C’è solo l’imbarazzo della scelta su chi ha sbagliato di più nello scontro consumatosi fra il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini e lo scrittore Roberto Saviano, in ordine rigorosamente alfabetico dei loro cognomi. Uno scontro che ha consentito peraltro al leader leghista di occupare ancora una volta le prime pagine dei giornali sovrastando l’esposizione del governo e degli alleati grillini, che sembrano persino rassegnati a questo sorpasso, di natura ormai anche elettorale stando ai sondaggi.
Salvini ha sicuramente sbagliato a minacciare di fatto, visto il ruolo che svolge tra Palazzo Chigi e Viminale, il ritiro o la riduzione delle misure di protezione in atto per Saviano. Che, minacciato dalla camorra, gira ormai scortato più di qualche magistrato che ne occupa.
Ma pure Saviano ha sbagliato nel dare a Salvini del ministro della malavita anche per via della sua elezione a senatore in terra calabrese, in questa fase decisamente nuova del fenomeno leghista. Che nacque al Nord tra le nebbie padane e le insofferenze, a dir poco, per il Meridione e i suoi abitanti, affidati alla “forza” dell’Etna nelle scritte sui cavalcavia delle autostrade settentrionali apposte di notte da militanti e simpatizzanti del movimento allora guidato da Umberto Bossi.
Ma “ministro della malavita” nella storia politica dell’Italia, anche se Saviano ha incredibilmente mostrato di non saperlo, o di averlo dimenticato nella furia della polemica, non è un insulto. Salvini potrebbe prenderlo addirittura per un augurio, essendoselo meritato nel lontano 1910 e anni successivi da Gaetano Salvemini l’allora potentissimo Giovanni Giolitti. Che fu 5 volte presidente del Consiglio e 6 volte ministro dell’Interno, contrassegnando talmente una lunga epoca dell’Italia da darle il suo nome. Non piacevano a Salvemini i candidati del piemontese Giolitti nei collegi elettorali del sud, dove venivano eletti, secondo lui, più per l’appoggio del capo del governo che per i loro meriti.
Della “età giolittiana” sono pieni i libri della storia italiana. E in senso non negativo ma positivo, pur avendo Giolitti avuto le sue disavventure con lo scandalo della Banca Romana. Che lo allontanò dalla politica per sette anni, richiamatovi poi per la forza della sua personalità e per il prestigio che evidentemente non aveva perduto da leader liberale.
Se fossi in Salvini, dopo questa autorete di Saviano, non gli manderei un “bacione” per sfotterlo, come ha fatto il segretario della Lega replicando il suo modo di chiudere una polemica, ma glielo manderei davvero per gratitudine. Anzi, glielo darei alla prima occasione utile, anche a costo di essere maleducatamente respinto.
Potrebbe essere il caso dell’intervista rilasciata al Messaggero dall’imprenditore veneto Massimo Colomban, segnalato dai vertici grillini alla sindaca Raggi pochi mesi dopo la sua elezione e da questa nominato assessore alle aziende partecipate, ma dimessosi dopo quasi un anno proprio dopo l’approdo a Roma di Lanzarone. Che vi arrivò, secondo i ricordi di Colomban, per occuparsi non del progetto dello stadio romanista a Tor di Valle, poi finito fra le sue materie, ma dell’azienda comunale dei trasporti, l’Atac, prospettandone il fallimento, o qualcosa del genere, fra lo stupore e comunque la disapprovazione dell’assessore competente. Che tuttavia si vanta ancora di avere presentato lui l’avvocato genovese a Beppe Grillo in una cena nell’albergo romano davanti ai fori imperiali, dove il comico fondatore del Movimento 5 Stelle risiede quando si ferma nella Capitale. Altro quindi che il sindaco di Livorno Filippo Nogarin, espostosi qualche giorno fa con una intervista al Fatto Quotidiano per assumersi la responsabilità di avere introdotto presso i vertici del partito l’avvocato genovese, avendolo selezionato a dovere e sperimentato con soddisfazione nella soluzione dell’azienda dissestata dei rifiuti della città toscana.
Eppure si tratta, come ha gridato con allarme in apertura Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, dell’”ultima battaglia contro il pm Voodcock”, troppo noto ormai per stare qui a ripercorrerne storia, carriera e quant’altro.
Oltre ai grillini sono insorti vignettisti poco o per niente simpatizzanti del Movimento delle 5 Stelle, ma rimasti anch’essi basiti dal primo annuncio di Salvini, aggravato dal rammarico da lui dichiarato di poter espellere solo i rom stranieri, e di doversi invece tenere quelli italiani. Particolarmente impietose sono state le vignette di Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno e di Stefano Rolli sul Secolo XIX, dove il leader leghista è stato rappresentato come un emulo di Mussolini o come un mostro con mano d’artigli.
Chi pertanto reclama, dopo l’esplosione dello scandalo di Tor di Valle e dintorni, e le non sufficienti dimissioni del presidente dell’Acea, che a “pagare” per gli sbagli compiuti siano anche Grillo, Casaleggio, Di Maio, Bonafede, Fraccaro, magari anche la Raggi e via scendendo per li rami, è invitato a fermarsi e a prendersela, semmai, con Nogarin. Il quale così, visto che si trova, paga anche per la tentata insubordinazione al potente alleato di governo Salvini, che nel frattempo continua la sua guerra alla “pacchia”, anzi “superpacchia”, dei soccorsi effettivamente ambigui ai migranti mandati al naufragio da chi ne sfrutta cinicamente la disperazione e la fuga dalle guerre e dalla miseria dei loro paesi. Ed ora, non contento di quel che ha guadagnato in questi anni col traffico di carne umana, si sta arricchendo anche col petrolio di contrabbando, come ha appena rivelato il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro: lo stesso che, fra le proteste e l’incredulità quasi generali, denunciò e cercò di perseguire l’anno scorso la gestione a dir poco opaca dei soccorsi marittimi delle organizzazioni non governative ai migranti.
Le domande impertinenti fra i grillini hanno fatto breccia in un editoriale scritto per la Repubblica da Ezio Mauro, che ha paragonato in qualche modo la carriera, forse finita, di Lanzalone a quella appena cominciata sul piano politico dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La cui “scoperta” nel mondo universitario e forense è stata coralmente attribuita, fuori e dentro il movimento grillino, proprio ad uno dei tre “moschettieri”: l’attuale guardasigilli Bonafede.
Marco Travaglio si è fatto portavoce nell’editoriale di giornata del suo Fatto Quotidiano della rabbia, dello scoramento, dell’allarme del popolo grillino, sorpreso peraltro anche dalla notizia che il costruttore romano Parnasi -Luca come Lanzalone, ma finito in cella davvero e non agli arresti domiciliari- soleva vantarsi con i suoi interlocutori, magari reduce da una cena con esponenti di punta del movimento delle 5 stelle, di fare lui il governo, mentre altri fingevano o si illudevano di stenderne o averne steso il contratto. “A noi -ha scritto Travaglio con apparente distacco- della sorte delle 5 Stelle importa poco o nulla, ma se anche stavolta le aspettative di cambiare venissero frustate, nessuno altro ci proverà mai più”.