L’astuto Salvini grazia i grillini, in attesa delle elezioni europee di maggio

            Non so se Silvio Berlusconi sia rimasto male più per la discesa della sua Forza Italia sotto il 10 per cento anche in Abruzzo, dove l’anno scorso aveva evitato il sorpasso leghista registrato a livello nazionale con le elezioni politiche, o per il modo in cui Matteo Salvini ha voluto investire il successo del proprio partito. Che è prevalso non solo sul suo alleato locale, appunto il Cavaliere, ma anche sull’alleato di governo a Roma: il movimento delle cinque stelle.

          E’ durata poco la sensazione avvertita nelle prime reazioni di Salvini, a caldo, di voler diventare “più forte” nei rapporti con i grillini sulle questioni aperte all’interno della maggioranza gialloverde: dalla Tav Abruzzolone.jpgalle maggiori autonomie regionali, dalla questione venezuelana alla sua vicenda giudiziaria per l’affare Diciotti, il pattugliatore della Guardia Costiera italiana dove il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno è accusato dai giudici di Catania, non dalla Procura, di avere sequestrato 177 emigrati nella scorsa estate, pur dopo averne consentito il soccorso in mare.

          Calma, “non cambia niente” nel governo e nella maggioranza, il lavoro continua, ha detto  invece il leader leghista rinfrancando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che dalla Basilicata, confuso sino a definirsi presidente della Repubblica, lo ha implicitamente ringraziato ripetendone le parole, ma manifesto.jpgsoprattutto il vice presidente Luigi Di Maio. Che, pur assistito nella campagna elettorale da un agitatissimo Alessandro Di Battista, si trova ora più esposto di prima ai malumori e alle proteste dei compagni di partito che lo accusano di avere lasciato troppo spazio proprio a Salvini, contribuendo a farne il protagonista della compagine ministeriale.

           Quella di Salvini non è stata e non è tuttavia una scelta di generosità, che non è molto di casa in politica. E’ stata ed è un’astuta scelta di opportunità. O di opportunismo, direbbero i suoi critici. O addirittura di perfidia, come ha mostrato di credere Il Fatto Quotidiano dandogli del “beffardo”. Il leader leghista, convinto di navigare elettoralmente col vento in poppa, vuole attendere Salvini 2.jpgi risultati delle altre elezioni regionali in programma nelle prossime settimane, dalla Sardegna alla Basilicata, e delle elezioni europee di fine maggio, probabilmente abbinate a quelle regionali in Piemonte. Che potrebbero dargli più forza ancora, da investire meglio.

           Ma soprattutto il leader leghista può non avere voluto indebolire troppo fra i grillini il suo interlocutore privilegiato e più diretto, che è Di Maio. E lasciare di più gli avversari interni del vice presidente del Consiglio alla tentazione di aprire, o riaprire alla sinistra in caso di crisi, magari provocata apposta, dopo che il Pd e i cespugli che lo attorniano hanno mostrato proprio in Abruzzo, attorno alla candidatura del pur sconfitto Giovanni Legnini, qualche segno di risveglio.

           In effetti il 31 per cento raccolto dall’ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, per quanto eterogeneo, non è da sottovalutare. E non è vero, come si dice con una superficiale Giannelli.jpglettura dei risultati, che il partito conteso dai candidati alla segreteria Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, abbia perso in un anno altri tre punti in Abruzzo fermandosi all’11,14 per cento. E’ avventato negargli il 5,55 per cento della lista intestata personalmente a Legnini, ma in realtà votata in grandissima parte dai compagni di partito del candidato alla presidenza della regione.

          A favore di un’ipotesi di cambio della maggioranza in Parlamento, con un serio tentativo di riagganciare il maggiore partito della sinistra in caso di crisi, sta soprattutto -quasi come un incubo nella testa di Salvini, che non ne fa mistero parlando con i suoi- l’ostilità del presidente della Repubblica Sergio Mattarella Mattarella.jpgalle elezioni anticipata. E anche la diffidenza, quanto meno, dello stesso Mattarella verso il progetto berlusconiano  di un centrodestra allargato a “volenterosi, responsabili” e quant’altri dell’attuale maggioranza.

          A una simile prospettiva, d’altronde, neppure Salvini sembra interessato, ricordando quanto fosse già costata al centrodestra un’operazione analoga condotta da Berlusconi in prima persona, quando era ancora a Palazzo Chigi, per rimpiazzare Gianfranco Fini e gli amici della destra passati all’opposizione nel 2010. Il governo sopravvisse di stenti, sino al collasso del 2011 e all’arrivo di Mario Monti e dei suoi tecnici, salutati con sollievo dallo stesso Berlusconi prima di ricostruire la vicenda politica di quell’estate gridando al colpo di Stato, o qualcosa di simile.

 

 

 

 

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Terremoto, ma tutto politico, in Abruzzo. Crollano rovinosamente i grillini

           Terremoto in Abruzzo, ma per fortuna questa volta soltanto politico. I risultati delle elezioni regionali hanno interrotto il trand dei due partiti al governo abbondantemente al di sopra, sommando i loro voti, al 50 per cento. Insieme leghisti e grillini, per quanto i primi abbiano sfiorato il 28 per cento, si sono fermati sotto il 50. E ciò a causa del crollo, come per una scossa sismica, del movimento delle 5 stelle, precipitato a circa il 20 per cento dal quasi 40 conseguito nella regione con le elezioni politiche dell’anno scorso.

           Dev’essere costato molto all’almeno simpatizzante Fatto Quotidiano dovere ribattere, come si dice in gergo tecnico, la sua edizione del lunedì nella notte per trasformare in “crollo”, Il Fatto.jpgappunto, “il botto” attribuito ai grillini all’arrivo delle prime proiezioni o sensazioni. E per riconoscere “trionfanti” quelli che col solito tono spregiativo vengono definiti dal giornale diretto da Marco Travaglio “Salvini & B.”, cioè Berlusconi. I due sono tornati, o rimasti, insieme nella regione ed hanno portato alla presidenza col quasi 50 per cento dei voti il candidato proposto al centrodestra da Giorgia Meloni: il “fratello d’Italia”, diciamo così, Marco Marsilio. Che è un oriundo abruzzese, essendo nato e residente a Roma, dove è stato eletto senatore l’anno scorso, e prima ancora deputato per due legislature.

           La parte ancora più scomoda del titolo del Fatto Quotidiano, almeno per chi ha dovuto farlo valutando gli effetti del voto regionale sulla situazione politica generale del Paese, è quella sul “governo più debole”: cioè ancora più debole di quanto non fosse diventato prima delle elezioni abruzzesi per la recessione economica arrivata a dispetto del “boom” annunciato dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio e del “bellissimo 2019” promesso dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte : l’uno e l’altro convinti della spinta propulsiva -come si diceva della rivoluzione comunista in Russia nel 1917- del cosiddetto reddito di cittadinanza e dell’accesso alla pensione con 62 anni di età e 38 di contributi, a somma o quota 100.

            Ma non era stato solo l’arrivo della recessione a indebolire il governo gialloverde nelle ultime settimane, e mesi. Ancora di più lo avevano indebolito i contrasti all’interno di una coalizione spuria come quella formata per forza maggiore dopo le elezioni politiche dell’anno scorso fra i due partiti più votati, ma su fronti contrapposti. Essi sono stati assemblati solo dalle convenienze del potere e dalla indisponibilità, per ragioni diverse, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell’ormai ex leader del centrodestra Silvio Berlusconi, sorpassato nelle urne dall’alleato Matteo Salvini, alle elezioni anticipate.

            Proprio Salvini è il leader che ha guadagnato di più, in tutti i sensi, nelle urne abruzzesi. All’interno del centrodestra egli ha rafforzato il sorpasso su Berlusconi -e che sorpasso- conseguendolo anche in una regione dove lo aveva mancato l’anno scorso. E di ciò il Cavaliere, fermatosi -con i dati ancora parziali del momento in cui scrivo- al di sotto del 10 per cento, dovrà tenere conto negli sviluppi della situazione politica generale del Paese e nei rapporti locali di alleanza che ha con la Lega.

           Al di fuori del centrodestra, e con particolare riferimento ai rapporti con gli attuali alleati di governo a livello nazionale, Salvini ha sorpassato largamente anche i grillini portando la Lega, col quasii 28 per cento, in testa alla graduatoria dei partiti. “Siamo più forti”, si è affrettato a dichiarare il leader leghista, forse pensando al cosiddetto rimpasto di governo già programmato per l’indomani delle elezioni europee di fine maggio, se non verrà addirittura anticipato.

          Fra i grillini, la cui candidata alla presidenza della regione, Sara Marcozzi, è stata sostenuta con particolare caloresara marcozzi.jpg politico da Di Maio, supportato a sua volta dall’uomo più di punta del movimento che è Alessandro Di Battista, i contrasti sono destinati ora a crescere, non certo a ridursi. E tutto lascia ritenere che ciò avverrà a spese del realismo necessario all’azione di governo, per cui il partito delle 5 stelle sarà ancora più di lotta di quanto non abbia già deciso di essere offrendosi come sponda, per esempio, in Europa ai gilet gialli francesi. Il che è avvenuto    a costo di compromettere i già difficili rapporti con l’Eliseo e di procurare agli interessi italiani, per giunta nel già ricordato contesto recessivo, le ritorsioni di Emmanuel Macron.

          L’unica consolazione per i grillini, almeno per quelli più insofferenti per il ruolo di Salvini nel governo, e che già dopo le elezioni politiche dell’anno scorso avevano tentato un aggancio col troppo malmesso Pd, è forse proprio il recupero abruzzese del centrosinistra: sconfitto col suo candidato alla presidenzaLegnini.jpg Giovanni Legnini, già vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ma attestatosi sopra il 30 per cento. Ma va detto che questo 30 per cento e oltre non è del Pd, valutabile da solo attorno al 17, ma ad una coalizione fra partiti, gruppi e liste locali ancora difficilmente traducibili in un’alleanza a livello nazionale.

          Forse il centrosinistra sarebbe tornato ancora più in gioco se alle elezioni abruzzesi si fosse avuta un’affluenza superiore a quel modesto 53 per cento dei  votanti registrato nonostante i tanti riflettori accesi sulla regione. Che sembrava ad un certo punto promossa al ruolo emblematico, o da pilota, svolto negli Stati Uniti dall’Ohio, i cui elettori sanno riflettere da tempo gli umori medi di tutta la Confederazione a stelle e strisce.  

 

 

 

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Salvini soccorre Di Maio, a sorpresa, nell’offensiva contro Bankitalia

           Prima ancora di contrariarsi per l’inattesa vittoria del rapper italo-egiziano Mahmood al festival canoro di Sanremo, dove avrebbe preferito -parola di twitter- il romano Ultimo, per Snremo.jpgfortuna solo di nome, Matteo Salvini si era forse contrariato dello spazio dedicato dalle cronache dei giornali, e un po’ anche dagli analisti politici, al suo pur collega di partito e amicissimo Giancarlo Giorgetti. Che nell’ultima seduta del Consiglio dei Ministri, verbalizzandone la discussione come sottosegretario alla Presidenza, aveva condiviso il dissenso del ministro dell’Economia Giovanni Tria dal veto del vice presidente grillino Luigi Di Maio alla conferma di Luigi Federico Signorini per altri sei anni a vice direttore della Banca d’Italia. Ma soprattutto aveva contestato la motivazione data da Di Maio, e sostanzialmente condivisa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: la necessità di mandare un segnale chiaro di cambiamento contro uomini, istituti, posizioni e quant’altro identificabili col “sistema”.

            “Così non arriviamo neppure a fine mese”, era stato sentito mormorare Giorgetti nella salaGiorgetti.jpg consiliare di Palazzo Chigi dopo avere interrotto il professore Conte che considerava praticabile la strada del cambiamento -che è la cifra del famoso contratto di governo- andando avanti per “tentativi”. Il prossimo, di tentativi, sarà forse contro il  successore di Salvatore Rossi, il cui mandato scadrà a maggio anche per limiti di età, alla direzione generale della Banca d’Italia Rossi.jpg.  Il governatore è già avvisato. Il nuovo direttore generale dovrà essere scelto “fuori dal sistema”, direbbe Di Maio dopo il trattamento riservato a Signorini, che ha avuto la disavventura di essere conosciuto meglio in Parlamento dai grillini per avere avuto, fra i suoi compiti, quello di essere ascoltato nelle commissioni di Montecitorio e di Palazzo Madama come rappresentante dell’istituto di via Nazionale.

              Alla luce di quanto è accaduto nella seduta del Consiglio dei Ministri sulla situazione interna alla Banca d’Italia, alla cui protezione è sempre stato attento il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come sperimentò a suo tempo l’allora segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi Renzi.jpgmancando l’obiettivo di non fare confermare alla scadenza del mandato il governatore Ignazio Visco, ha destato una certa sorpresa la decisione del vice presidente leghista del Consiglio Salvini di correre a Vicenza, ospiti entrambi di un’assemblea di ex azionisti di banche popolari venete, per abbracciare l’omologo grillino Di Maio e impugnarne la ramazza contro la Banca d’Italia. Che sarebbe colpevole, come già sosteneva -ripeto- l’altro Matteo, di scarsa vigilanza nel settore del credito al pari della Consob, indicata da Salvini come un’altra postazione addirittura da “azzerare”. Eppure vi è stato appena designato, per la presidenza dopo un lungo vuoto, dal Consiglio dei Ministri l’amico del vice premier leghista  e autorevole economista Paolo Savona.

            Il governo, si sa, traballa continuamente fra i numeri della recessione, incidenti diplomatici, gaffe e quant’altro, e le crescenti apprensioni del capo dello Stato, ma la ramazza della sempre ritrovata coppia dei vice presidenti è sempre attiva. Con quali esiti finali si vedrà, perché prima o poi verrà il momento di fare i conti davvero: al più tardi dopo  le elezioni europee di maggio, e gli antipasti regionali in Abruzzo, già oggi, in Sardegna e in Basilicata.

 

 

 

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Il fuoco di Luigi Di Maio si sposta dall’Eliseo alla Banca d’Italia

           Ormai quella del vice presidente grillino del Consiglio è una postazione d’artiglieria, più che una postazione politica. Ogni giorno egli apre un fronte senza chiuderne altri. Questa volta è stato più Rolli.jpgdi casa: da Parigi, dove non hanno alcuna intenzione di archiviare davvero la sfida del corteggiamento dei gilet gialli, peraltro ribadito nella lettera al quotidiano Le Monde pur col riconoscimento dell’addirittura “millenaria” democrazia francese, il capo del movimento grillino ha rispostato il fuoco su Roma. E ha preso di mira la Banca d’Italia in una seduta del Consiglio dei Ministri di cui abbondano le cronache sui giornali.

            L’occasione, il pretesto o quant’altro è stato il passaggio, abitualmente solo formale, per Palazzo Chigi della nomina o conferma di uno dei componenti del cosiddetto direttorio della Banca d’Italia. Questa volta direttorio.jpgera il turno del vice direttore Luigi Federico Signorini, come qualche mese fa era stato quello di Fabio Panetta.

            La conferma di Signorini per altri sei anni, deliberata come quella di Panetta dal Consiglio Superiore dell’istituto di via Nazionale, si è scontrata col veto opposto appunto da Di Maio. Il quale al ministro dell’Economia che gli faceva notare l’insolita intrusione negli affari e nelle competenze interne alla Banca d’Italia non ha trovato altro argomento da opporgli che la contestazione di tutte le volte in cui lo stesso ministro, Giovanni Tria, si era occupato di “grandi opere”, a cominciare dalla Tav.

            In verità, la colpa di Signorini sta nelle competenze e nel ruolo, assegnatogli dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, di seguire la finanza pubblica e di interloquire con le commissionivice direttore.jpg parlamentari. Alle quali di recente il vice direttore dell’istituto ha espresso dubbi sulle potenzialità espansive, diciamo così, del cosiddetto reddito di cittadinanza, tanto voluto dai grillini,  e anche della quota 100 di marca leghista per l’accesso alla pensione, sommando cioè 62 anni di età e 38 di contributi. Pertanto il blocco della conferma di Signorini può ben essere visto e interpretato come una ritorsione, visto anche che ad un certo punto, secondo le cronache non smentite della seduta del Consiglio dei Ministri, Di Maio ha parlato della necessità di lanciare un segnale al “sistema”. Che secondo i grillini lavorerebbe dalla mattina alla sera per boicottare il cambiamento sancito nel contratto di governo.

             Ed è proprio al cambiamento che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, cercando di assecondare il ragionamento e le finalità del suo vice a cinque stelle, quante ne portano anche i generali sulla divisa, si è richiamato per sostenere che su questa strada si debba procedere “per tentativi”. Uno dei quali può ben essere quello di cambiare Signorini nel cosiddetto direttorio della Banca d’Italia.

             All’idea di procedere per tentativi anche sulla strada della “rivoluzione”, che sempre più chiaramente perseguono i grillini, il sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, si è messo ancora una volta le mani nei capelli, come gli capita sempre più spesso di fare verbalizzando le sedute del governo, e ha detto che “così non arriviamo neppure a fine mese”.

              Non vi sono state reazioni formali e dirette, almeno sino ad ora, del governatore della Banca d’Italia al fuoco di Di Maio e al blocco della conferma di Signorini. Ma Eugenio Scalfari, che sulla soglia ormai dei 95 anni, da compiere in aprile, non ha perso la curiosità del suo mestiere, ha raccontatoScalfari.jpg sulla “sua” Repubblica – “sua” perché fondata da lui 43 anni fa- di un incontro e scambio di informazioni e di idee appena avuto appunto con Ignazio Visco, raccogliendone le preoccupazioni per “una recessione crescente e totale che ha effetti non soltanto economici ma politici”. Il virgolettato, a dire il vero, è di Scalfari, ma credo che non sia molto difforme dal pensiero e dalle parole del governatore della Banca d’Italia. Che -ha raccontato sempre Scalfari- “si sta destreggiando nel modo più acconcio” nell’esercizio delle sue funzioni.

              Di suo, e dopo avere riferito anche del blocco della conferma di Signorini a vice direttore dell’istituto di via Nazionale, il fondatore di Repubblica ha aggiunto che questo, tra un Salvini troppo putiniano e un Di Maio “populista senza alleanze”, se non con una parte dei gilet gialli francesi, “è un governo peggio del peggio, e purtroppo privo, almeno finora, di alternative ”.

            E’ forse un segnale, questo giudizio di Scalfari, anche a quei grillini tentati di brindare al cambio appena deciso al vertice di Repubblica, dove Mario Calabresi ha retto solo per tre anni, contro i venti ciascuno dei suoi due predecessori: lo stesso Scalfari ed Ezio Mauro.

 

 

 

 

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Ecco a voi il festival franco-italiano dello stupore, o degli stupiti

           In coincidenza con quello canoro in corso da martedì a Sanremo si è aperto, fra l’Eliseo manifesto 2.jpge il museo del Louvre nella felice immaginazione dei colleghi del manifesto, il festival dello stupore. O degli stupiti, se preferite, ma stando ben attenti, per carità, ad accentuare con la voce la penultima lettera: quella della t. Che non scappi -attenzione- una d perché non saprei a quel punto chi mandare in finale e a chi assegnare la vittoria.

          Il presidente francese Emmanuel Macron si è tanto stupito dell’incontro del vice presidente grillino del Consiglio dei Ministri italiano Luigi Di Maio, accompagnato dall’amico e compagno di partito Alessandro Di Battista,  col fabbro Cristophe Chalencon, diventato famoso per il gilet giallo che indossa nelle manifestazioni di protesta in patria, da ordinare il rientro a Parigi del suo ambasciatore in Italia. Che vi ha immediatamente provveduto, come fece il suo lontano predecessore nel 1940 per la guerra alla Francia decisa da Mussolini: un paragone che dev’essere apparso eccessivo anche al Ministero degli Esteri francese, che ha declassato il rientro ad un richiamo temporaneo per consultazioni. 

         Di Maio, dal canto suo, che di giallo ha tinto anche la carta del cosiddetto reddito di cittadinanza in Italia, si è stupito della reazione di Macron rivendicando il diritto di incontrare chi vuole e dove vuole, con o senza la scorta di Dibba, come viene chiamato dai suoi e da lui stesso l’amico reduce da un lungo viaggio in America del Sud e in procinto di farne un altro in India. Nel frattempo l’ex deputato a 5 stelle  si diverte in Italia ad agitare le acque già abbastanza mosse del governo.

          Anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è stupito, ma non si è capito se più del suo vice o della reazione di Macron, ribadendo col suo tono serafico che l’amicizia fra i due Paesi, almeno per quanto lo riguarda, rimane salda.

          Al presidente della Repubblica Sergio Mattarella è invece rimasta qualche preoccupazione, per cui -allarmato, oltre che stupito- ha reclamato il ripristino chiaro e visibile di buone relazioni fra i due paesi “amici e alleati”, anche se dannatamente concorrenti su tanti fronti di affari.

          Non oso chiedere se il capo dello Stato sia anche un po’ stupito della pazienza, prudenza e quant’altro abbia lui stesso praticato verso il governo gialloverde così faticosamente allestito IlFoglio.jpge nominato dopo le elezioni politiche dell’anno scorso. E che ha sulle spalle più di otto mesi, non solo i sei contati -credo a Parigi, dove ha una delle sue case- dal buon Giuliano Ferrara per farne un bilancio spietato con quel suo articolo e titolo in cui l’Italia sul Foglio è ridotta a “un paese di merda”.

          Stupito di tanto clamore, ma insolitamente disponibile a incontrare direttamente Macron, col quale ha  un certo contenzioso politico e persino personale ancora aperto, si è mostrato anche il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Che, in quanto a rapporti con le opposizioni francesi, sta messo meglio dell’omologo grillino Di Maio perché la sua sponda oltre le Alpi  è la signora della Destra Marine Le Pen. Che per fortuna non veste di giallo e non manda, o non ha ancora mandato, i suoi militanti e simpatizzanti a mettere a ferro e fuoco le città del suo paese per contrastarne il presidente.

          Sorpresa per sorpresa, anche se fino ad un certo punto perché preannunciata nel calendario della sua campagna elettorale in Abruzzo, dove domenica si voterà per il rinnovo dell’amministrazione abruzzesi.jpgo governo regionale, Salvini si è incontrato e si è fatto fotografare festosamente con Silvio Berlusconi. Sì, proprio il Cavaliere di Arcore, da cui qualche giorno fa Alessandro Di Battista -sempre lui- aveva auspicato che tornasse, anche a livello nazionale, per coronare i sogni di natura anche tangentara che l’esponente grillino attribuisce ai sostenitori della linea ferroviaria di alta velocità per le merci da Lione a Torino: la famosa e contestatissima Tav.

           Per adesso il traffico nel quale Berlusconi e Salvini sono impegnati -trasparente e gridato nelle piazze- è solo quello elettorale, dei voti in Abruzzo. Dove i grillini, come nelle elezioni politiche dell’anno scorso, corrono contro il centrodestra, ora a trazione leghista bella che certificata.  

 

 

 

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Di Maio sbeffeggiato per le feste seriali di liberazione dalla povertà

           Ci voleva Vauro Senesi con la sua matita, e ancor più meritoriamente sul giornale di maggiore ortodossia grillina che si stampi in Italia, naturalmente Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, per invitare praticamenteVauro 3pg.jpg il vice presidente del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro a smetterla. O a darsi una regolata nelle celebrazioni seriali che fa del cosiddetto reddito di cittadinanza. Per il quale si stanno predisponendo in tutta, e forse troppa fretta, gli adempimenti normativi, tecnici e burocratici per l’erogazione prima delle elezioni europee di maggio, e forse anche di qualcuna delle elezioni regionali in programma nella primavera di questo “bellissimo” 2019. Così lo ha definito o promesso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sfidando tutte le previsioni di segno opposto formulate dagli organismi preposti in sede nazionale e internazionale. Che -hanno garantito una volta tanto all’unisono esponenti grillini e leghisti di ogni livello- non ci hanno mai azzeccato nei loro calcoli e previsioni, per cui saremmo autorizzati questa volta a riderne, o a fare i dovuti scongiuri.

          Quello sconosciuto a gambe penzolanti  che attende con l’imbarazzo della vergogna di essere scoperto come un monumento sul palco allestito da Di Maio allo scopo di festeggiarne la liberazione dallo stato di povertà, e per il cui disagio da spettacolo viene minacciosamente redarguito dal potente capo del movimento grillino, rappresenta come meglio francamente non si poteva, e non si potrebbe, l’abuso che si sta facendo della propaganda.

            Vauro, del resto, non è la prima volta che interviene con giusto sarcasmo contro il modello di governo, chiamiamolo così, dei grillini. Fu felicissima anche quella vignetta suggeritagli dai primi preparativi Vauro 2.jpgdel reddito di cittadinanza durante l’elaborazione della legge di bilancio, se non ricordo male. Vi era rappresentato il bambino che chiedeva al padre se fossero ancora poveri e si sentiva rispondere: “Si, ma adesso ci pagano per esserlo”. E ciò a esclusivo vantaggio -si potrebbe aggiungere con gli ultimi aggiornamenti- delle migliaia di “navigator” in via di assunzione per assistere, indirizzare e quant’altro i destinatari di una carta gialla di soccorso tanto modesta per chi la riceverà quanto costosa per l’economia del paese. Che avrebbe avuto e avrebbe bisogno di ben altro per uscire dalla stagnazione in cui è appena entrata anche sul piano formale, o tecnico, come altri preferiscono dire.

 

 

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Mal di mare fra i grillini… in navigazione sulla Diciotti con Salvini

Cronaca poco gratificante, per chi l’ha ricevuta, di un’assemblea o riunione del gruppo grillino al Senato sul Fatto Quotidiano. Ai cui lettori Luca De Carolis ha riferito con onestà e precisione del diffuso scetticismo, a dir poco, sulla fondatezza giuridica e persino sull’opportunità  politica di una risposta positiva del Parlamento, raccomandata invece dal Fatto un giorno si e l’altro pure, alla richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di processare il titolare del Viminale Matteo Salvini per la vicenda del pattugliatore Diciotti, della Guardia Costiera italiana. Dove furono trattenuti per alcuni giorni in agosto 170 migranti soccorsi in mare dallo stesso pattugliatore ma in attesa, all’ancora nel porto di Catania, di una ripartizione fra più paesi reclamata dal governo. E alla fine ottenuta, per quanto poi vanificata quanto meno dagli ospiti allontanatisi dalle destinazioni loro assegnate dai vescovi italiani che li avevano presi in carico.

Fu notoriamente sequestro aggravato, abuso d’ufficio e altro ancora di penalmente rilevante per i tre giudici tratti a sorte del tribunale dei ministri etneo, difformemente dalla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura locale della Repubblica. Fu invece, per Salvini ma anche per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e per gli altri ministri grillini pronunciatisi sul tema, l’esecuzione di una linea di governo perseguita nell’”interesse pubblico”. Che è protetto dall’articolo 96 della Costituzione, e disposizioni attuative.

Ebbene, grazie anche alle valutazioni dei compagni di partito al governo, molti senatori grillini, avvocati e non, hanno riconosciuto che l’autorizzazione al processo sarebbe una “supercazzola”, potrebbe dire il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio ripetendo la definizione data ad una versione light della Tav auspicata in Val di Susa dal suo omologo leghista Salvini, sempre lui.

A convincere i grillini che hanno provocato con il loro orientamento verso il no “una netta spaccatura” nel gruppo non è valsa neppure la previsione, insistentemente formulata in questi giorni dal Fatto, di un esito positivo, a favore dell’imputato, del processo “curioso, singolare” e quant’altro chiesto dalla magistratura catanese evidentemente solo per una questione di principio. Essa consisterebbe nella necessità, o opportunità, quotidianamente segnalata sempre dal Fatto,  di  lasciare riconoscere l’esistenza di un superiore e pubblico interesse, nella condotta del ministro Salvini, da un tribunale della Repubblica, e non dal Parlamento, cui pure la Costituzione assegna una chiarissima e, direi, anche esclusiva competenza.

Scetticismo, se non decisa contrarietà, è emersa fra i senatori partecipi dell’assemblea anche l’ipotesi di esonerarli da ogni valutazione e decisione affidando direttamente la vicenda ai militanti del movimento, alle prese con i loro computer nella logica e nelle formalità della cosiddetta democrazia digitale.

Il titolista del Fatto al quale è toccata la cronaca della riunione dei senatori grillini se l’è presa, diciamo Il Fatto.jpgcosì, con i fatti, intesi anche come plurale della testata, scomunicando in prima pagina “mezzo M5S” perché “parla come B.”, cioè come Silvio Berlusconi. In verità, nella cronaca questo concetto non si trova, ma qualcuno ha provveduto a mettervelo sopra come un cappello.

Se è per questo, se cioè gli argomenti valgono per chi li sostiene più notoriamente, mi permetto di segnalare al titolista del Fatto ciò che ha dichiarato ad Annalisa Chirico, per un’intervista al Foglio pubblicata lunedì scorso,  l’insospettabile -credo- Antonio Di Pietro. Che per i suoi trascorsi professionali può ben essere considerato un’autorità nella materia trattata nella riunione dei senatori a cinque stelle.

“Il tribunale dei ministri di Catania- ha spiegato l’ex magistrato simbolo di Mani pulite- ha chiamato il Parlamento a una sacrosanta assunzione di responsabilità. I senatori devono stabilire se quella decisione di Salvini fu atto politico o per fini politici. A me pare evidente che il caso rientri nella prima fattispecie. Il M5S deve votare non in base a una regoletta generale per cui bisogna dire sempre sì a ogni richiesta dei giudici, ma deve esprimersi sulla vicenda specifica, possibilmente dopo aver letto le 52 pagine dell’atto, ammesso che i senatori sappiano leggere e comprendano ciò che leggono”. “Salvini non va processato”, ha detto papale papale Di Pietro senza avventurarsi, per fortuna, in congiuntivi o altro.

Richiesto di una previsione su come finirà il tormento in corso fra i grillini, “Tonino” ha forse  deluso le aspettative dell’intervistatrice, vista la posizione favorevole al processo curiosamente assunta dal Foglio, dove prevale evidentemente in questa vicenda, sul garantismo abituale di Giuliano Ferrara, la voglia matta di vedere Salvini nei guai.

“Alla fine  voteranno contro l’autorizzazione a procedere”, ha preconizzato Di Pietro parlando sempre dei grillini, ma dando del loro felice approdo una infelice, anzi spietata spiegazione, DiPietro e Grillo.jpgdavvero a sorpresa rispetto all’interesse da lui mostrato sino a qualche mese fa per la “novità”, il cambiamento e quant’altro attribuito al loro movimento. “Questi -ha detto l’ex magistrato, ex ministro, ex senatore ed ora felicemente e finalmente avvocato- ingoiano qualunque cosa…Perseguono un unico scopo: restare incollati alla poltrona. Quando gli ricapita? Se perdono il seggio, dai banchi del Parlamento -ha detto ancora Tonino- passano a vendere gelati al banco di fronte a Montecitorio”, o a Palazzo Madama.

Compagnia per compagnia, i grillini contrari al processo a Salvini si trovano scomodamente insieme con Berlusconi e con Di Pietro, quelli favorevoli altrettanto scomodamente con Giuliano Ferrara e con l’ex segretario del Pd Matteo Renzi. Che ha spavaldamente annunciato di voler leggere ben bene le carte per poter votare dal suo banco nel Senato a favore dell’autorizzazione. Incredibile, almeno per me, ma vero.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

E’ proprio vero che non si può stare in Paradiso a dispetto dei santi…

           Tra editoria e politica quella appena trascorsa è stata un po’ una giornata da giudizio relativamente universale. Si sono avuti tre casi assai diversi di licenziamento, o commiato, accomunati dalla conferma di un vecchio adagio popolare secondo il quale non si può stare in paradiso a dispetto dei santi.

          I casi sono quelli, in ordine rigorosamente alfabetico, per non fare torto a nessuno, del giovane Mario Calabresi, allontanato dalla direzione di Repubblica dopo soli tre anni, e due direzioni durate vent’anni l’una; del meno giovane ma pur sempre giovane Raffaele Cantone, convinto con le buone o con le cattive, secondo i gusti, a prenotare il ritorno al servizio giudiziario lasciando la guida dell’Autorità anticorruzione; dell’anziano ma sempre in forma Paolo Savona, spinto alla presidenza della Consob o rimosso, come preferite, dal governo dove avrebbe dovuto entrare come superministro  dell’Economia, ma venne dirottato al Ministero senza portafogli, come si dice in gergo tecnico, degli affari europei.

          Della rimozione di Calabresi, 48 anni, dalla direzione del giornale e della nomina di Carlo Verdelli a Mario Calabresi.jpgsuccessore, annunciate peraltro ai lettori delle copie cartacee all’interno, senza l’evidenza della prima pagina che di solito si assegna a questo tipo di notizie, si è cercato di attribuire la causa alla crisi della Repubblica di carta nelle edicole. Che invece l’ormai ex direttore, quasi per difendersene, si è vantato di avere ridotto dal 14 per cento delle perdite evidentemente ereditato al 7 per cento.

          In realtà, peraltro nel contesto di una caduta generalizzata dei giornali, e nel caso di Repubblica nel contesto anche di uno sfaldamento, sbandamento e quant’altro del suo pubblico originario per i mutamenti intervenuti nel tradizionale elettorato di sinistra, o centrosinistra, Calabresi si portava addosso da un po’ di tempo la diffidenza o la delusione pubblicamente espressa, o non smentita, dell’ex ma pur sempre influente presidente della società editrice Carlo De Benedetti, padre del presidente attuale.

           Non credo, francamente, di essere troppo malizioso e temerario a sospettare che un grande peso in questa delusione, a dir poco, ha avuto a suo tempo una certa freddezza o distanza mostrata dal Carlo De Benedetti.jpggiornale diretto da Calabresi quando scoppiarono le polemiche sui 600 milioni di euro di profitto realizzato in poco tempo dall’editore di Repubblica ordinando al suo operatore di borsa Gianluca Bolengo di investire 5 milioni nelle banche popolari che stavano per essere riformate con un decreto legge dal governo di Matteo Renzi. Dei tempi ormai vicinissimi di quella riforma, appunto, De Benedetti aveva appreso dallo stesso presidente del Consiglio al termine di una colazione, di primo mattino, a Palazzo Chigi.

           La vicenda procurò una istruttoria della Consob e poi un’inchiesta giudiziaria tuttora aperta, riguardante formalmente solo l’operatore finanziario Bolengo e contrassegnata da almeno due richieste di archiviazione avanzate dalla Procura della Repubblica di Roma, ma confutate dal giudice delle indagini preliminari Gaspare Sturzo. 

          Vi pare -ha sempre e praticamente chiesto De Benedetti a critici e avversari- che se avessi voluto davvero fare una speculazione sulle presunte anticipazioni ottenute dall’allora amico e presidente del Consiglio, mi sarei limitato a ordinare un investimento nelle banche popolari nell’ordine di soli 5 milioni di euro, contro i 50 milioni abituali di questo tipo di miei interventi in Borsa? La Procura di Roma, che lo ascoltò nelle indagini, gli ha creduto. Gli avversari no. E a costoro forse De Benedetti si aspettava che il “suo” giornale rispondesse per le rime, e non col distacco imbarazzato che gli deve essere forse apparso quello di chi lo dirigeva.

           Passiamo al magistrato Raffaele Cantone, 56 anni, fortemente sostenuto nel 2014 da Renzi al vertice dell’Autorità Cantone.jpganticorruzione e altrettanto fortemente valorizzato nella sua attività da giornali e giornalisti di ogni tendenza, salvo pochi mugugni, sino a quando non è arrivato nello scorso anno il governo gialloverde del cosiddetto cambiamento. Dove qualcuno non ha gradito, senza neppure nasconderlo, il lavoro o forse ancor di più il metodo di lavoro di Cantone, dai cui uffici sono passate pratiche di appalti e di nomine di ogni tipo, nazionale o locale.  Egli si è sentito e dichiarato ad un certo punto  “sopportato”, più che supportato, cioè stimato e sostenuto. E, magari precedendo qualche intervento di quelli che non sono certo mancati a Palazzo Chigi e dintorni in materia di cosiddetto spoils system, ha colto l’occasione offertagli dalla gara in Consiglio Superiore della Magistratura per la copertura di Procure della Repubblica vacanti per parteciparvi. E tornare così al suo antico e generalmente apprezzato mestiere, anche  ha precisato di prevedere tempi lunghi per la sua pratica al Csm, per cui rimarrà dov’e ancora per un bel po’.         

              Eccoci infine a Paolo Savona, 82 anni,  di cui ho già scritto molto accennando al dirottamento dal superministero dell’Economia, esplicitamente negatogli dal presidente della Repubblica, al ministero senza portafogli -ripeto- degli affari europei. Ebbene, lasciatemi aggiungere solo questa osservazione. Il professore, già ministro di Carlo Azeglio Ciampi e tante altre cose, a contatto Paolo Savona.jpgquotidiano nel governo gialloverde con i suoi colleghi, considerando l’esperienza e la competenza economica e finanziaria che egli ha, deve averne viste e sentite tante, e tanto inutilmente cercato di correggere o evitare cose contrarie alle sue abitudini e visioni, che non gli è parso vero evitare gesti clamorosi di rottura saltando sul convoglio della presidenza della Consob offertogli dal presidente del Consiglio, forse anche dal capo dello Stato o comunque dalle circostanze. E ha preferito, alla sua età, saltarvi sopra con spirito giovanile, anche a costo di sentirsi dire e contestare tutte le presunte o vere ragioni di “incompatibilità” contestategli prevalentemente dal Pd, e sotto sotto condivise forse anche da qualche grillino. Sarà probabilmente una via crucis fuori stagione quella che aspetta Savona nelle procedure parlamentari e burocratiche della nomina.

Piovono tegole dall’Europa sull’Italia per la Tav e le coperture a Maduro

          Mentre a Roma Giuseppe Conte e Luigi Di Maio presentavano festosamente il primo esemplare della carta di credito stampata dalle Poste per il cosiddetto e imminente reddito di cittadinanza, e Matteo Salvini Card Di Maio.jpgannunciava con giubilo la presentazione delle prime ventimila domande all’Inps per l’accesso anticipato alla pensione da parte di chi ha maturato 62 anni di età e 38 di contributi, dall’Europa sono piovute altre tegole sull’Italia.

         La lite farcita di parolacce fra grillini e leghisti sulla realizzazione della “supercazzola”, come la chiama Di Maio, della linea ferroviaria ad alta velocità Lione-Torino per il trasporto delle merci, la famosa Tav sostenuta e appena visitata in cantiere da Salvini con casco e tuta d’ordinanza, è stata bruscamente interrotta dall’annuncio della Commissione di Bruxelles che rinunce e ritardi potrebbero costare a breve al governo italiano la restituzione di un miliardo e duecento milioni di euro di contributi dell’Unione Europea, da noi già incassati. Emilio Giannelli ha giustamente immaginato e rappresentato sul Corriere della Sera la turbo-fuga del ministro pentastellato delle Infrastrutture Danilo Toninelli. Che sta giocando ormai da troppo tempo con i numeri segreti del rapporto fra costi e benefici dell’opera, a sollecitare la quale si è liquidati come “rompicoglioni” dall’ineffabile Alessandro Di Battista. Che dalla panchina di ex deputato partecipa a suo modo alla partita della squadra grillina di governo senza che nessuno, ma proprio nessuno, dall’arbitro ai giocatori in campo con la maglia delle cinque stelle, si senta a disagio e tanto meno protesti.

           Sempre dall’Europa è venuta all’Italia, sul fronte questa volta della politica estera, che pure è uno degli anelli deboli dell’Unione, dove di solito si è più solisti che coro, una cocente lezione di realismo e anche di dignità di fronte al caos crescente in Venezuela. Dove peraltro risiedono non 130 mila, come si è spesso scritto in questi giorni, ma forse più di 150 mila italiani, al netto di quelli che sono già scappati per la miseria e la violenza garantite dal dittatoreMaduro.jpg Nicola Maduro: l’erede di Chavez di cui Alessandro Di Battista, sempre lui, è riuscito ad imporre la venerazione nel suo movimento. Ben 19 Paesi dell’Unione Europea hanno definitivamente scaricato Maduro e riconosciuto il presidente ad interim del Venezuela Juan Gaidò, che alla scadenza del mandato del rivale, confermato l’anno scorso con elezioni dalla irregolarità persino sfacciata, si è proposto di restituire la parola ai cittadini. Che invece Maduro vorrebbe rimandare alle urne, con i suoi metodi, per eleggere un  nuovo Parlamento, visto che quello in carica è presieduto proprio da Gaidò, legittimato dalla Costituzione venezuelana a prendere provvisoriamente il posto del presidente scaduto della Repubblica.

            La posizione apparentemente agnostica ma sostanzialmente filo-Maduro imposta all’Italia dai grillini, fra le proteste anche degli alleati di governo, è diventata ormai talmente  insostenibile che ha dovuto intervenire il capo dello Stato per invitare il governo a scegliere finalmente “fra democrazia e violenza”.

             Si speraSalvini.jpg a questo punto che non rimedi pure Sergio Mattarella il “rompicoglioni” già riservato da Di Battista a Salvini per la Tav. Ormai il repertorio dei grillini è o è tornato ad essere questo, se è mai davvero cambiato da quando sono passati dall’opposizione al governo.

Più che al Senato per la Diciotti, Salvini rischia alla Consulta per la sicurezza

Non è per niente detto che il fronte più rischioso su cui sta combattendo Matteo Salvini sia quello del processo che gli vorrebbero fare a Catania per sequestro aggravato di persona, abuso d’ufficio e altro. E neppure dopo che il presidente della Camera Roberto Fico, volente o nolente, ha cercato di sgambettarlo politicamente intervenendo contro di lui nel dibattito in corso fra i grillini, al Senato, su come rispondere all’azione promossa dal cosiddetto tribunale etneo dei ministri, in difformità dall’archiviazione richiesta dalla Procura della Repubblica, per la vicenda del pattugliatore della Guardia Costiera italiana Diciotti. Dove il ministro leghista dell’Interno fece trattenere  per quattro o cinque giorni in agosto più di 170 immigrati, doverosamente soccorsi in mare, per trattare a terra la loro ripartizione fra più paesi europei e i vescovi italiani. Che furono poi poco solerti a trattenere gli ospiti nelle destinazioni assegnate loro vicino Roma.

Voglio proprio vedere, quando verrà il momento nell’aula del Senato, tutti i grillini votare contro Salvini, e le garanzie costituzionali che gli spettano nell’azione di governo per il perseguimento di un interesse superiore, peraltro riconosciutogli in prima persona, e pubblicamente, dal presidente del Consiglio.

Sono altrettanto curioso di vedere votare contro Salvini tutti i senatori del Pd, per quanto spronati in questa direzione assai strumentale anche dall’ex segretario del partito Matteo Renzi, disinvoltamente dimentico delle rivendicazioni del “primato della politica” quando era lui alla guida del governo.

Posso sbagliare, per carità, ma più facile di un sì al processo è  la maggioranza assoluta del no, nell’aula di Palazzo Madama, grazie al concorso determinante dei forzisti di Silvio Berlusconi. E per i grillini, se ufficialmente schierati per il sì ma incapaci per questo di provocare una crisi, sarebbe uno schiaffo politico clamoroso. Non parlo dei piddini perché aspetto, col buon Emanuele Macaluso, che si decidano a diventare un partito, almeno dopo che avranno tentato di regolare i conti fra di loro con l’elezione del nuovo segretario.

Non credo particolarmente rischioso per Salvini neppure il fronte della Tav, o della versione maschile preferita da Marco Travaglio, per quanto il leader leghista si sia guadagnato del “rompicoglioni” da Alessandro Di Battista per l’insistenza con la quale sostiene la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità per le merci da Torino a Lione. Da Luigi Di Maio invece Salvini si è sentito dare del supercazzolaro – da autore di una “supercazzola”- per avere proposto una versione almeno light del progetto tanto inviso ai grillini. Che pur di combatterlo meglio ne hanno moltiplicato a tavolino i costi per l’Italia, facendoli salire a 20 miliardi di euro dai 6 e anche meno cui furono ridotti già nella versione rivisitata dal governo precedente, con Graziano Delrio al Ministero delle Infrastrutture.

Decisamente rischioso, o più rischioso, per Salvini è invece il fronte della Corte Costituzionale, dove è materialmente approdata la contestazione della legge su sicurezza e immigrazione al sessantesimo giorno dalla pubblicazione della legge di conversione del decreto di urgenza emanato il 4 ottobre scorso, in curiosa coincidenza con la festa del patrono d’Italia, San Francesco d’Assisi.

A mio modesto avviso, Salvini prese sottogamba nelle settimane scorse la rivolta degli amministratori locali capeggiati dal  sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Che peraltro ha appena ripreso la sua offensiva politica facendo iscrivere in questi giorni all’anagrafe del suo Comune gli immigrati col permesso umanitario scaduto o in via di scadenza.

Appresso ai sindaci, ritenendo le nuove norme su sicurezza e immigrazione lesive delle autonomie e competenze locali indicate dalla Costituzione, si sono mossi anche i governatori -e relative giunte, con tanto di deliberazioni- di ben otto regioni: dal Piemonte all’Emilia-Romagna, dalle Marche all’Umbria, dalla Toscana alla Sardegna, dalla Basilicata alla Calabria.

Diversamente dai primi cittadini, che in ogni caso, essendo eletti direttamente, hanno una rappresentatività politica maggiore di quella di un governo maturato non nelle urne, come ai tempi pur impropri della legge prevalentemente maggioritaria adottata nel 1993, ma in Parlamento dopo le elezioni, e composto da partiti contrappostisi in campagna elettorale; diversamente dai sindaci, dicevo, le regioni e i loro governatori, anch’essi di elezione diretta, hanno accesso diretto alla Corte Costituzionale. Dove sono appunto approdati i nodi della legge nella quale si è avvolto come in una bandiera il ministro  dell’Interno: una legge che il presidente della Repubblica firmò a dicembre, dopo la conversione parlamentare, così poco convintamente da scrivere al presidente del Consiglio una lettera per raccomandarne in pratica un’applicazione avveduta, conforme al rispetto dei principi costituzionali.

Più stringente sarà o dovrà essere a questo punto, visti i problemi sorti sul piano locale, il giudizio della Corte Costituzionale. Il cui presidente Giorgio Lattanzi in una intervista a Repubblica di non più tardi del 31 gennaio scorso ha ricordato, fra l’altro, che “al centro della Costituzione c’è la persona con la sua dignità”, e “senza distinzioni di colore della pelle, di etnia, di religione”. Ciò vale -ha insistito Lattanzi- “per tutte le persone che si trovano in Italia, cittadini o stranieri che siano”, anche quelli che Salvini un po’ troppo frettolosamente aveva promesso di rispedire a centinaia di migliaia entro l’anno, o quasi, nei paesi di provenienza.

Poi Schermata 2019-02-01 alle 06.13.37.jpgil ministro dell’Interno, e vice presidente del Consiglio, ha scoperto al Viminale, indossando felpe della Polizia e lasciandosi spiegare dai prefetti leggi, trattati, regolamenti e quant’altro, che le cose non stanno proprio come lui aveva immaginato. Esse sono più complicate, stanno purtroppo in modo tale che solo qualche giorno fa, proprio per le condizioni in cui si è venuto a trovare con l’applicazione delle nuove norme, il nigeriano venticinquenne Jerry Prince si è ucciso gettandosi sotto un treno a Genova.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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