Pur di cultura e ispirazione dichiaratamente morotee, non foss’altro per onorare le comuni origini pugliesi con lo statista italiano ucciso 40 anni fa dalle brigate rosse, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha mostrato una scaltrezza di stampo un po’ andreottiano nella trattativa con la Commissione Europea per scampare alla procedura d’infrazione rischiata col deficit al 2,4 per cento del prodotto interno lordo: quello festeggiato con imprudente spavalderia sul balcone di Palazzo Chigi dal vice presidente grillino dello stesso Consiglio, Luigi Di Maio. Seguirono feste pentastellate, quella sera di settembre, anche sui barconi lungo il Tevere per la cosiddetta “manovra del popolo”.
Evoco il compianto Giulio Andreotti in questa complessa vicenda politica ricordando una vignetta che gli dedicò Giorgio Forattini negli anni d’oro del suo potere. E che il leader democristiano, contraccambiando l’ironia, esibì in un incontro pubblico per tradurre in una schienadritta -tutta
una parola- la sua famosissima, inconfondibile gobba. Che una leggenda attribuiva a un danno procuratosi dall’ancora giovanissimo sottosegretario di Alcide De Gasperi infilandosi con troppa forza, o paura, sotto un banco parlamentare, al Senato, durante i tumulti provocati dai comunisti contro la legge elettorale passata alla storia come “truffa”. Tale fu considerato un premio di maggioranza -pensate un po’- a favore di chi avesse raccolto nelle urne un voto in più del cinquanta per cento. Avrebbe dovuto beneficiarne nelle elezioni del 1953 la coalizione centrista, ma il premio non scattò per qualche decina di migliaia di voti. E il presidente democristiano del Consiglio De Gasperi, per evitare ulteriori tensioni politiche, si oppose ad una verifica in un vasto campione di seggi propostagli dal ministro dell’Interno e collega di partito Mario Scelba, straconvinto che fossero stati i brogli a determinare il fallimento della nuova legge.
La “schienadritta” di Conte è quella che, trattenendosi a stento dal lamentarsene in pubblico, debbono avere avvertito i suoi due vice di fronte allo sconto sul deficit offerto dal capo del governo italiano al presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker: dal 2,4 della festa di Di Maio al 2,04, pari a qualcosa fra i 7 e gli 8 miliardi di euro. Che si tradurranno in tagli e diluizioni ai trofei, formalmente salvati, del cosiddetto reddito di cittadinanza e della quota 100 per l’accesso alla pensione, sommando l’età agli anni di contributi versati. La verità sulla consistenza delle rinunce verrà fuori quando si appronteranno i provvedimenti di attuazione delle due misure, che sono state le bandiere della campagna elettorale, rispettivamente, dei grillini e dei leghisti.
A favorire, visto l’ottimismo avvertito a Bruxelles, il negoziato di Conte -condotto con una delega, o “procura”, come ha preferito chiamarla l’interessato, concessagli nei giorni scorsi con un comunicato congiunto dei suoi due vice- ha sicuramente contribuito l’evoluzione imprevista della situazione sociale e politica in Francia. Dove il presidente della Repubblica Emmanuel Macron di fronte alle proteste durissime dei cosiddetti giubbotti gialli ha dovuto allargare la borsa prenotando uno sforamento dei limiti e delle regole comunitarie tale da non giustificare la severità inizialmente chiesta all’Italia con la bocciatura del suo 2,4 di deficit rispetto al prodotto interno lordo.
Così, pur essendo il debito pubblico dei due Paesi molto
diverso a vantaggio della Francia, quello zero premesso al 4 per fare scendere il deficit italiano quasi al 2, pur sempre superiore all’1,6 o all’1,9 per cento del pil originariamente chiesto al ministro dell’Economia Giovanni Tria, dev’essere apparso a Juncker un salvagente utile a Conte e al suo governo, ma in fondo anche alla Commissione Europea. Mai uno zero, anche a costo di scatenare adesso i vignettisti, è stato sinora più fortunato in Italia per un presidente del Consiglio e per la sua compagine ministeriale, a dir poco, inquieta e problematica.
di immigrati che potrebbero arrivare in Italia da quelle parti, ma del conflitto palestinese. E lo ha fatto, anche a costo di provocare le proteste dei suoi alleati di governo, a cominciare dalla ministra grillina della Difesa Elisabetta Trenta, per avere pubblicamente dato dei “terroristi” ai miliziani di Hezbollah. Che scavano gallerie sotto i confini israeliani anche per trasportare gli esplosivi necessari in superficie a bombardare il territorio del nemico.
incantare dal tavolo di Di Maio più lungo di quello di Salvini, che Travaglio chiama abitualmente “cazzaro verde”. Egli ha rimproverato al vice presidente pentastellato del Consiglio e amici al governo, con tanto di titolo in prima pagina, l’ingenuità, la dabbenaggine, l’imprudenza, insomma l’errore di avere “abboccato” con dichiarazioni di interesse o di apertura all’”esca avvelenata” del referendum prospettato da Salvini per sbloccare le decisioni sulla realizzazzione o sulla rinuncia alla linea di alta velocità ferroviaria per le merci sul percorso Lione-Torino: la famosa Tav.
movimento di cui lui è il garante, l’elevato e quant’altro, sulla convivenza difficile con i leghisti, sulla trattativa con l’Europa per evitare la procedura d’infrazione per debito eccessivo e, più in generale, sulle prospettive politiche, Grillo lo aveva già gridato a modo suo ad un giovanotto che all’appuntamento libraio nella Nuvola di Massimiliano Fuksas gli aveva rimproverato di non essere in quel momento a Torino. Dove si manifestava contro la Tav e le “madonnine” che ne avevano invece sostenuto il mese scorso nella stessa piazza la realizzazione, insieme con altre infrastrutture invise ai grillini.
tornato perciò ad essere per qualche ora la sede della Presidenza del Consiglio, come ai tempi di Alcide Gasperi e di Mario Scelba, sentivano tutt’altra musica. Essi raccoglievano cioè l’impressione che Salvini fosse rimasto, col suo partito, favorevole
alla realizzazione della linea di traffico commerciale veloce sulle rotaie fra Lione e Torino. E che avrebbe fatto valere questa convinzione nel governo, insieme con altre questioni sollevate dai suoi ospiti.
Comunque il popolo, almeno quello raccoltosi nell’omonima piazza romana, che ha tuttavia preso il nome dalla Madonna cui è dedicata la Chiesa maggiore che vi si affaccia, oltre che dal boschetto di pioppi attribuito alla vecchia tomba di Nerone, pare abbia gradito l’invadenza e l’esuberanza politiche di Salvini. Non resta che vederne gli effetti.
procedura europea d’infrazione, i giornali hanno diviso l’attenzione delle loro prime pagine fra la lunga ovazione a Sergio Mattarella, presente all’inaugurazione della nuova stagione operistica al teatro milanese della Scala, e il ritratto impietoso che ha fatto dell’Italia l’ormai storico Censis di Giuseppe De Rita.
fuori e dentro il teatro La Scala- rimane. E’ come se si contrapponessero il Paese reale e quello legale: una contrapposizione non nuova, in verità, da quando la politica ha cominciato a perdere colpi, molti anni fa, e si è cominciato a sondare le ragioni per le quali il Parlamento, per esempio, già quello dei partiti forti e consolidati, com’erano la Dc, il Pci e il Psi, sembrava distinto e distante dagli elettori che pure lo eleggevano.
commesso pure lui, al ministro dell’Economia Giovanni Tria. Che, già ridimensionato politicamente e tecnicamente dalla procura a trattare con l’Europa affidata dai leader grillino e leghista a Conte, ora non ha più accesso sicuro a vertici, riunioni e quant’altro di governo. E, stando a retroscena giornalistici non smentiti fino a questo momento, sfoga la sua delusione, per non dire altro, mandando messaggini telefonici all’amico Renato Brunetta, che però a Montecitorio è tra i più agguerriti oppositori sui banchi di Forza Italia: più agguerrito persino di Renzi al Senato, con una concorrenza che forse serve anche a limitare la capacità di attrazione sui forzisti che a torto o a ragione viene attribuita, in caso di una sua uscita dal Pd, all’ex presidente del Consiglio.
sulla manovra finanziaria varata sfidando mezzo mondo, ma ora in via di progressivo e confuso ridimensionamento per cercare di evitare la costosa procedura europea d’infrazione. Che il presidente del Consiglio in persona aveva preso sotto gamba, dicendo di potervi “convivere”, prima di scoprirne la insostenibilità col sopraggiungere di un processo di recessione economica. E dell’allarme scattato in tutte le componenti produttive del Paese.