Beh, si rimane francamente trasecolati a leggere la lunga intervista del fondatore di Repubblica Eugenio
Scalfari al direttore Maurizio Molinari, catalogata peraltro come “cultura” e non politica, visto forse il deprezzamento o discredito della seconda in questo passaggio a dir poco confuso e tormentato del Paese, dove gli equilibri fra i partiti e gli schieramenti, e all’interno di essi, sembrano dei birilli.
Scalfari -con la complicità silenziosa dell’intervistatore, interessato ad accreditare una certa continuità della sua direzione rispetto alla linea e persino agli umori del fondatore, non foss’altro per smentire quanti invece sottolineano e a volte lamentano differenze imposte da una nuova linea dettata dall’altrettanto nuova proprietà Elkann-Agnelli- ha riproposto il riformismo e il
liberalsocialismo come riferimenti costanti della sua lunga attività giornalistica. Ed è tornato a inserire il compianto Enrico Berlinguer, che soleva frequentare a casa, sua o del portavoce Antonio Tatò, tra i riformisti più convinti e apprezzabili, erede quasi di Carlo Rosselli e forse anche di Filippo Turati, pur
non menzionato quest’ultimo. Così come non è stato mai menzionato nell’intervista l’inviso Bettino Craxi, che pure ebbe proprio sul riformismo uno scontro durissimo con Berlinguer, conclusosi storicamente e politicamente, secondo esponenti del vecchio Pci come Piero Fassino in un libro autobiografico, a vantaggio del leader socialista. Che vide prima e contro un certo conservatorismo berlingueriano la necessità, fra l’altro, di una riforma istituzionale.
Ma la memoria, diciamo così, ha tirato un altro brutto, anzi bruttissimo scherzo a Scalfari. Che è tornato, fra
l’altro, ad attribuire al povero Moro, parlando di un incontro avuto con lui “poco prima” del giorno del suo tragico sequestro ad opera delle brigate rosse, il progetto di una vera e propria alleanza col Pci “per due legislature”, e non di una tregua di breve durata, espressasi con l’astensione e poi il voto di fiducia vera e propria dei comunisti a un governo interamente democristiano presieduto da Giulio Andreotti. Peccato, per Scalfari, che proprio in quei giorni Moro da presidente della Dc aveva chiuso una lunga trattativa col Pci sbarrandogli la porta del governo socchiusa invece da Andreotti e dall’allora segretario democristiano Benigno Zaccagnini con l’ipotesi di nomina a ministri di due indipendenti di sinistra eletti nelle liste comuniste.
Moro non solo chiuse quella porta ma si oppose anche all’estromissione dal governo di due democristiani contro cui il Pci aveva posto il veto: Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia. La loro conferma provocò una tale irritazione fra i comunisti da mettere in discussione il voto di fiducia appena concordato. Solo il sequestro di Moro, la mattina del 16 marzo 1978, arrestò la rivolta nel Pci ed evitò la riapertura della crisi.
In quei giorni, secondo i ricordi di Scalfari, addirittura Enrico Berlinguer sarebbe già morto, con sei anni di anticipo. Almeno questa, forse, l’intervistatore poteva risparmiargliela al fondatore interrompendolo, o intervenendo dopo. Invece ha preferito lasciargliela lì. Tanto, specie in questi tempi tutto fa cultura, e non solo politica.
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agganciare sulla parete della crisi la corda con la quale sta cercando di arrivare alla vetta. Che, secondo anticipazioni virgolettate attribuitegli sulla Stampa il 31 dicembre e non smentite, è costituita da questa alternativa: “O un governo retto da uno del Pd o arriva Mario Draghi”.
pandemia: i vaccini e l’aiuto economico comunitario”. Che l’ex presidente del Consiglio teme venga invece “sperperato” dal governo, come ha detto nell’aula del Senato pur approvando il bilancio, con una politica troppo assistenzialistica, di mance e sussidi, imposta a Conte dai grillini insieme al rifiuto di usare i 36 miliardi di credito del cosiddetto Mes per il potenziamento del servizio sanitario. Di fronte alla convergenza, secondo Renzi, fra le contestazioni sulle quali egli sta facendo maturare la crisi e le necessità indicate nel suo messaggio da Mattarella “Italia Viva ringrazia il presidente della Repubblica”.
sul rischio di elezioni anticipate, avvalorato da indiscrezioni giornalistiche sulle intenzioni del Colle, Renzi rispose: “Il Quirinale in Italia non parla. Quelle sono fonti attribuite a chi vuole che dica una certa cosa. Ma in Italia il sistema prevede che il presidente della Repubblica debba verificare se in Parlamento ci sono i numeri per formare un altro governo. E se si trovano, è fatta. Altrimenti si vota”.
ancora segretario del Pd. Se non si vuole pensare persino a una vendetta, considerando che nel 2015 era stato Renzi a selezionare Mattarella per il Quirinale, si può ben dire che in politica accade di vedere posizioni intrecciarsi e capovolgersi. Adesso è Renzi a contrastare il voto anticipato e Mattarella disposto -secondo alcuni- a concederlo sperando così di rafforzare la posizione assai in pericolo di Conte.