Neppure Goffredo Bettini, declassato impietosamente dalla matita di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera a palafreniere, sembra dunque riuscito a convincere il compagno ed amico Nicola Zingaretti a rimontare sul cavallo della segreteria del Pd dopo essersi disarcionato da solo
con le dimissioni, come ha preferito rappresentarlo il vignettista Francesco Tullio Altan su Repubblica. L’assemblea nazionale, già convocata per il 14 marzo prima della clamorosa rinuncia di Zingaretti, dovrà dunque eleggere un successore. Che poi ciascuno vedrà o chiamerà secondo le preferenze: segretario, reggente o quant’altro. E magari, data la natura comunque precaria della carica per le circostanze in cui avviene il cambio, potrà essere la volta di una donna, visto anche che l’ultimo scontro nel Pd si è consumato, almeno a parole, proprio sul torto fatto loro da Zingaretti lasciandole escludere dalla delegazione dei ministri nel governo di Mario Draghi.
Per la reggenza al femminile, o come si preferirà chiamarla, ripeto, si fanno i nomi di Roberta Pinotti
e di Anna Finocchiaro, entrambe già
ministre in altri governi: la Finocchiaro addirittura convinta qualche anno fa di essere rimasta fuori da una corsa al Quirinale proprio in quanto donna, come prima di lei in una gara precedente si era sentita la post-democristiana Rosa Russo Jervolino, Rosetta per gli amici.
La irreversibilità delle dimissioni di Zingaretti, per quanto messa in dubbio in un primo momento da qualcuno dei suoi avversari addirittura col sospetto di una manovra studiata apposta per uscire
dall’angolo e cercare una conferma emotiva, era obiettivamente nelle cose. E’ difficile dissentire da Luca Ricolfi, uno studioso di sinistra da tempo inutilmente impegnato a stimolare la stessa sinistra a interrogarsi sulle ragioni per le quali è antipatica a tanta parte degli elettori, quando sottolinea sul Messaggero la stranezza di un commiato “d’amore” dalla guida del partito, come lo ha definito il medesimo segretario dimissionario, dicendone tutto il male possibile, sino a “vergognarsene”.
D’altronde, anche talune delle prime espressioni di solidarietà rivolte a Zingaretti dall’esterno del partito- e già di per sé più nocive che utili, come quelle di Giuseppe Conte, appena diventato il concorrente elettorale più pericoloso
per il Pd dopo la designazione a capo rifondatore del movimento grillino- sono andate rapidamente affievolendosi, se non rovesciandosi in commiserazione o sarcasmo. E’ il caso del solito Fatto Quotidiano, la cui “cattiveria” di giornata è stata dedicata proprio a Zingaretti per quella sua promessa, o minaccia, secondo i punti di vista, di “non scomparire”. “Se no rimaneva segretario del Pd”, lo ha sfottuto il giornale di Marco Travaglio, che forse si aspettava da lui il coraggio mancato a Grillo di impedire la formazione del governo Draghi e archiviare il sogno del terzo governo di Conte.
Non sono infine riuscite a riaccendere ardori per Zingaretti neppure “le sardine” -ricordate quelle di Mattia Santori?- mobilitatesi
a suo
favore dopo l’annuncio delle dimissioni. “Zinga non torna”, ha titolato il manifesto aggravando il quadro con la previsione del “Pd a rischio default”, ora che sarebbe chiaro il controllo che ne hanno, secondo
Achille Occhetto sul Riformista, “i signori della guerra”. Una volta se ne parlava solo discettando della Libia.
mattina alla sera, o dalla sera alla mattina, anche
con o per uno starnuto. Ce ne furono a iosa, di correnti, anche nella Democrazia Cristiana, la famosa “balena bianca” che il compianto Giampaolo Pansa scrutava nei congressi col binocolo. C’erano correnti, sotto la superficie di una disciplina non
comune, anche nel Pci. Non parliamo poi di quelle socialiste, che spuntavano come funghi ad ogni pioggia. C’erano correnti, ai tempi lontani della prima Repubblica, anche in partiti dell’1 o zero e rotti per cento dei voti.
assediato, ma molto ultimamente: diciamo dalla formazione del governo di Mario Draghi in poi, quando si è sentito chiedere anche un congresso anticipato. Al quale sembrava, ad un certo punto, ch’egli fosse pure disponibile, consigliato anche in questo dal compagno ed amico Goffredo Bettini, salvo ripensarci e ricordare le scadenze statutarie di primarie e simili nel 2023.
governo così lunga e così difficilmente gestita, a dir poco ? Una crisi che doveva pur essere messa nel conto nel momento in cui anche lui, e non solo il “reprobo” Matteo Renzi, pose a Giuseppe Conte che sembrava ancora ben saldo a Palazzo Chigi, protetto dai sondaggi o dalla popolarità, il problema di un “cambio di passo”. Eppure bastò che quella crisi si scorgesse all’orizzonte perché il segretario del Pd frenasse di botto e lasciasse proseguire da solo Renzi. Che, dal canto suo, si era ormai spinto tanto avanti da non potersi o non volersi fermare. Le rottamazioni, si sa, sono per Renzi una tentazione irresistibile, forse ereditata dalla sua esperienza di boy scout, anche se quei ragazzi in divisa allestiscono tende prima di smontarle o abbatterle.
degli umori veri al Quirinale: non quelli attribuiti dai giornali. Sinceramente, non credo -al contrario di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, che è tornato ieri a scriverne- che Sergio Mattarella abbia cambiato parere all’ultimo momento dicendo e motivando il suo no allo scioglimento anticipato delle Camere e conseguenti elezioni in piena pandemia.
sull’aiuto che lungo la strada, una volta partito il convoglio ministeriale, avrebbero dovuto concedergli i grillini. Che pure lo avevano sbeffeggiato in streeming incontrandolo a Montecitorio come presidente neppure incaricato, ma solo “pre-incaricato”, come ad un certo punto Napolitano fu costretto a ricordare a Bersani. Al quale pertanto tolse praticamente il mandato, o glielo congelò per il tempo necessario, e perduto, alla ricerca di un nuovo presidente della Repubblica. Perduto, perché si sa che Bersani fallì anche in quel tentativo col naufragio delle candidature prima del povero Franco Marini e poi di Romano Prodi.