suo verde di un tempo, quello di Umberto Bossi, per sostituirlo col blu, in tonalità più forte dell’azzurro ormai stinto, non a caso, della Forza Italia più volte fondata e restaurata dall’instancabile Silvio Berlusconi, espertissimo peraltro di giardinaggio. Pertanto il Cavaliere potrebbe cominciare col demolire e fare a pezzetti questo mio dilettantesco tentativo di applicare le piante alla politica, o viceversa.
el bilancio del 2019, divenne di fatto tricolore. Il terzo partito, come fu battezzato dai giornali, era quello dei ministri tecnici, in particolare degli Esteri e dell’Economia, e infine dello stesso presidente del Consiglio, particolarmente sensibili alle preoccupazioni, ai moniti, ai suggerimenti e a quant’altro del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che seppe guidarli bene, dietro le quinte, ma un po’ anche davanti, nelle trattative comunitarie, sino a scongiurare la bocciatura comunitaria del bilancio trasformando il deficit del 2,4 al 2,04 per cento del prodotto interno lordo, noto di più con le sue iniziali: pil. Potenza di uno zero messo al posto giusto.
appare a torto o a ragione come l’aspirante cassamortaro -dicono nella sua sua Roma- del povero Luigi Di Maio. Che si è stancato di fingere la parte del fratello, o quasi, ed ha cominciato a lanciare segnali non dico di insofferenza, ma di guerra vera e propria, definendo Dibba, nome d’arte di Alessandro Di Battista, “destablizzatore”. E’ un po’ come ai tempi del Pci i dissidenti venivano liquidati, e a volte anche radiati, come “frazionisti”.
risparmiandogli -debbo dire- l’argomento di ferro di cui dispone e che tutti fingono di ignorare o di avere dimenticato: il voto unanime -ripeto, unanime- con cui il Parlamento si è recentemente pronunciato a favore, con l’appoggio del rappresentante di turno del governo in aula. Ma questa è un’altra storia da infiochhettare sotto la Cycas del Conte, col premesso anche del buon Mario Draghi, insorto contro i minibot come presidente della Banca Centrale Europea prima ancora del suo amico ed estimatore Giorgetti.
ha delle vicende sotto le cinque stelle grilline: una conoscenza che lo spinge spesso a dare consigli a dirigenti, militanti e quant’altri, inascoltati molte volte ma sempre sufficienti ad aumentare lo scompiglio, o la dialettica, come preferiscono dire i raffinati. “Dibba, Di Maio “incazzato” (e provocato da Salvini &C”, dice il titolo del giornale di Marco Travaglio sovrapposto al fotomontaggio.
convivenza alla maniera dei “Roses”. Lo ha appena detto la senatrice partenopea Paola Nugnes, fichiana nel senso di estimatrice del presidente grillino della Camera Rooberto Fico, passando al gruppo misto di Palazzo Madama e cercando di non pagare, peraltro, la penale di centomila euro che per contratto i parlamentari a cinque stelle si impegnano a versare in questi casi.
cui la sintonia è piena. Ed è forse proprio la gabbia, più che un armadio, o un tavolo, o una scrivania, o una cassa, la cosa che Dibba ha imparato a costruire meglio nel corso di falegname frequentato di recente nel Viterbese, dopo un tuffo infelice nella campagna elettorale per le regionali dell’anno scorso, quando il movimento cominciò la discesa conclusasi il 26 maggio di questo 2019 con la perdita di 15 punti nelle urne per le europee, rispetto ai 32 guadagnati un anno prima nel rinnovo delle Camere italiane.
Eugenio Scalfari sulla sua Repubblica di carta parafrasando un po’ i versi danteschi, ma senza spingersi a lamentare esplicitamente l’assenza anche di un “nocchiero”, e non solo di una rotta. E ciò forse solo per non smentire l’enfatico titolo di apertura del giorno prima del suo giornale, che si era doluto del fatto che “sulle spalle di un suolo uomo”, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fosse finito anche il compito del presidente del Consiglio.
e inaccettabile” e “il coacervo di manovre nascoste” scoperto dalle indagini giudiziarie. Che sono peraltro lontane da una conclusione, per cui potrebbe venir fuori ancora dell’altro destinato a sorprendere e scandalizzare di più il presidente del Consiglio Superiore e della Repubblica.
governo se si farà carico di un disegno di legge e dal Parlamento che lo dovrà approvare, attenendosi o modificando la Costituzione. Una cosa comunque sembra esclusa, ed è già importante: un’autoriforma dell’organo di autogoverno delle toghe, col pretesto di sventare chissà quale attentato alla loro autonomia da parte dei riformatori legittimi ma esterni quali sono con le loro iniziative il Governo e il Parlamento.
da Carlo Verdelli, declassando così sul campo tutti gli altri attori e protagonisti della scena istituzionale: a cominciare naturalmente dal presidente del Consiglio, già preoccupato di suo e intento a smentire che stia difendendo i conti italiani dalla bocciatura
della Commissione uscente dell’Unione Europea, e trattando una loro eventuale modifica, “col cappello in mano” per evitare la procedura d’infrazione. E neppure col cappello al piede, come lo ha impietosamente rappresentato il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno prendendolo sulla parola a proposito delle mani libere.
alle loro funzioni o rinunciatari, non è né giusta né opportuna. Non giova neppure al presidente della Repubblica, sulle cui “spalle”, per attenersi alle parole della Repubblica di carta, si mettono tali e tante attese degli italiani da condannarlo a deluderli. E’ come se qualcuno, all’Arena di Verona, dove Mattarella alla fine di una giornata così difficile, si è recato con la figlia per assistere alla Traviata nell’ultima sceneggiatura del compianto Franco Zeffirelli, avesse preteso che l’autorevolissimo ospite salisse sul palco per unirsi, anzi per sostituirsi ad Alfredo o a chissà chi altro.