Il governo gialloverde fra cambio di passo e perdurante confusione

            Il cambiamento è già nel nome del governo gialloverde, per cui non dovrebbe stupire se esso lo subisse anziché promuoverlo quando glielo consigliano le ragioni della sua stessa sopravvivenza.

            Arrivato sulla soglia di una rottura autunnale tra sfide all’Unione Europea e ai mercati finanziari, sino a far salire a quota quasi 300 il differenziale fra i titoli di Stato italiani e tedeschi, col conseguente aumento del costo del debito pubblico, il governo ha dovuto darsi una regolata, almeno con le parole. Dalle sfide è passato alle assicurazioni che i conti saranno tenuti a bada nel cantiere della legge di bilancio. E se sforeranno rispetto ai parametri europei sarà di poco, comunque con tutte le necessarie autorizzazioni comunitarie. Se fosse vivo Marco Biagi, ripeterebbe la favoletta della ragazza che dice alla mamma di essere incinta, ma di poco.

            Si è calmato persino il vice presidente grillino del Consiglio e superministro dell’Economia e del Lavoro Luigi Di Maio nel gioco del gatto col topo praticato per tre mesi con gli indiani per la sopravvivenza dell’Ilva, per cui si è arrivati ad un accordo che gli ha rimediato gli elogi persino del predecessore Carlo Calenda. Il quale, in particolare, gli ha riconosciuto il merito, forse non molto apprezzato dal capo del Movimento delle 5 stelle, di avere “saputo cambiare idea”.

            Che il gioco di Di Maio con gli indiani dell’Ilva, in una partita riguardante un settore vitale come la siderurgia e ventimila posti di lavoro, fra diretto e indotto, non sia stato fra i migliori è scappato di dirlo anche al Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio ha  appena scritto, testualmente, che gli indiani sono stati “ricattati da Di Maio con la minaccia di revocare la gara” di assegnazione, per cui  essi “hanno dovuto cedere su tutta la linea, firmando un accordo migliore di quello avallato da Calenda”. Il termine “ricatto” non perde il suo valore negativo nell’uso politico e giornalistico. E di solito certe cose ottenute con simili mezzi possono trasformarsi in ordigni esplosivi al primo intoppo.

            Un cambio di passo, quanto meno di passo, si può registrare anche nella pur risentita reazione del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini alla decisione del tribunale di sorveglianza di Genova di procedere sulla strada dei sequestri dei conti e dei beni del suo partito. Qualcuno, per esempio su Repubblica, l’ha definito “eversiva”, ma la fiducia espressa da Salvini sugli elettori leghisti di fronte alle obiettive difficoltà che il suo partito sta incontrando sul piano giudiziario per gli errori, reati e quant’altro abbiano compiuto gli ex conduttori e amministratori del Carroccio, mi sembra il minimo sindacale. Non dimentichiamo, peraltro, che tutto nasce praticamente da una condanna penale rimediata da Umberto Bossi solo in primo grado.

            Anche sull’altra vicenda giudiziaria di Salvini, a rischio di processo con la procedura del cosiddetto tribunale dei ministri per la vicenda degli immigrati soccorsi in alto mare e trattenuti per alcuni giorni su una nave della Guardia Costiera nel porto di Catania, in attesa di un’articolata distribuzione tra Stati ed altre entità disposti ad accoglierli, più passano i giorni e più salgono le ragioni del ministro. Si è appena svolto sulla questione nel Consiglio Superiore della Magistratura uscente un dibattito nel quale è venuta meno la originaria compattezza delle correnti a difesa dell’iniziativa assunta dalla Procura di Agrigento. Il consigliere togato Claudio Galoppi, di Magistratura Indipendente, ha avuto da eccepire sulla vicenda giudiziaria parlando di “interferenze in attività di governo o amministrative in corso”.

            I cambiamenti di passo avvertiti nella conduzione degli affari di governo negli ultimi giorni non hanno comunque dissipato una certa confusione. Che è dimostrata, per esempio, dalle giravolte sulla obbligatorietà “flessibile” dei vaccini o dall’assenza non certo casuale di Salvini dal Consiglio dei Ministri che ha varato un disegno di legge anticorruzione molto reclamizzato dai grillini, nel quale il ministro dell’Interno ha avvertito pubblicamente il rischio di compromettere il principio  della presunzione non di colpevolezza, come scappò di dire una volta persino al presidente del Consiglio e avvocato Giuseppe Conte, ma di “non colpevolezza”, cioè di innocenza dell’imputato “sino a condanna definitiva”, come dice l’articolo 27 della Costituzione.

            Il massimo che si sappia di questo provvedimento è il testo uscito dal Consiglio dei Ministri, non appena sarà uscito davvero perché di solito ci sono sempre sorprese fra l’annuncio e il deposito effettivo. Ma come sarà quello approvato dal Parlamento si potrà vedere solo in seguito.

 

 

 

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La tentazione di Robespierre fra i riccioli di Toninelli e i capelli a spazzola di Di Maio

Lo scontro, pur diretto, è stato a bassa tensione, senza i rinforzi del comitato di redazione, soliti in queste circostanze, e con un solo, breve corsivo del direttore Mario Calabresi, sotto la cronaca ancor più breve, a pagina 4 di Repubblica, della partecipazione del ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli alla trasmissione de La 7 “In onda”. Che ha sostituito in questa stagione estiva lo spazio di Lilli Gruber.

Nel riproporre la sua posizione fortemente critica verso la società che gestisce le autostrade italiane comprensive del viadotto Morandi, crollato a Genova il 14 agosto provocando 43 morti, e nel ribadire i propositi di nazionalizzazione del settore, appena rilanciati del resto dal vice presidente del Consiglio e collega di partito Luigi Di Maio, il ministro ha espresso “dubbi” sulla “linea editoriale di Repubblica”. Che è sostanzialmente critica verso l’ipotesi della nazionalizzazione, cui sembra peraltro finalizzato un decreto legge in cantiere fra Palazzo Chigi e il Ministero delle Infrastrutture.

In particolare, incalzato da Luca Telese, che ha reso ancora più chiara, con tanto di nome e cognome, la principale allusione dell’ospite contro Repubblica, Toninelli ha sottolineato la contemporanea presenza di Monica Mondardini nei consigli di amministrazione di Atlantia, cui fa riferimento la società Autostrade della famiglia Benetton, e del gruppo editoriale di Repubblica, di cui sino a poco tempo fa era anche amministratrice delegata, ricoprendo ora solo la carica di vice presidente.

“Chi ci ha letto in queste settimane -gli ha risposto il direttore Calabresi- ha ben chiaro con quale incisività abbiamo scavato nelle responsabilità della tragedia di Genova, denunciando e indagando con scrupolo e rigore, mostrando che non esistono condizionamenti esterni. Monica Mondardini non ha mai interferito nel lavoro dei giornalisti. Il ministro Toninelli dovrebbe imparare ad accettare le critiche che gli vengono mosse, nel nostro caso mosse da una sua oggettiva incapacità e inconcludenza, e smettere di alimentare sospetti infondati. Piuttosto chiarisca la natura di quei suoi “dubbi”. In una vicenda come quella di Genova, che necessita della massima trasparenza, la cosa peggiore che possa fare un rappresentante delle istituzioni è inquinare il dibattito con allusioni e insinuazioni”.

Già nelle ore immediatamente successive alla tragedia genovese, quando ancora si scavava fra le macerie per estrarre morti e feriti, il vice presidente del Consiglio Di Maio ripropose il vecchio e per niente inventato tema, per carità, della stampa italiana sprovvista di editori “puri”, impegnati cioè a fare soldi e a rimetterne solo con i giornali. E quanto meno tentati, perciò, di usarli per altri e più decisivi affari, in una “mangiatoia” infinita, per ripetere un’immagine usata da Toninelli a proposito delle autostrade,

Quella tempestività di Di Maio si prestò al sospetto, magari arbitrario, che si volesse cavalcare a rovescio la tragedia genovese, cioè che si volesse usare la tragedia del crollo del ponte per regolare altri conti, visto l’atteggiamento critico già allora di Repubblica verso il governo gialloverde. I  cui primi “cento giorni” sono stati ieri liquidati  in un titolo di prima pagina del giornale fondato da Eugenio Scalfari come “di soli annunci”, con “quasi nessuna promessa rispettata”.

Francamente, da giornalista che ha lavorato in giornali sia privati che pubblici ho sempre un po’ diffidato delle discussioni astratte sugli editori puri  e impuri, concludendo che anche in quelli pubblici, come in quelli posseduti da privati senz’altri interessi, il professionista serio deve sempre preoccuparsi di difendere la propria autonomia. E non lasciarsi mai condizionare da pregiudizi, che possono anche essere personali, come quelli opportunamente lamentati di recente da Piero Sansonetti a proposito della tragedia del Vajont del 1963, ben più grave di quella di Genova di quest’anno.

Allora persino un mostro sacro del giornalismo italiano come Indro Montanelli si lasciò condizionare, come onestamente ammise molto dopo, dall’ostilità alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, per cui per le società private che la producevano e gestivano  scattò un sentimento di difesa, e di sottovalutazione delle loro responsabilità.  La diga del Vajont e le migliaia di morti che ne derivarono gridano ancora vendetta.

Non vorrei che in attesa dell’arrivo e della vittoria dell’editore “puro” si cedesse alla tentazione di sognare la nazionalizzazione anche dei giornali, come delle autostrade, con la pretesa del governo di turno, e delle relative maggioranze, di sapere distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il diligente dal parassita.

Parlo del parassita a ragion veduta perché proprio di recente Di Maio, annunciando la svolta pentastellare o grillo-leghista alla Rai, ha liquidato come “parassiti” di cui liberarsi appunto tutti i giornalisti che vi sono stati assunti in passato, e ancora ne sono dipendenti.

Beh, questa è una logica un po’ robesperriana che mi fa paura, anche se riconosco che non potranno bastare  i capelli cortissimi di Di Maio né i riccioli che porta in testa allegramente e simpaticamente Toninelli a farne dei Robespierre moderni, senza parrucca.

 

 

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Toninelli cerca di asfaltare la Repubblica, quella per fortuna solo di carta

            La ricorrenza dei cento, o dei primi cento giorni del governo gialloverde, come preferirebbero leggerne gli ammiratori, ha ispirato molti giornali. Il più critico è stato forse La Repubblica con questo titolo sparato in prima pagina: “Cento giorni di soli annunci. Dietro front anche sui vaccini. Primo bilancio del governo: quasi nessuna promessa rispettata. Pensioni, caos su quota 100”.Repubblicapg.jpg A commento e sostegno di questa rappresentazione si trovano sistemati i richiami degli articoli del costituzionalista Michele Ainis e di Roberto Mania. Più sotto c’è il richiamo di un pezzo su un decreto in cantiere fra il Ministero delle Infrastrutture e Palazzo Chigi per far decadere le concessioni autostradali dopo la tragedia del 14 agosto a Genova, con il crollo del viadotto Morandi gestito dalla Società Autostrade della famiglia Benetton.

            Il quotidiano fondato nel 1976 da Eugenio Scalfari e ora diretto da Mario Calabresi, dopo il ventennio di Ezio Mauro, è critico del governo gialloverde di Giuseppe Conte già prima della disgrazia a Genova e dei suoi 43 morti. Lo è dalla nascita della compagine ministriale, anzi dal concepimento, cioè dalle trattative fra grillini e leghisti dopo le elezioni politiche del 4 marzo. Forse anche a Repubblica, come in una parte degli stessi grillini, avrebbero preferito una trattativa di governo fra il movimento delle 5 Stelle e il Pd, pur uscito alquanto malconcio dalle urne e ricacciato all’opposizione, come annotò l’insospettabile Giorgio Napolitano nel discorso col quale aprì, come senatore più anziano, oltre che a vita, la prima seduta della nuova assemblea di Palazzo Madama.

            Ma il ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli, legato a filo doppio col vice presidente e collega di partito Luigi Di Maio, che riesce a volte a superare in durezza di linguaggio e di propositi, ha maturato altre convinzioni sui motivi dell’opposizione, diciamo così, del giornale La Repubblica al governo gialloverde. A infastidire e motivare la catena editoriale del gruppo L’Espresso, cui appunto La Repubblica appartiene, non è la presenza visibilissima e criticatissima dei leghisti nel governo, e non solo al Viminale, ma sono i benedetti, o maledetti, interessi finanziari: gli stessi che avrebbero cercato di impedire a Toninelli, come egli stesso ha riferito alla Camera fra le proteste delle opposizioni che reclamavano una denuncia alla magistratura, la pubblicazione dei contratti di concessione delle autostrade, studiati apposta e perciò a lungo nascosti, secondo lui, per nascondere “la mangiatoia” allestita dai precedenti governi.

            Ospite a la 7 dello spazio televisivo che sostituisce ancora per pochi giorni quello di Lilli Gruber, il ministro Toninelli si è lasciato scappare qualcosa in più delle generiche, e perciò contestatissime, allusioni fatte nell’aula di Montecitorio. In particolare, egli ha parlato dell’imbarazzo e dei timori procurati all’interno del suo Ministero da diffide, o qualcosa del genere, dell’associazione delle società concessionarie a rendere pubblici documenti che avrebbero potuto provocare danni nei mercati finanziari. Che d’altronde si erano già allarmati, con conseguente perdite di quotazione dei titoli, all’annuncio della nazionalizzazione delle autostrade fatto a caldo dallo stesso ministro, quando ancora si cercavano i morti e i feriti fra le macerie del ponte crollato.

           Mondardini 3.jpg Tallonato, in particolare, da Luca Telese, grazie al quale è venuto fuori nella trasmissione un nome e un cognome, il ministro Toninelli ha denunciato politicamente la presenza di una stessa persona nei consigli di amministrazione di Atlantia, la capogruppo -diciamo così- della società Autostrade della famiglia  Benetton, e del  complesso editoriale di Repubblica. Questa persona si chiama Monica Mondardini, di cui a un internauta basta cliccare le generalità per vederla anche in fotografia, da sola o in compagnia. E, in quest’ultimo caso, in compagnia anche di Carlo De Benedetti in persona e di uno dei figli.

            La difesa che Telese ha cercato di fare, in trasmissione, di almeno uno dei giornalisti di Repubblica, da lui citato per un recente articolo critico verso la famiglia Benetton, non ha indotto Toninelli ad alcuna riflessione o ripensamento. Egli ha elogiato la “persona” autonomia del giornalista citato da Telese ma ha continuato a criticare la linea del giornale contro il governo come frutto della commistione di interessi. Che si spera non induca i grillini, se riuscissero ad arrivare al governo da soli, a nazionalizzare anche i giornali, e non solo le autostrade. In difesa delle cui concessioni è appena intervenuto Gilberto Benetton con una lunga intervista al Corriere della Sera che spero risparmierà dubbi fra i grillini a carico di Urbano Cairo, editore del giornale milanese di via Solferino e de La 7.

 

 

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I sensori al ponte governativo di Luigi Di Maio e Matteo Salvini

            Lo scontro, sia pure a distanza, fra il governatore forzista, e di centrodestra, della Liguria Giovanni Toti e il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio sulla gestione dell’emergenza genovese creatasi col crollo del ponte Morandi ha creato nel governo gialloverde più problemi di quanti non ne siano emersi pubblicamente.

           Toti, nel contestare il tentativo di Di Maio di cavalcare le proteste degli sfollati dalle case rese inabitabili dalla caduta del viadotto, ha ottenuto da Salvini una piena solidarietà che, dettata dai vincoli personali e politici fra il leader leghista e il governatore della Liguria, non è stata per niente gradita dal vice presidente grillino del Consiglio.

          A Di Maio non sono piaciute nemmeno le mancate solidarietà dei leghisti nell’aula di Montecitorio quando il ministro pentastellato delle Infrastrutture Danilo Toninelli è stato duramente contestato dai deputati di Forza Italia e del Pd per essersi vantato di avere resistito a pressioni interne ed esterne al suo dicastero contro la pubblicazione dei contratti di concessione delle autostrade.

          D’altronde, dell’atteggiamento un po’ vittimistico e un po’ robesperriano del ministro delle Infrastrutture, sfidato dalle opposizioni a denunciare alla magistratura chi avrebbe tentato di ostacolarne l’azione, non sono rimasti convinti neppure al Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio ha scritto che Toninelli non può “lanciare il sasso e nascondere la mano”.

          A preoccupare infine i grillini sono giunte le notizie di un solido ravvicinamento nelle ultime ore fra Salvini e Silvio Berlusconi, già nell’aria d’altronde dopo la piena solidarietà espressa pubblicamente dal presidente di Forza Italia al vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno per il procedimento giudiziario avviato contro di lui sulla vicenda degli immigrati rimasti bloccati per alcuni giorni nel porto di Catania sulla nave Diciotti della Guardia Costiera.

          Il riavvicinamento fra Salvini e Berlusconi coincide anche con l’atteggiamento più cauto assunto dai leghisti nel cantiere della legge di bilancio, e anche nell’irrigidimento sul tema molto sbandierato da Di Maio dei tagli alle pensioni cosiddette d’oro, che comincerebbero da quattromila euro mensili netti, e forse anche meno.

          Il vice ministro leghista all’Economia Massimo Garavaglia si è richiamato al “contratto” di governo stipulato fra i due partiti che lo compongono, ed esposto al Parlamento dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel discorso di richiesta della fiducia, per precisare che al di sotto dei 5000 euro netti mensili non si potranno effettuare tagli di sorta.

         Sarà forse il caso di applicare qualche sensore al ponte governativo di Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

In difesa di Craxi e persino De Mita dai paragoni con Salvini e Di Maio

In una intervista a Luca Telese per La Verità l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti ha definito l’attuale governo “un nuovo pentapartito 4.0”, che “si divide ma si ricompone”.  Salvini e Di Maio come De Mita e Craxi ?, gli ha chiesto Telese invertendo forse l’ordine avvertito in cuor suo dei personaggi della cosiddetta prima Repubblica, perché vedere in Salvini una riedizione di De Mita e in Di Maio una riedizione di Craxi sarebbe ancor più di un paradosso. Sarebbe una provocazione -credo- per Ciriaco De Mita, ancora felicemente in vita e troppo orgoglioso della sua intellettualità per ritrovarsi nei panni dell’attuale leader leghista.

Ma anche per il grillino Luigi Di Maio credo sia una provocazione dargli del Craxi un po’ per la demonizzazione che si è fatta dello scomparso leader socialista  anche col contributo dei pentastellati, a cominciare da Beppe Grillo in persona, e un po’ per la democristianeria che lo stesso Di Maio ha mostrato più volte di gradire quando gliel’hanno attribuita volenterosi analisti.

Comunque sia, e a parte l’inversione dei personaggi che credo sia sfuggita a Telese, il buon Minniti gli è andato dietro dicendo che “quei due”, intesi come De Mita e Craxi ai tempi del primo pentapartito, “litigavano ogni mattina e si rimettevano insieme con un caminetto”. Ai loro assai presunti eredi “basta una chat  su Watsapp: cambiano i tempi, ma la dinamica è la stessa”, ha concluso l’ex ministro.

Di quei tempi, per quanto Minniti nel 1983, alla nascita del primo governo Craxi, avesse già 27 anni e anche una certa dimestichezza con la politica nel suo Pci, ho un ricordo un po’ diverso e più realistico. De Mita e Craxi litigavano costantemente, in effetti, ma più del caminetto riusciva a ricomporre i contrasti un marchigiano d’infinita pazienza. Era il vice presidente del Consiglio e presidente della Dc Arnaldo Forlani.

Se fosse dipeso da De Mita, il governo Craxi sarebbe durato molto meno dei quattro anni scarsi che durò, peraltro in due edizioni, perché già tre anni dopo l’insediamento del leader socialista, nell’estate del 1986, l’allora segretario della Dc cercò seriamente di liberarsene rivendicando una staffetta a Palazzo Chigi per Giulio Andreotti. Che però vi si sottrasse. E tornò a sottrarvisi sei mesi dopo, quando De Mita per schiodare Craxi e imporre a tutti le elezioni anticipate dovette scomodare dalla presidenza del Senato Amintore Fanfani.

Più ancora della pur clamorosa vicenda del sequestro della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo, nell’ottobre del 1985, delle convulse trattative con i terroristi palestinesi perché interrompessero l’azione liberando croceristi ed equipaggio, dopo avere purtroppo ucciso un passeggero ebreo di nazionalità americana, dell’approdo a Sigonella dei dirottatori in fuga su un aereo egiziano verso la Tunisia intercettato dai caccia statunitensi, del rifiuto di Craxi di consegnarli alle forze speciali  armate sino ai denti nella base italiana e agli ordini diretti della Casa Bianca, delle dimissioni poi rientrate del ministro della Difesa Giovanni Spadolini di fronte al chiarimento intervenuto direttamente fra Craxi e il presidente Ronald Reagan, ricordo una grigia mattina di giugno di quello stesso anno a proposito delle difficoltà incontrate dal leader socialista alla guida del suo pentapartito.

Incontrai per caso De Mita alla Camera, a pochi giorni dal referendum abrogativo dei tagli alla scala mobile apportati l’anno prima dal governo per ridurre ad una cifra l’inflazione che divorava  il valore dei salari.

Contro  quei tagli si era consumata una rottura tragica fra Craxi ed Enrico Berlinguer. Che, già fischiato nel congresso nazionale del Psi a Verona,  ne era morto arringando la folla a Padova in una campagna elettorale. Quel referendum, formalmente  promosso dalla Cgil guidata da Luciano Lama,  era il lascito politico del più popolare fra i segretari del Pci, raccolto alle Botteghe Oscure dal successore Alessandro Natta.

Ebbene, chiesi a De Mita quella mattina perché nella campagna referendaria ormai alle battute finali egli non avesse ritenuto di intervenire. Mi colpì la sua risposta più mimica che verbale, di una indifferenza o distanza abissale. Ricavai l’impressione, magari sbagliata, per carità, che il segretario della Dc considerasse quella battaglia perduta per il governo. E non gliene importasse niente. Craxi invece vinse, ma non a Nusco, il paese di De Mita, dove i sì all’abrogazione dei tagli prevalsero sui no, come notò pubblicamente Bettino con malizia forse non ingiustificata.

Vedere ora paragonare quegli anni, quei partiti, quegli uomini e quei problemi alle vicende del governo gialloverde mi lascia un po’ l’amaro in bocca.

 

 

 

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Edizione speciale, e politica, di “Scherzi a parte” fra Roma e Ravenna

            Spettacolo politico surreale in poche ore tra Roma e Ravenna, come in una edizione speciale di “Scherzi a parte”, il fortunato programma televisivo vecchio ormai di 26 anni.

            A Roma il Consiglio dei Ministri si è riunito, ma davvero, sotto la presidenza del vice presidente leghista Matteo Salvini, mancando sia il presidente Giuseppe Conte sia l’altro vice presidente, Luigi Di Maio, entrambi grillini. Così Salvini, una volta tanto in giacca e cravatta, ha potuto cogliere felicemente l’occasione anche per festeggiare i generosi sondaggi appena sfornati da la 7 e dintorni, che hanno spinto la Lega in su fra il 32 e il 34 per cento dei voti, i grillini in giù fra il 28 e il 27 e Forza Italia persino sotto il 7 per cento.

          Gazzetta.jpg Il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno, Nico Pillinini, si è candidato all’oscar di giornata proponendo sulla prima pagina del giornale di Bari tre cloni di Salvini a capotavola del governo, ma il Salvini vero ha nel frattempo lasciato la riunione del Consiglio dei Ministri, non si è ben capito sotto quale presidenza, per mandare un messaggio rasserenante ai soliti mercati inquieti: “Sarà una manovra economica rispettosa di tutte le regole”. Ma alla fine gli è sfuggita una promessa -quella di far “pagare meno tasse agli italiani”- che si spera non induca il sospettoso mister Spread a esibire ancora di più i muscoli.

            A Ravenna è approdato il presidente grillino della Camera Roberto Fico non per fare un salto alla tomba di Dante, ma per partecipare alla festa della pur defunta Unità dell’altrettanto defunto Pci, via via reincarnatosi nel Pd a temporanea reggenza di Maurizio Martina. E in attesa di un congresso al quale per ora si è candidato segretario solo Nicola Zingaretti con l’incoraggiamento appena abbozzato in quel di Cortona dall’ex ministro dei beni culturali Dario Franceschini. Che ha fatto e disfatto più segretari lui di un artigiano di pupi.

             Fico alla festa .jpgSarà stato per simpatie spontanee e personali, sarà stato per disagio disaffettivo, data la lunghezza della crisi nel partito, sarà stato per un eccesso di educazione verso l’ospite, pur da parte di un pubblico abituato ai suoi migliori tempi a mangiare “trippa alla Bettino” pur di manifestare al meglio, diciamo così, l’avversione a Craxi, il presidente Fico ha raccolto un successone a Ravenna. Dove naturalmente egli è tornato a dire qualcosa di sinistra, come raccomandava già in passato ai suoi compagni Nanni Moretti. E lo ha fatto criticando, pur senza nominarlo per galateo istituzionale, il ministro dell’Interno Salvini nella gestione degli immigrati bloccati per alcuni giorni nel porto di Catania sulla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana.

             Il povero capogruppo del Pd a Montecitorio Graziano Delrio, che i grillini proprio in questi giorni stanno cercando di coinvolgere come ex ministro delle Infrastrutture nei guai del viadotto Morandi crollato a Genova, si è trovato ad un certo punto in serie difficoltà. Pur avendo fatto gli onori di casa, accogliendo di persona l’ospite alla festa di Ravenna, egli ha dovuto alla fine cogliere l’occasione offertagli dal primo microfono a portata di voce per ricordare “realisticamente” agli amici e compagni del Pd che la linea esposta dal presidente della Camera non è quella praticata dal suo movimento al governo.

            Liberi, naturalmente, gli amici e compagni di Delrio di credergli o no, a cominciare dal già ricordato Franceschini. Che forse ha ancora addosso le vesti stracciatesi a Cortona lamentando l’occasione fatta mancare dal solito Matteo Renzi in primavera di un accordo di governo con i grillini per strapparli alla presa dei leghisti.

             Una partecipazione fuori concorso alla edizione speciale di “Scherzi a parte” è stata quella del sindaco di Napoli Luigi de Magistris  con la proposta di una moneta aggiuntiva all’euro nella sua città.

 

 

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Il paradossale soccorso del Pd targato Franceschini al governo grilloleghista

            Fra i punti che guadagna nei mercati finanziari il vorace mister Spread rendendo i titoli del debito pubblico italiano sempre più onerosi, il declassamento delle “prospettive” appena annunciato dall’agenzia internazionale di rating Fitch, le interferenze della magistratura, la “vigilanza preoccupata” del presidente della Repubblica, che aspetta il varo della legge di bilancio per valutarne le compatibilità con gli impegni europei e decidere come regolarsi, cioè se consentirne o no la presentazione alle Camere in base al quarto comma del lungo articolo 87 della Costituzione, che elenca le prerogative e funzioni del capo dello Stato, e viene forse sottovalutato dai ministri, sottosegretari ed esponenti della maggioranza divisi sulla esecuzione del loro “contratto di governo”, le uniche buone notizie che arrivano a Palazzo Chigi sono quelle del Pd. Che pure è paradossalmente il principale partito di opposizione rappresentato in Parlamento.

            Forse esagera il grillino Alessandro Di Battista a parlarne, come ha appena fatto in collegamento dal Guatemala con la festa annuale del Fatto Quotidiano, come di un partito “morto”, ma di certo il Pd non gode di buona salute. E ogni volta che i suoi dirigenti, fuori e dentro le mura del Nazareno, in riunioni di direzione, assemblea nazionale e quant’altro, o in raduni di area o corrente, com’è appena accaduto per quella dell’ex ministro dei beni culturali Dario Franceschini a Cortona, si ritrovano per fare il punto della situazione e cercare di uscire dalla crisi sopraggiunta con le elezioni politiche del 4 marzo scorso, il quadro che ne esce è sempre più confuso.

            A Cortona si è capito che Dario Franceschini ha definitivamente chiuso la stagione renziana, sua personale e del partito, ed è pronto a sostenere nella corsa alla segreteria l’attuale governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il fratello del più celebre commissario televisivo Montalbano, se e quando si riuscirà davvero a realizzare  il congresso. Ma per fargli fare cosa esattamente, una volta assuntane la guida, non si è capito. Né lo stesso Zingaretti ha aiutato a capire nel discorso pur tanto applaudito da Franceschini, incoraggiato peraltro da Piero Fassino.

            L’unica cosa che si è capita è un forte e comune risentimento nei riguardi di Matteo Renzi. Al quale Franceschini, fra il discorso conclusivo del raduno di corrente e le interviste, non perdona l’ingenerosità verso Paolo Gentiloni, la cui candidatura ufficiale a Palazzo Chigi in campagna elettorale avrebbe quanto meno ridotto le perdite del Pd, e poi l’alleanza di governo fra i grillini e la Lega dell’altro Matteo, cioè Salvini.

            E’ un’alleanza, quest’ultima, che rischia, per quanto contraddittoria, di trasformarsi in un “blocco sociale” e che il Pd avrebbe potuto evitare, secondo Franceschini, sostituendosi ai leghisti nella trattativa di governo, come si accingeva a fare il segretario reggente Maurizio Martina dopo l’esplorazione della crisi condotta dal presidente grillino della Camera Roberto Fico su incarico del capo dello Stato, se Renzi non glielo avesse impedito dal salotto televisivo di Fabio Fazio. D’altronde molti, a cominciare dallo stesso capo ufficiale del movimento cinque stelle e allora ancora candidato alla presidenza del Consiglio Luigi Di Maio, avrebbero preferito tra i grillini il pur disprezzato Pd, indebolito dal risultato elettorale di marzo, ad una Lega imbaldanzita dal sorpasso effettuato su Forza Italia all’interno del centrodestra.

            Un partito che, conservando lo stesso nome o cambiando pure quello, e non avendo il coraggio o la cultura, come preferite, di chiedere il ricorso anticipato alle urne, stabilendo peraltro con quali alleati affrontarle, pone di fatto come obiettivo della sua azione politica e parlamentare non il rovesciamento del governo in carica, ma una crisi che gli consenta di sostituire la Lega nel rapporto con i grillini, è una forza politica a dir poco perduta. Che a parole promette opposizione ma nei fatti moltiplica la forza di attrazione del movimento grillino, anziché ridurla.

            In questa situazione scomodare o comunque indicare formule di vecchia scuola morotea, come ha fatto Franceschini parlando della necessità di “scomporre per ricomporre” equilibri, è un puro esercizio dialettico, e retorico.

            Anziché contrastare i grillini, coerentemente con le critiche mosse ai loro programmi e alle loro iniziative di governo, il Pd post-renziano di Franceschini e Zingaretti, o viceversa, li inseguirebbe.  

Avviso dal Colle ai naviganti sulla “vigilanza preoccupata” di Mattarella

            Stesa in fondo alla seconda pagina del Corriere della Sera, e classificata come “analisi” del quirinalista Marzio Breda, è arrivata una prima risposta alle sollecitazioni per un intervento del capo dello Stato che, a torto o a ragione, si sono colte in due vignette consecutive di Emilio Giannelli sulla prima pagina dello stesso giornale di fronte agli sviluppi non proprio lineari della situazione politica. Che si trascina fra “continue e ruvidissime sfide all’Unione Europea”, come le ha chiamate Breda alludendo anche a dichiarazioni del vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, e “confusi e contraddittori messaggi con cui gareggiano fra di  loro gli esponenti della maggioranza gialloverde”, sempre secondo le parole del quirinalista del Corriere della Sera.

Ebbene, “la vigilanza del Colle” c’è, ed è “preoccupata”, come dice il titolo della nota di Breda, specie dopo il peggioramento delle prospettive italiane avvertite e spiegate dall’agenzia internazionale di rating Fitch, e i segnali d’inquietudine crescente nei mercati finanziari.

            Anche il presidente della Repubblica, secondo il quirinalista del principale giornale italiano, ritiene opportuno un anticipo della nota di aggiornamento del documento di programmazione economica e finanziaria. Ma soprattutto egli è pronto a sollevare “un problema costituzionale” se il governo non dovesse trovare con la Commissione dell’Unione Europea il necessario accordo per superare, nella confezione della legge di bilancio, i vincoli del cosiddetto patto di stabilità.  

Bocciato dal 61% degli italiani il processo a Salvini per i migranti della nave Diciotti

            Da sondaggi Swg è risultata bocciata dal 61 per cento degli italiani l’indagine condotta contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini dal capo della Procura di Agrigento Luigi Patronaggio. Il quale, peraltro, dopo avere comunicato ufficialmente il passaggio di competenza al cosiddetto tribunale dei ministri di Palermo e relativa Procura ha continuato ad occuparsi della vicenda della nave militare italiana Diciotti e degli immigrati bloccati a bordo per alcuni giorni nel porto di Catania. Egli ha così portato da tre a cinque i reati contestati a Salvini e al suo capo di Gabinetto al Viminale.

            E’ interessante anche la composizione del 61 per cento dei no all’iniziativa giudiziaria assunta contro il ministro dell’Interno, considerando l’orientamento politico dichiarato dai partecipanti ai sondaggi.

            Contrari sono stati il 92 per cento dei leghisti, l’81 per cento dei grillini, il 56 per cento dei forzisti e il 22 per cento degli elettori piddini.

            Pur ininfluente naturalmente sul piano giudiziario, la contrarietà di tanta parte degli italiani all’iniziativa assunta dalla magistratura a carico di un’azione di governo nel pieno del suo svolgimento non sembra francamente un buon viatico per le successive tappe del procedimento. Che contempla peraltro un passaggio costituzionalmente garantito proprio per le prerogative del governo e per una valutazione anche politica, e non solo giudiziaria, dell’intera vicenda. E’ il passaggio al Senato, senza la cui autorizzazione, da esprimere con la maggioranza assoluta dei voti, cioè dei componenti l’assemblea, il ministro dell’Interno non potrà essere sottoposto al processo eventualmente chiesto dalla Procura di Palermo.

            E’ già accaduto che il Senato abbia negato il processo contro ministri accusati dalla magistratura di reati considerati dal Parlamento commessi nel superiore interesse dello Stato, e perciò non perseguibili. Fra questi reati il capo della Procura di Agrigento ha ritenuto di aggiungere, dopo l’annuncio del passaggio di competenze, quello di sequestro di persona per indurre l’Unione Europea alla distribuzione degli immigrati fra più paesi della stessa Unione. Che a rigore di legge potrebbe pertanto costituirsi parte civile nel processo, pur derivando il concorso dei vari paesi all’assunzione del fenomeno migratorio da negoziati politici in corso nelle sedi proprie, e politiche, della comunità europea.

            Ai margini, diciamo così, della vicenda della nave pattugliattrice Diciotti,  va infine registrata la possibilità di un avvicendamento al comando generale della flotta di appartenenza, che è quella della Guardia Costiera.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it

Se i maleducati al governo non sono neppure di talento…

            Va bene che il loro movimento è praticamente nato con una parolaccia: il famoso “vaffanculo” gridato ai quattro venti in piazza da un comico, Beppe Grillo, che ne sarebbe diventato il capo promuovendosi poi “garante”, “elevato” e non so, o non ricordo più cos’altro. Ma ora che sono arrivati al governo e si identificano con lo Stato, alla maniera del Re Sole, questi benedetti grillini dovrebbero cominciare a darsi una certa misura.

            Essi hanno licenza di governare per i voti che hanno ottenuto nelle urne da elettori veri, con tanto di certificati e di riconoscimento nei seggi;  per la fiducia loro accordata dal presidente della Repubblica con la nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri, e per quella infine concessa da entrambi i rami del Parlamento. Ma non hanno licenza di insultare, se non abusando, quando sono parlamentari, di quel che è rimasto della vecchia immunità offendendo chi capita loro a tiro dentro e fuori le aule di Palazzo Madama e di Montecitorio.

            Dalla tragedia del 14 agosto, quando a Genova crollò una parte del viadotto Morandi provocando 43 morti, non è passato molto tempo, d’accordo. Ma ne è passato abbastanza, e si sono verificati  fatti sufficienti, come l’apertura di un’inchiesta giudiziaria che obbliga anche il giurista e presidente del Consiglio in carica ad aspettarne i tempi prima di esprimere giudizi sulle responsabilità penali, per aspettarsi da un governo e dai suoi esponenti azioni, comportamenti e parole consone alle loro funzioni. E al dovere che hanno di rappresentare anche chi non li ha votati o non ha loro accordato la fiducia nelle aule parlamentari.

            Il ministro grillino delle Infrastrutture Danilo Toninelli, che con le sue dichiarazioni ha già contribuito a fare crollare in borsa, ai danni di tanti risparmiatori incolpevoli, i titoli di Atlantia come il ponte sul torrente Polcevera e dintorni, non può definire “indecente” la risposta legittimamente fornita dalla Società Autostrade alle contestazioni mossele per avviare la procedura di revoca della concessione. E’ come se qualche critico o avversario del ministro Toninelli gli avesse dato dell’indecente per avere nominato per la vicenda del crollo del ponte a Genova una commissione di cui ha dovuto poi sostituire il presidente e un altro esponente.

            Qui vi sono delle responsabilità da accertare, non degli insulti da distribuire, o delle gogne da praticare. E ritenere di poter fare lo stesso queste cose in nome o per conto delle 43 vittime del crollo, sarebbe solo sciacallaggio, anche se applaudito dalla folla di turno.

            Non è accettabile il linguaggio di Toninelli come quello del suo superiore e capo Luigi Di Maio quando reclama dalla Società Autostrade di “tacere”, negandole così il diritto alla difesa, oppure il dovere di rispondere alle contestazioni mossele nel momento di avvio del processo di revoca della concessione. O quando definisce “furto” un diritto acquisito da pensionati e quant’altri pensando di poterlo così più facilmente sopprimere. O quando liquida come “parassiti” quanti sono stati assunti dalla Rai per raccomandazione, vera o presunta.

              Mi è capitato di lavorare alla Rai  e di conoscere e apprezzare una quantità di colleghi per niente parassiti che Di Maio neppure immagina.

            Ferruccio de Bortoli lasciò qualche tempo fa la direzione del Corriere della Sera dando del “maleducato di talento” all’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, autore di  un po’ di tentativi di interferenze, chiamiamole così, comunque risoltesi in un danno per chi aveva dovuto fronteggiarle. Qui temo che abbiamo a che fare con maleducati senza talento.  O con un talento che costoro, da sprovveduti,  non si daranno neppure il tempo di dimostrare a quelli, per esempio, dell’agenzia internazionale di valutazione Fitch.rating.jpg Che hanno appena resistito eroicamente alla tentazione di deprezzare il rating italiano limitandosi a modificare l’orizzonte da stabile a negativo per l’incertezza politica che caratterizza il nostro Paese, ancora a rischio di elezioni anticipate. E questo per non parlare dei quasi 300 punti ormai di mister Spread, che hanno già fatto salire di tanto i costi del debito pubblico italiano.

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