Il perimetro delle sub-consultazioni affidate dal presidente della Repubblica al presidente della Camera parla da solo. Si è di molto ridotta la “riconciliazione nazionale” auspicata da qualcuno
quando Giuseppe Conte si rassegnò alla verifica di governo reclamata con particolare insistenza dal solito Matteo Renzi, con minore vigore dall’altrettanto solito Nicola Zingaretti, e prese a gestirla con una paura e un’ambiguità tali da lasciare prevedere la crisi a chi ha una certa esperienza della politica. Da “nazionale” è diventata, o sta diventando se vogliamo cautelarci per la obbiettiva imprevedibilità di tanti protagonisti e attori della crisi, la riconciliazione o salvezza, se preferite, della maggioranza giallorossa realizzatasi a sorpresa nell’estate del 2019.
Si potrebbe persino tirare un sospiro di sollievo per come si erano messe le cose quando Renzi ritirò la delegazione della sua Italia Viva dal governo e Conte fece l’offeso, evitò le dimissioni e si propose di “asfaltare” in pochi giorni, come disse il portavoce Rocco Casalino, l’ambizioso sfidante racimolando al Senato per una votazione di fiducia tanti “volenterosi”, “responsabili”, “patrioti” e quant’altro da lasciare all’opposizione e spaccare il gruppo renziano precedentemente decisivo.
Visto il fallimento della ricerca dei soccorsi, ci sarebbe toccata una riconciliazione ancora più ristretta, e quindi finta. Avremmo dovuto abituarci a vivere ordinariamente, non eccezionalmente come accaduto in altri momenti della storia della Repubblica, con un governo di minoranza perché a maggioranza solo relativa in uno dei rami del Parlamento. Adesso, se gli incontri di Fico si concluderanno positivamente entro martedì, si può almeno contare sul ripristino
della maggioranza assoluta. In cui Conte, se riuscirà a fare il davvero il suo terzo governo o Renzi non riuscirà a impedirglielo con altre mosse del cavallo sulla sua scacchiera, dovrà rassegnarsi a un’Italia viva integra e determinante come prima, se non di più a causa del rischio che alcuni senatori grillini in rivolta non si lascino persuadere alla moderazione e contestino quindi la fiducia.
Il ripristino di un po’ d’ordine o di quiete nel Movimento 5 Stelle resta la parte più delicata, anche se meno visibile o meno dichiarata, della missione esplorativa condotta dal presidente non a caso grillino della Camera. Che formalmente ha messo i suoi colleghi di partito -o quasi partito- sullo stesso piano degli altri, ascoltandoli dall’altra parte del tavolo nella sala di Montecitorio adattata agli incontri con le misure anti-Covid. Ma le esplorazioni potrebbero svolgersi più dietro che davanti alle quinte. Negarlo sarebbe solo un inutile esercizio di ipocrisia.
Certo è che il reggente Vito Crimi già dopo il primo incontro ufficiale con Fico, all’uscita, si è spinto oltre
l’apertura a Renzi nelle consultazioni al Quirinale, che pure aveva provocato le reazioni minacciose dei vari Di Battista, Lezzi e Morra sotto le 5 stelle. Egli ha escluso dall’elenco delle questioni, diciamo così, divisive ma indisponibili nelle trattative di governo quella della giustizia. Le ha limitate alla conferma dell’”indiscutibile” Conte a Palazzo Chigi
e al rifiuto dei crediti europei noti con la sigla del Mes per il potenziamento del servizio sanitario nazionale. Ebbene, se sulla giustizia si potrà discutere senza preclusioni sarà dura per il pur grillino Alfonso Bonafede ottenere la conferma a guardasigilli.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
“prospettiva” di governo avvertita in 32 ore di colloqui avuti al Quirinale con i rappresentanti di tutte le forze politiche: un governo -ha precisato- provvisto di un “adeguato sostegno” parlamentare a partire dalla maggioranza uscente, prima che si dissolvesse naturalmente per il disimpegno di Matteo Renzi e della sua Italia Viva.
egislatura, ha naturalmente accettato di buon grado impegnandosi a riferire entro martedì. E’ un termine persino lungo, visto che le sub-consultazioni di cui è stato incaricato riguardano solo formalmente i partiti e gruppi della maggioranza e i “volenterosi” che si aggiungeranno: non molti come si aspettava il presidente dimissionario del Consiglio Giuseppe, Conte cercando di arruolarli anche di persona a Palazzo Chigi, e soprattutto non tanti per ora da rendere non più determinanti i voti dei renziani al Senato. Solo formalmente, dicevo, perché in realtà i problemi di tenuta emersi durante ma non direttamente dalle
consultazioni provengono solo o soprattutto dal Movimento 5 Stelle. Dove il solito ex deputato Alessandro Di Battista ma anche alcuni parlamentari, fra i quali la senatrice ed ex ministra Barbara Lezzi, hanno contestato il “cambiamento di posizione”, secondo loro, espresso dal reggente scaduto Vito Crimi al presidente della Repubblica garantendo la disponibilità a riprendere l’alleanza con Renzi.
farlo di persona, nè poteva pensare a un esploratore, o pompiere, paciere e quant’altro più appropriato, nella speranza che abbia, oltre al tempo generosamente assegnatogli, acqua abbastanza a sua disposizione perché il partito di cosiddetta maggioranza relativa di questa diciottesima legislatura non diventi un inferno peggiore di quello che ha cominciato ad essere dalla
i suoi avversari, che peraltro non sono pochi e spesso sono persino sorpresi dalla palla che ricevono da lui in questa interminabile partita della crisi di governo formalizzatasi con le tardive dimissioni dal presidente del Consiglio. Che avrebbero potuto bastare al leader di Italia Viva per cantare vittoria. Invece non sono bastate. E non è bastata neppure una telefonata di mezz’ora ricevuta prima di salire al Quirinale per le consultazioni da Giuseppe Conte, che pure si era proposto più o meno pubblicamente di non avere più rapporti con lui per l’asprezza delle critiche ricevute, e dell’accusa di essere ormai un “vulnus” per la democrazia.
sull’istante a quel posto, trattenuto forse solo dal ricordo di essere stato politicamente mandato al Quirinale proprio da Renzi nel 2015 col lancio della sua candidatura, anche a costo di rompere il famoso “patto del Nazareno” con Silvio Berlusconi, ha dimostrato di essere un Giobbe dei nostri tempi.
del presidente reincaricato la responsabilità di un veto che non ha avuto il coraggio di porre chiaramente nelle consultazioni al Quirinale. Che non è ancora o soltanto un museo ma la sede della Presidenza della Repubblica, con tanto di bandiere al vento, quando soffia, e di corazzieri splendenti.
giudiziaria, alimentando l’impressione che fossimo venuti a capo capo di quella tragica stagione per merito soprattutto dei magistrati. Che avevano lasciato peraltro sul campo, quasi a dimostrazione dell’assunto, più vittime dei politici, anche se non celebri come le seconde, specie col sequestro e infine l’assassinio di Aldo Moro, nel 1978.
qualche modo considerare inevitabile una reazione giudiziaria più tempestiva di quella politica. Sarebbe stata invece tutta montata, mediaticamente e giudiziariamente, l’emergenza “morale” invocata per giustificare dal 1992 in poi l’applicazione quanto meno anomala dei codici penale e di procedura penale, abusando a tal punto, per esempio, dell’arresto durante le indagini preliminari da fare sbottare anche un ex magistrato come l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, peraltro ministro dell’Interno nei suoi governi, fra il 1983 e il 1987.
sulla relazione annuale del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, nel 1994 il presidente della Repubblica non mosse obbiezione alcuna ad un decreto legge varato dal primo governo di Silvio Berlusconi, ancora fresco di nomina, per dare una stretta alle cosiddette custodie cautelari.
Ad essi invece il presidente della Repubblica si era accodato -pace all’anima sua- l’anno prima rifiutando la firma ad un decreto legge predisposto dal primo governo di Giuliano Amato per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli: provvedimento che pure era stato concordato col Quirinale, articolo per articolo, o addirittura comma per comma, tra numerose interruzioni di un Consiglio dei Ministri poi raccontato come testimone da Sandro Fontana, il compianto ex direttore del giornale ufficiale della Dc Il Popolo.
legge, e a condividere quindi le proteste delle toghe milanesi, provvide invece la Lega di Umberto Bossi. Che ordinò personalmente al pur riluttante ministro dell’Interno
Roberto Maroni, peraltro avvocato, di dichiarare di non avere letto o capito bene il decreto prima di firmarlo con il guardasigilli, o addirittura di avere firmato qualcosa di diverso da quello poi visto sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica. Berlusconi abbozzò, senza peraltro riuscire a sottrarsi ad una crisi che sarebbe scoppiata dopo alcuni mesi, sempre per iniziativa della Lega ma sul tema pensionistico reso incandescente dalle proteste dei sindacati contro una riforma in cantiere.
segretario del Pci e primo del Pds-ex Pci Achille Occhetto. Il quale, evocando qualche tempo fa la fatica da lui fatta per salvare il suo partito dal crollo del muro di Berlino, si è lasciata scappare una confessione tanto onesta quanto tragica per capire e valutare quegli anni.
finestre della sede nazionale del suo partito- ammise che il colpo di grazia a quell’impresa venne dalla pur “meritoria” e “obbligata” azione giudiziaria chiamata “Mani pulite”. Che si estese rapidamente da Milano ad altre Procure, con eccessi lamentati di recente persino da Antonio Di Pietro, il magistrato simbolo di quell’inchiesta.
per la sua natura di scorpione sulla rana della celebre favola, Nicola Zingaretti ha prestato la senatrice di cui avevano bisogno i “volenterosi” ed “europeisti” per costituire a Palazzo Madama il nuovo gruppo voluto da Giuseppe Conte. Che aspira a diventare così numeroso da rendere non più determinanti i parlamentari renziani.
continuerà ad essere il Pd. Dove quindi conta di tornare dalla trasferta non appena saranno arrivati al nuovo gruppo i senatori mancati sinora.
Rossi: la senatrice unitasi alla maggioranza nell’ultima votazione di fiducia a Conte e affrettatasi naturalmente ad arruolarsi nel nuovo gruppo degli
europeisti del Maie-Centro Democratico, contribuendo con la Roic a farlo nascere in tempo per esordire al Quirinale nelle consultazioni per la soluzione della crisi. E al tempo stesso riuscendo ad impedire di fatto, e a grande sorpresa, l’adesione della senatrice Alessandrina Lonardo, la moglie di Clemente Mastella che pretendeva il nome del movimento di famiglia “Noi campani” nella intestazione del nuovo gruppo.
modo nelle consultazioni di Sergio Mattarella ha proposto una sua soluzione alla crisi che Marco Travaglio ha definito sul Fatto Quotidiano “la più demenziale
del mondo” per la piega che sta prendendo, ben diversa dalle sue indicazioni, speranze, direttive ai grillini e quant’altro. In particolare, Scalfari per sottrarre la crisi alle “carezze e ceffoni” di Renzi ha proposto al presidente della Repubblica di richiamare da Bruxelles Paolo Gentiloni, ora commissario europeo all’Economia, e restituirgli il palazzo consegnato a Conte nel 2018.
la sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale firmata come presidente del Consiglio, il conte -stavolta al minuscolo- Gentiloni spalleggiò Mattarella nel rifiuto delle elezioni anticipate. Che avrebbero scongiurato la cocente sconfitta elettorale dell’anno successivo al Pd rimasto a Renzi dopo la scissione dei Bersani, D’Alema, Speranza e compagni.
presidente della Camera Roberto Fico, contro i dieci o poco più bastati per l’incontro con la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per le visite informative di rito in apertura finalmente formale della crisi. Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli.
nuovo gruppo dei “responsabili” in cantiere, e da lui prospettato a Mattarella per accreditare la propria candidatura al reincarico per un governo che ha già chiamato di “salvezza nazionale”. O, se avesse voluto profittare polemicamente dell’occasione, per chiedere alla sua interlocutrice se fosse soddisfatta delle sue dimissioni, dopo tutte le urticanti uscite della signora contro di lui. Che sono state solitamente incassate da Conte in un silenzio compensato dagli attacchi dei suoi sostenitori per la neutralità violata dalla presidente forzista del Senato.
essere “nelle mani” non solo di Renzi, come ha titolato Repubblica, e dei “pugnalatori” del Pd, come ha titolato Il Fatto Quotidiano con le foto del ministro Lorenzo Guerini e del capogruppo del Senato Andrea Marcucci, ma anche dei grillini, appunto. Che pure con lui, come su tante altre cose, non sono più quelli di prima, specie se il sostegno al presidente dimissionario del Consiglio dovesse davvero costare lo scioglimento delle Camere dove essi siedono ancora in tanti.
nella sua gestazione che è francamente difficile trovarne una simile nella lunga storia, ormai, della Repubblica. Quella che forse gli assomiglia in qualche modo di più riguardò il primo governo pentapartito di
Bettino Craxi, nel 1986. Essa maturò nella convinzione pubblicamente espressa dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita che il leader socialista fosse “inaffidabile”: la stessa cosa detta questa volta da Conte e dai suoi sostenitori su Matteo Renzi per la rottura ostinatamente cercata col presidente del Consiglio.
socialista in quella occasione, come avrebbe voluto il segretario della Dc. La crisi riscoppiò otto mesi dopo, il 9 aprile 1987, scegliendo tuttavia De Mita come ragione principale non più o non tanto la rivendicazione di Palazzo Chigi, che sapeva troppo di potere, quanto il rapporto con la magistratura. La miccia fu insomma il tema della giustizia contro cui ha finito per sbattere in questi giorni anche Conte per via della relazione annuale del guardasigilli Alfonso Bonafede al Parlamento. Su cui ora, per la sopraggiunta crisi, mancheranno il temuto dibattito e le ancor più temute votazioni fra Camera e Senato.
meno, reclamata dai garantisti con la definizione di tempi certi che rendano effettivamente “ragionevole” la durata dei processi assicurata nell’articolo 111 della Costituzione. Allora lo scontro si consumò rovinosamente sul referendum già indetto per la responsabilità civile dei magistrati, promosso dai radicali, sostenuto dai socialisti e contrastato dal sindacato delle toghe e da tutte le sue sostanziali appendici politiche.
Camere nel 2008, dopo le dimissioni del guardasigilli Clemente Mastella per protesta contro l’arresto della moglie, sottoposta a indagini che sarebbero costate la sopravvivenza del partito di famiglia. Ma è lo stesso Mastella a negare tuttora questa rappresentazione dei fatti attribuendo quella caduta di Prodi alla estrema sinistra rappresentata dal senatore Franco Turigliatto.
politicamente affondandone con minacciate dimissioni nella Procura di Milano la cosiddetta “uscita da Tangentopoli”, tentata con un decreto legge cui l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro negò la firma. Essa piuttosto -sempre la magistratura- è riuscita dopo a fare ancora di più e di peggio condizionando gli sviluppi degli equilibri politici con l’indebolimento di protagonisti, leader e attori e il conseguente rafforzamento degli avversari di turno.
della Procura di Milano per corruzione quando già Umberto Bossi aveva però azionato il congegno della crisi sul tema delle pensioni. Ma ancor prima -va detto- lo stesso Bossi aveva obbligato il Cavaliere di Arcore a subire lo stop imposto dai magistrati milanesi al decreto legge, pur già regolarmente firmato da Scalfaro, per la restrizione del ricorso alle manette nelle indagini preliminari.
una crisi finalmente formalizzata. Egli ha indicato già col titolo di prima
pagina il finale della partita: il ritorno “a casa” di Conte e l’ascesa al Quirinale, magari dopo un turno anticipato di elezioni politiche e la vittoria del centrodestra, dell’odiato B inteso naturalmente come Silvio Berlusconi. Cui Matteo Salvini avrebbe già “prenotato” la poltrona oggi di Sergio Mattarella.
zampe sui 209 miliardi del Recovery fund”. E ciò avverrebbe “piazzando a Palazzo Chigi l’ennesimo prestanome”. Così tutti i possibili successori di Conte, non potendosi ritenere scontato -come vedremo- un suo reincarico, sono bollati: marionette dei “poteri marci” che gli amati grillini non sono evidentemente riusciti a rottamare nei quasi tre anni della legislatura di cui ancora si considerano “la colonna”, come si è appena vantato il reggente Vito Crimi reclamando un nuovo governo
di Conte. Che tuttavia, a leggere Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, non si fida più neppure del Movimento 5 Stelle. La cui situazione interna in effetti è a dir poco caotica, temendo tutti a morte quelle elezioni anticipate che invece reclamano come minaccia per chi contesta il loro ruolo ancora centrale nel Parlamento eletto nel 2018.
su Repubblica ha definito “grandi manovre” di Conte tradottesi in “piccoli numeri”. Che peraltro si sono rivelati insufficienti a garantire il primo appuntamento che il governo, scampato alla sfiducia pochi giorni fa al Senato, aveva col Parlamento tra domani e dopodomani: il voto sulla relazione annuale del guardasigilli e capo della delegazione grillina Alfonso Bonafede relativa allo stato della giustizia in Italia.
quirinalista del Corriere della
Sera Marzio Breda ha scritto, fra l’altro, che “non è scontato” il conferimento del “nuovo incarico” che si aspetta Conte. Cui potrebbe mancare addirittura la designazione dei pochi “volenterosi” raccolti durante il sequestro della crisi o rimasti sospesi per aria.
Era naturalmente Gianni Agnelli, compiaciutissimo di una professione attribuitagli coram populo ma mai davvero esercitata. Erano compiaciuti, in fondo, anche gli avvocati patrocinanti in ogni grado della giurisdizione di una colleganza inventata mediaticamente perché procurava vantaggi pure a loro. “L’Avvocato” padrone della Fiat dava solidità anche alla professione forense, oltre alle macchine, ai guadagni e al potere che la sua azienda produceva e diffondeva.
di tutto e di tutti dall’alto in basso. Egli era riuscito a fare breccia persino nella sinistra con la teorizzazione degli interessi della sua Fiat coincidenti con quelli generali del Paese, per cui doveva essere conveniente a tutti assecondarli: oggi con un incentivo, domani con una sovrattassa sulle auto della concorrenza, quando a Torino, per esempio, non erano ancora bene attrezzati per il deasel, e doman l’altro con qualche strada o autostrada preferita ad una scuola o ad un ospedale.
Consiglio a 48 ore forse da una crisi questa volta formale, con tanto di dimissioni e passaggio della parola e delle decisioni al capo dello Stato lasciato da troppo tempo alla finestra. E attribuisce sempre a Conte ciò che ieri contestava invece al vice segretario del Pd Andrea Orlando: la richiesta al guardasigilli e capo della delegazione pentastellata al governo, Alfonso Bonafede, di un aiuto. Che consisterebbe nella presentazione imminente alle Camere di una relazione sullo stato della giustizia che tenga conto della fragilità, a dir poco, della maggioranza e conceda qualcosa ai garantisti che da più di un anno aspettano una compensazione della prescrizione breve, ora prevista sino al primo grado di giudizio.
continua anche a rilasciare dichiarazioni sull’alternativa fra Conte e Bonafede da una parte e le elezioni anticipate dall’altra senza però convincere molti dei grillini. Alcuni dei quali sono usciti anche allo scoperto, ben consapevoli della possibile decimazione del Movimento 5 Stelle e perciò
sensibili a maggiore realismo e responsabilità, anche riaprendo a Renzi. Se n’è reso conto lo stesso Bonafede, di cui Il Messaggero ha riferito in prima pagina, con buone informazioni, il rifiuto o la paura di diventare il capro espiatorio di questa curiosa crisi non crisi gestita con ostinazione da Conte. Che pure deve a lui l’adozione grillina che l’ha portato a Palazzo Chigi.