Il cambiamento è già nel nome del governo gialloverde, per cui non dovrebbe stupire se esso lo subisse anziché promuoverlo quando glielo consigliano le ragioni della sua stessa sopravvivenza.
Arrivato sulla soglia di una rottura autunnale tra sfide all’Unione Europea e ai mercati finanziari, sino a far salire a quota quasi 300 il differenziale fra i titoli di Stato italiani e tedeschi, col conseguente aumento del costo del debito pubblico, il governo ha dovuto darsi una regolata, almeno con le parole. Dalle sfide è passato alle assicurazioni che i conti saranno tenuti a bada nel cantiere della legge di bilancio. E se sforeranno rispetto ai parametri europei sarà di poco, comunque con tutte le necessarie autorizzazioni comunitarie. Se fosse vivo Marco Biagi, ripeterebbe la favoletta della ragazza che dice alla mamma di essere incinta, ma di poco.
Si è calmato persino il vice presidente grillino del Consiglio e superministro dell’Economia e del Lavoro Luigi Di Maio nel gioco del gatto col topo praticato per tre mesi con gli indiani per la sopravvivenza dell’Ilva, per cui si è arrivati ad un accordo che gli ha rimediato gli elogi persino del predecessore Carlo Calenda. Il quale, in particolare, gli ha riconosciuto il merito, forse non molto apprezzato dal capo del Movimento delle 5 stelle, di avere “saputo cambiare idea”.
Che il gioco di Di Maio con gli indiani dell’Ilva, in una partita riguardante un settore vitale come la siderurgia e ventimila posti di lavoro, fra diretto e indotto, non sia stato fra i migliori è scappato di dirlo anche al Fatto Quotidiano. Il cui direttore Marco Travaglio ha appena scritto, testualmente, che gli indiani sono stati “ricattati da Di Maio con la minaccia di revocare la gara” di assegnazione, per cui essi “hanno dovuto cedere su tutta la linea, firmando un accordo migliore di quello avallato da Calenda”. Il termine “ricatto” non perde il suo valore negativo nell’uso politico e giornalistico. E di solito certe cose ottenute con simili mezzi possono trasformarsi in ordigni esplosivi al primo intoppo.
Un cambio di passo, quanto meno di passo, si può registrare anche nella pur risentita reazione del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini alla decisione del tribunale di sorveglianza di Genova di procedere sulla strada dei sequestri dei conti e dei beni del suo partito. Qualcuno, per esempio su Repubblica, l’ha definito “eversiva”, ma la fiducia espressa da Salvini sugli elettori leghisti di fronte alle obiettive difficoltà che il suo partito sta incontrando sul piano giudiziario per gli errori, reati e quant’altro abbiano compiuto gli ex conduttori e amministratori del Carroccio, mi sembra il minimo sindacale. Non dimentichiamo, peraltro, che tutto nasce praticamente da una condanna penale rimediata da Umberto Bossi solo in primo grado.
Anche sull’altra vicenda giudiziaria di Salvini, a rischio di processo con la procedura del cosiddetto tribunale dei ministri per la vicenda degli immigrati soccorsi in alto mare e trattenuti per alcuni giorni su una nave della Guardia Costiera nel porto di Catania, in attesa di un’articolata distribuzione tra Stati ed altre entità disposti ad accoglierli, più passano i giorni e più salgono le ragioni del ministro. Si è appena svolto sulla questione nel Consiglio Superiore della Magistratura uscente un dibattito nel quale è venuta meno la originaria compattezza delle correnti a difesa dell’iniziativa assunta dalla Procura di Agrigento. Il consigliere togato Claudio Galoppi, di Magistratura Indipendente, ha avuto da eccepire sulla vicenda giudiziaria parlando di “interferenze in attività di governo o amministrative in corso”.
I cambiamenti di passo avvertiti nella conduzione degli affari di governo negli ultimi giorni non hanno comunque dissipato una certa confusione. Che è dimostrata, per esempio, dalle giravolte sulla obbligatorietà “flessibile” dei vaccini o dall’assenza non certo casuale di Salvini dal Consiglio dei Ministri che ha varato un disegno di legge anticorruzione molto reclamizzato dai grillini, nel quale il ministro dell’Interno ha avvertito pubblicamente il rischio di compromettere il principio della presunzione non di colpevolezza, come scappò di dire una volta persino al presidente del Consiglio e avvocato Giuseppe Conte, ma di “non colpevolezza”, cioè di innocenza dell’imputato “sino a condanna definitiva”, come dice l’articolo 27 della Costituzione.
Il massimo che si sappia di questo provvedimento è il testo uscito dal Consiglio dei Ministri, non appena sarà uscito davvero perché di solito ci sono sempre sorprese fra l’annuncio e il deposito effettivo. Ma come sarà quello approvato dal Parlamento si potrà vedere solo in seguito.
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A commento e sostegno di questa rappresentazione si trovano sistemati i richiami degli articoli del costituzionalista Michele Ainis e di Roberto Mania. Più sotto c’è il richiamo di un pezzo su un decreto in cantiere fra il Ministero delle Infrastrutture e Palazzo Chigi per far decadere le concessioni autostradali dopo la tragedia del 14 agosto a Genova, con il crollo del viadotto Morandi gestito dalla Società Autostrade della famiglia Benetton.
Tallonato, in particolare, da Luca Telese, grazie al quale è venuto fuori nella trasmissione un nome e un cognome, il ministro Toninelli ha denunciato politicamente la presenza di una stessa persona nei consigli di amministrazione di Atlantia, la capogruppo -diciamo così- della società Autostrade della famiglia Benetton, e del complesso editoriale di Repubblica. Questa persona si chiama Monica Mondardini, di cui a un internauta basta cliccare le generalità per vederla anche in fotografia, da sola o in compagnia. E, in quest’ultimo caso, in compagnia anche di Carlo De Benedetti in persona e di uno dei figli.
Il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno, Nico Pillinini, si è candidato all’oscar di giornata proponendo sulla prima pagina del giornale di Bari tre cloni di Salvini a capotavola del governo, ma il Salvini vero ha nel frattempo lasciato la riunione del Consiglio dei Ministri, non si è ben capito sotto quale presidenza, per mandare un messaggio rasserenante ai soliti mercati inquieti: “Sarà una manovra economica rispettosa di tutte le regole”. Ma alla fine gli è sfuggita una promessa -quella di far “pagare meno tasse agli italiani”- che si spera non induca il sospettoso mister Spread a esibire ancora di più i muscoli.
Sarà stato per simpatie spontanee e personali, sarà stato per disagio disaffettivo, data la lunghezza della crisi nel partito, sarà stato per un eccesso di educazione verso l’ospite, pur da parte di un pubblico abituato ai suoi migliori tempi a mangiare “trippa alla Bettino” pur di manifestare al meglio, diciamo così, l’avversione a Craxi, il presidente Fico ha raccolto un successone a Ravenna. Dove naturalmente egli è tornato a dire qualcosa di sinistra, come raccomandava già in passato ai suoi compagni Nanni Moretti. E lo ha fatto criticando, pur senza nominarlo per galateo istituzionale, il ministro dell’Interno Salvini nella gestione degli immigrati bloccati per alcuni giorni nel porto di Catania sulla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana.
Che hanno appena resistito eroicamente alla tentazione di deprezzare il rating italiano limitandosi a modificare l’orizzonte da stabile a negativo per l’incertezza politica che caratterizza il nostro Paese, ancora a rischio di elezioni anticipate. E questo per non parlare dei quasi 300 punti ormai di mister Spread, che hanno già fatto salire di tanto i costi del debito pubblico italiano.