Non so se Silvio Berlusconi sia rimasto male più per la discesa della sua Forza Italia sotto il 10 per cento anche in Abruzzo, dove l’anno scorso aveva evitato il sorpasso leghista registrato a livello nazionale con le elezioni politiche, o per il modo in cui Matteo Salvini ha voluto investire il successo del proprio partito. Che è prevalso non solo sul suo alleato locale, appunto il Cavaliere, ma anche sull’alleato di governo a Roma: il movimento delle cinque stelle.
E’ durata poco la sensazione avvertita nelle prime reazioni di Salvini, a caldo, di voler diventare “più forte” nei rapporti con i grillini sulle questioni aperte all’interno della maggioranza gialloverde: dalla Tav
alle maggiori autonomie regionali, dalla questione venezuelana alla sua vicenda giudiziaria per l’affare Diciotti, il pattugliatore della Guardia Costiera italiana dove il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno è accusato dai giudici di Catania, non dalla Procura, di avere sequestrato 177 emigrati nella scorsa estate, pur dopo averne consentito il soccorso in mare.
Calma, “non cambia niente” nel governo e nella maggioranza, il lavoro continua, ha detto invece il leader leghista rinfrancando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che dalla Basilicata, confuso sino a definirsi presidente della Repubblica, lo ha implicitamente ringraziato ripetendone le parole, ma
soprattutto il vice presidente Luigi Di Maio. Che, pur assistito nella campagna elettorale da un agitatissimo Alessandro Di Battista, si trova ora più esposto di prima ai malumori e alle proteste dei compagni di partito che lo accusano di avere lasciato troppo spazio proprio a Salvini, contribuendo a farne il protagonista della compagine ministeriale.
Quella di Salvini non è stata e non è tuttavia una scelta di generosità, che non è molto di casa in politica. E’ stata ed è un’astuta scelta di opportunità. O di opportunismo, direbbero i suoi critici. O addirittura di perfidia, come ha mostrato di credere Il Fatto Quotidiano dandogli del “beffardo”. Il leader leghista, convinto di navigare elettoralmente col vento in poppa, vuole attendere
i risultati delle altre elezioni regionali in programma nelle prossime settimane, dalla Sardegna alla Basilicata, e delle elezioni europee di fine maggio, probabilmente abbinate a quelle regionali in Piemonte. Che potrebbero dargli più forza ancora, da investire meglio.
Ma soprattutto il leader leghista può non avere voluto indebolire troppo fra i grillini il suo interlocutore privilegiato e più diretto, che è Di Maio. E lasciare di più gli avversari interni del vice presidente del Consiglio alla tentazione di aprire, o riaprire alla sinistra in caso di crisi, magari provocata apposta, dopo che il Pd e i cespugli che lo attorniano hanno mostrato proprio in Abruzzo, attorno alla candidatura del pur sconfitto Giovanni Legnini, qualche segno di risveglio.
In effetti il 31 per cento raccolto dall’ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, per quanto eterogeneo, non è da sottovalutare. E non è vero, come si dice con una superficiale
lettura dei risultati, che il partito conteso dai candidati alla segreteria Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, abbia perso in un anno altri tre punti in Abruzzo fermandosi all’11,14 per cento. E’ avventato negargli il 5,55 per cento della lista intestata personalmente a Legnini, ma in realtà votata in grandissima parte dai compagni di partito del candidato alla presidenza della regione.
A favore di un’ipotesi di cambio della maggioranza in Parlamento, con un serio tentativo di riagganciare il maggiore partito della sinistra in caso di crisi, sta soprattutto -quasi come un incubo nella testa di Salvini, che non ne fa mistero parlando con i suoi- l’ostilità del presidente della Repubblica Sergio Mattarella
alle elezioni anticipata. E anche la diffidenza, quanto meno, dello stesso Mattarella verso il progetto berlusconiano di un centrodestra allargato a “volenterosi, responsabili” e quant’altri dell’attuale maggioranza.
A una simile prospettiva, d’altronde, neppure Salvini sembra interessato, ricordando quanto fosse già costata al centrodestra un’operazione analoga condotta da Berlusconi in prima persona, quando era ancora a Palazzo Chigi, per rimpiazzare Gianfranco Fini e gli amici della destra passati all’opposizione nel 2010. Il governo sopravvisse di stenti, sino al collasso del 2011 e all’arrivo di Mario Monti e dei suoi tecnici, salutati con sollievo dallo stesso Berlusconi prima di ricostruire la vicenda politica di quell’estate gridando al colpo di Stato, o qualcosa di simile.
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appunto, “il botto” attribuito ai grillini all’arrivo delle prime proiezioni o sensazioni. E per riconoscere “trionfanti” quelli che col solito tono spregiativo vengono definiti dal giornale diretto da Marco Travaglio “Salvini & B.”, cioè Berlusconi. I due sono tornati, o rimasti, insieme nella regione ed hanno portato alla presidenza col quasi 50 per cento dei voti il candidato proposto al centrodestra da Giorgia Meloni: il “fratello d’Italia”, diciamo così, Marco Marsilio. Che è un oriundo abruzzese, essendo nato e residente a Roma, dove è stato eletto senatore l’anno scorso, e prima ancora deputato per due legislature.
politico da Di Maio, supportato a sua volta dall’uomo più di punta del movimento che è Alessandro Di Battista, i contrasti sono destinati ora a crescere, non certo a ridursi. E tutto lascia ritenere che ciò avverrà a spese del realismo necessario all’azione di governo, per cui il partito delle 5 stelle sarà ancora più di lotta di quanto non abbia già deciso di essere offrendosi come sponda, per esempio, in Europa ai gilet gialli francesi. Il che è avvenuto a costo di compromettere i già difficili rapporti con l’Eliseo e di procurare agli interessi italiani, per giunta nel già ricordato contesto recessivo, le ritorsioni di Emmanuel Macron.
Giovanni Legnini, già vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ma attestatosi sopra il 30 per cento. Ma va detto che questo 30 per cento e oltre non è del Pd, valutabile da solo attorno al 17, ma ad una coalizione fra partiti, gruppi e liste locali ancora difficilmente traducibili in un’alleanza a livello nazionale.
fortuna solo di nome, Matteo Salvini si era forse contrariato dello spazio dedicato dalle cronache dei giornali, e un po’ anche dagli analisti politici, al suo pur collega di partito e amicissimo Giancarlo Giorgetti. Che nell’ultima seduta del Consiglio dei Ministri, verbalizzandone la discussione come sottosegretario alla Presidenza, aveva condiviso il dissenso del ministro dell’Economia Giovanni Tria dal veto del vice presidente grillino Luigi Di Maio alla conferma di Luigi Federico Signorini per altri sei anni a vice direttore della Banca d’Italia. Ma soprattutto aveva contestato la motivazione data da Di Maio, e sostanzialmente condivisa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: la necessità di mandare un segnale chiaro di cambiamento contro uomini, istituti, posizioni e quant’altro identificabili col “sistema”.
consiliare di Palazzo Chigi dopo avere interrotto il professore Conte che considerava praticabile la strada del cambiamento -che è la cifra del famoso contratto di governo- andando avanti per “tentativi”. Il prossimo, di tentativi, sarà forse contro il successore di Salvatore Rossi, il cui mandato scadrà a maggio anche per limiti di età, alla direzione generale della Banca d’Italia
. Il governatore è già avvisato. Il nuovo direttore generale dovrà essere scelto “fuori dal sistema”, direbbe Di Maio dopo il trattamento riservato a Signorini, che ha avuto la disavventura di essere conosciuto meglio in Parlamento dai grillini per avere avuto, fra i suoi compiti, quello di essere ascoltato nelle commissioni di Montecitorio e di Palazzo Madama come rappresentante dell’istituto di via Nazionale.
mancando l’obiettivo di non fare confermare alla scadenza del mandato il governatore Ignazio Visco, ha destato una certa sorpresa la decisione del vice presidente leghista del Consiglio Salvini di correre a Vicenza, ospiti entrambi di un’assemblea di ex azionisti di banche popolari venete, per abbracciare l’omologo grillino Di Maio e impugnarne la ramazza contro la Banca d’Italia. Che sarebbe colpevole, come già sosteneva -ripeto- l’altro Matteo, di scarsa vigilanza nel settore del credito al pari della Consob, indicata da Salvini come un’altra postazione addirittura da “azzerare”. Eppure vi è stato appena designato, per la presidenza dopo un lungo vuoto, dal Consiglio dei Ministri l’amico del vice premier leghista e autorevole economista Paolo Savona.
di casa: da Parigi, dove non hanno alcuna intenzione di archiviare davvero la sfida del corteggiamento dei gilet gialli, peraltro ribadito nella lettera al quotidiano Le Monde pur col riconoscimento dell’addirittura “millenaria” democrazia francese, il capo del movimento grillino ha rispostato il fuoco su Roma. E ha preso di mira la Banca d’Italia in una seduta del Consiglio dei Ministri di cui abbondano le cronache sui giornali.
era il turno del vice direttore Luigi Federico Signorini, come qualche mese fa era stato quello di Fabio Panetta.
parlamentari. Alle quali di recente il vice direttore dell’istituto ha espresso dubbi sulle potenzialità espansive, diciamo così, del cosiddetto reddito di cittadinanza, tanto voluto dai grillini, e anche della quota 100 di marca leghista per l’accesso alla pensione, sommando cioè 62 anni di età e 38 di contributi. Pertanto il blocco della conferma di Signorini può ben essere visto e interpretato come una ritorsione, visto anche che ad un certo punto, secondo le cronache non smentite della seduta del Consiglio dei Ministri, Di Maio ha parlato della necessità di lanciare un segnale al “sistema”. Che secondo i grillini lavorerebbe dalla mattina alla sera per boicottare il cambiamento sancito nel contratto di governo.
sulla “sua” Repubblica – “sua” perché fondata da lui 43 anni fa- di un incontro e scambio di informazioni e di idee appena avuto appunto con Ignazio Visco, raccogliendone le preoccupazioni per “una recessione crescente e totale che ha effetti non soltanto economici ma politici”. Il virgolettato, a dire il vero, è di Scalfari, ma credo che non sia molto difforme dal pensiero e dalle parole del governatore della Banca d’Italia. Che -ha raccontato sempre Scalfari- “si sta destreggiando nel modo più acconcio” nell’esercizio delle sue funzioni.
e il museo del Louvre nella felice immaginazione dei colleghi del manifesto, il festival dello stupore. O degli stupiti, se preferite, ma stando ben attenti, per carità, ad accentuare con la voce la penultima lettera: quella della t. Che non scappi -attenzione- una d perché non saprei a quel punto chi mandare in finale e a chi assegnare la vittoria.
e nominato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso. E che ha sulle spalle più di otto mesi, non solo i sei contati -credo a Parigi, dove ha una delle sue case- dal buon Giuliano Ferrara per farne un bilancio spietato con quel suo articolo e titolo in cui l’Italia sul Foglio è ridotta a “un paese di merda”.
o governo regionale, Salvini si è incontrato e si è fatto fotografare festosamente con Silvio Berlusconi. Sì, proprio il Cavaliere di Arcore, da cui qualche giorno fa Alessandro Di Battista -sempre lui- aveva auspicato che tornasse, anche a livello nazionale, per coronare i sogni di natura anche tangentara che l’esponente grillino attribuisce ai sostenitori della linea ferroviaria di alta velocità per le merci da Lione a Torino: la famosa e contestatissima Tav.
il vice presidente del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro a smetterla. O a darsi una regolata nelle celebrazioni seriali che fa del cosiddetto reddito di cittadinanza. Per il quale si stanno predisponendo in tutta, e forse troppa fretta, gli adempimenti normativi, tecnici e burocratici per l’erogazione prima delle elezioni europee di maggio, e forse anche di qualcuna delle elezioni regionali in programma nella primavera di questo “bellissimo” 2019. Così lo ha definito o promesso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sfidando tutte le previsioni di segno opposto formulate dagli organismi preposti in sede nazionale e internazionale. Che -hanno garantito una volta tanto all’unisono esponenti grillini e leghisti di ogni livello- non ci hanno mai azzeccato nei loro calcoli e previsioni, per cui saremmo autorizzati questa volta a riderne, o a fare i dovuti scongiuri.
del reddito di cittadinanza durante l’elaborazione della legge di bilancio, se non ricordo male. Vi era rappresentato il bambino che chiedeva al padre se fossero ancora poveri e si sentiva rispondere: “Si, ma adesso ci pagano per esserlo”. E ciò a esclusivo vantaggio -si potrebbe aggiungere con gli ultimi aggiornamenti- delle migliaia di “navigator” in via di assunzione per assistere, indirizzare e quant’altro i destinatari di una carta gialla di soccorso tanto modesta per chi la riceverà quanto costosa per l’economia del paese. Che avrebbe avuto e avrebbe bisogno di ben altro per uscire dalla stagnazione in cui è appena entrata anche sul piano formale, o tecnico, come altri preferiscono dire.
così, con i fatti, intesi anche come plurale della testata, scomunicando in prima pagina “mezzo M5S” perché “parla come B.”, cioè come Silvio Berlusconi. In verità, nella cronaca questo concetto non si trova, ma qualcuno ha provveduto a mettervelo sopra come un cappello.
davvero a sorpresa rispetto all’interesse da lui mostrato sino a qualche mese fa per la “novità”, il cambiamento e quant’altro attribuito al loro movimento. “Questi -ha detto l’ex magistrato, ex ministro, ex senatore ed ora felicemente e finalmente avvocato- ingoiano qualunque cosa…Perseguono un unico scopo: restare incollati alla poltrona. Quando gli ricapita? Se perdono il seggio, dai banchi del Parlamento -ha detto ancora Tonino- passano a vendere gelati al banco di fronte a Montecitorio”, o a Palazzo Madama.
successore, annunciate peraltro ai lettori delle copie cartacee all’interno, senza l’evidenza della prima pagina che di solito si assegna a questo tipo di notizie, si è cercato di attribuire la causa alla crisi della Repubblica di carta nelle edicole. Che invece l’ormai ex direttore, quasi per difendersene, si è vantato di avere ridotto dal 14 per cento delle perdite evidentemente ereditato al 7 per cento.
giornale diretto da Calabresi quando scoppiarono le polemiche sui 600 milioni di euro di profitto realizzato in poco tempo dall’editore di Repubblica ordinando al suo operatore di borsa Gianluca Bolengo di investire 5 milioni nelle banche popolari che stavano per essere riformate con un decreto legge dal governo di Matteo Renzi. Dei tempi ormai vicinissimi di quella riforma, appunto, De Benedetti aveva appreso dallo stesso presidente del Consiglio al termine di una colazione, di primo mattino, a Palazzo Chigi.
anticorruzione e altrettanto fortemente valorizzato nella sua attività da giornali e giornalisti di ogni tendenza, salvo pochi mugugni, sino a quando non è arrivato nello scorso anno il governo gialloverde del cosiddetto cambiamento. Dove qualcuno non ha gradito, senza neppure nasconderlo, il lavoro o forse ancor di più il metodo di lavoro di Cantone, dai cui uffici sono passate pratiche di appalti e di nomine di ogni tipo, nazionale o locale. Egli si è sentito e dichiarato ad un certo punto “sopportato”, più che supportato, cioè stimato e sostenuto. E, magari precedendo qualche intervento di quelli che non sono certo mancati a Palazzo Chigi e dintorni in materia di cosiddetto spoils system, ha colto l’occasione offertagli dalla gara in Consiglio Superiore della Magistratura per la copertura di Procure della Repubblica vacanti per parteciparvi. E tornare così al suo antico e generalmente apprezzato mestiere, anche ha precisato di prevedere tempi lunghi per la sua pratica al Csm, per cui rimarrà dov’e ancora per un bel po’.
quotidiano nel governo gialloverde con i suoi colleghi, considerando l’esperienza e la competenza economica e finanziaria che egli ha, deve averne viste e sentite tante, e tanto inutilmente cercato di correggere o evitare cose contrarie alle sue abitudini e visioni, che non gli è parso vero evitare gesti clamorosi di rottura saltando sul convoglio della presidenza della Consob offertogli dal presidente del Consiglio, forse anche dal capo dello Stato o comunque dalle circostanze. E ha preferito, alla sua età, saltarvi sopra con spirito giovanile, anche a costo di sentirsi dire e contestare tutte le presunte o vere ragioni di “incompatibilità” contestategli prevalentemente dal Pd, e sotto sotto condivise forse anche da qualche grillino. Sarà probabilmente una via crucis fuori stagione quella che aspetta Savona nelle procedure parlamentari e burocratiche della nomina.
annunciava con giubilo la presentazione delle prime ventimila domande all’Inps per l’accesso anticipato alla pensione da parte di chi ha maturato 62 anni di età e 38 di contributi, dall’Europa sono piovute altre tegole sull’Italia.
Nicola Maduro: l’erede di Chavez di cui Alessandro Di Battista, sempre lui, è riuscito ad imporre la venerazione nel suo movimento. Ben 19 Paesi dell’Unione Europea hanno definitivamente scaricato Maduro e riconosciuto il presidente ad interim del Venezuela Juan Gaidò, che alla scadenza del mandato del rivale, confermato l’anno scorso con elezioni dalla irregolarità persino sfacciata, si è proposto di restituire la parola ai cittadini. Che invece Maduro vorrebbe rimandare alle urne, con i suoi metodi, per eleggere un nuovo Parlamento, visto che quello in carica è presieduto proprio da Gaidò, legittimato dalla Costituzione venezuelana a prendere provvisoriamente il posto del presidente scaduto della Repubblica.
a questo punto che non rimedi pure Sergio Mattarella il “rompicoglioni” già riservato da Di Battista a Salvini per la Tav. Ormai il repertorio dei grillini è o è tornato ad essere questo, se è mai davvero cambiato da quando sono passati dall’opposizione al governo.
il ministro dell’Interno, e vice presidente del Consiglio, ha scoperto al Viminale, indossando felpe della Polizia e lasciandosi spiegare dai prefetti leggi, trattati, regolamenti e quant’altro, che le cose non stanno proprio come lui aveva immaginato. Esse sono più complicate, stanno purtroppo in modo tale che solo qualche giorno fa, proprio per le condizioni in cui si è venuto a trovare con l’applicazione delle nuove norme, il nigeriano venticinquenne Jerry Prince si è ucciso gettandosi sotto un treno a Genova.