Con un po’ di buona volontà potrebbe anche considerarsi un contributo alla rilettura della vicenda politica di Bettino Craxi, nel ventesimo anniversario della sua morte, la versione di “Mani pulite” che uno dei protagonisti di quella famosa indagine, Antonio Di Pietro, ha volto offrirci in una lunga intervista all’Espresso.
“Dovete smetterla” è sbottato ad un certo punto l’ex magistrato riferendosi a quanti ancora indicano in Craxi -come, per inciso, è tornato a fare Marco Travaglio domenica sul suo Fatto Quotidiano- il massimo esponente di quella specie di criminalità politica decimata negli anni Novanta, insieme con la cosiddetta prima Repubblica, dalle inchieste e dai processi sul finanziamento illegale dei partiti.
Craxi secondo Di Pietro “era un normale politico, come tutti gli altri, ha fatto quello che hanno fatto anche gli altri”. “Non è che ha agito diversamente. Lo ha ammesso anche lui. Non c’è una differenza, non fatelo più grosso di quello che è”, ha insistito l’ex magistrato parlando del leader socialista ancora al presente, forse proprio per attaccarsi meglio alle cronache che hanno contrassegnato in questi giorni le celebrazioni dei 20 anni dalla sua morte in terra tunisina.
Di Pietro in un passaggio della sua intervista, a proposito delle strade o piazze che qualcuno vorrebbe dedicargli in Italia, è riuscito anche a parlare di Craxi come di un “esule”, anziché di un latitante: qualifica preferita invece dagli avversari più irriducibili anche a vent’anni dalla sua morte.
Se era “come gli altri” attori di Tangentopoli, resta naturalmente da sapere e chiarire perché a Craxi fu riservata quella “durezza senza uguali” riconosciuta dieci anni fa dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: una durezza, come mi è già capitato di scrivere sul Dubbio, che conferma l’impressione di un trattamento da capro espiatorio riservato al leader socialista.
Nell’assolversi dall’accusa di essere stato un persecutore di Craxi – e anche da quella dei craxiani di essere stato lui un addetto, o qualcosa del genere, dei servizi segreti nel perseguimento di chissà quale operazione politica, magari dividendosi fra gli Stati Uniti e qualche loro ufficio diplomatico in Italia- Di Pietro ha raccontato che, in realtà, da inquirente egli pensava o aspirava a chiedere più l’arresto di Giulio Andreotti che quello del leader socialista. E ciò per via delle notizie e quant’altro raccolte occupandosi per un certo tempo di mafia e appalti e di 150 milioni di lire fatte versare da Enimont a Salvo Lima, il capo degli andreottiani siciliani. Era di quello, in particolare, che Di Pietro avrebbe voluto parlare con Raul Gardini nell’interrogatorio al quale l’imprenditore si sottrasse il 23 luglio 1993 uccidendosi.
Mi ero fermato, a proposito dell’indagine siciliana su mafia e appalti, all’intreccio con la vicenda della “trattativa” fra la stessa mafia e lo Stato, ancora aperta giudiziariamente a Palermo in sede d’appello. Ora Di Pietro ce la propone anche come una specie di filone centrale da lui perduto per ragioni di competenza, a favore della Procura di Palermo, per cui “Mani pulite” sarebbero rimaste o diventate quasi un’appendice, o una vicenda parallela e forse persino minore. Clamoroso, quanto meno.
Pubblicato su Il Dubbio
sventurati passeggeri fra diversi paesi europei. Egli ha omesso invece di ripetere, come gli accadde nel momento della rottura con Salvini, poco dopo quella vicenda, di avere trascorso quasi tutti i fine-settimana della sua presidenza del Consiglio al telefono con gli omologhi europei per chiedere “il piacere personale” di prendersi carico di una parte dei migranti approdati sulle coste italiane. Forse si è reso conto che con quella storia del “piacere personale” non aveva fatto una gran bella figura come capo di un governo che perseguiva il riconoscimento, da parte dell’Unione Europea, dell’obbligo di una ripartizione dei disperati in cerca di asilo e altri aiuti.
in digiuno dimostrativo, ha laconicamente risposto a Conte: “Ne parleremo in tribunale”. Che è cosa chiaramente diversa dal parlane nell’aula del Senato. Salvini cioè ha intenzione di portare Conte, e con lui tutto il governo e metaforicamente anche la maggioranza, al processo quanto meno come teste, ma con la possibilità di fare anche di lui un indagato e poi imputato, con tutte le procedure particolari dei reati ministeriali, se il presidente del Consiglio non riuscirà a convincere i giudici della sua estraneità alla gestione della vicenda oggi contestata solo all’allora ministro dell’Interno.
registrano un’altra suspence sulle intenzioni e sul destino di Luigi Di Maio, ritentato -dopo le smentite opposte al Fatto Quotidiano, che giustamente esulta parlando di “mossa del cavallo”- dalle dimissioni da capo del Movimento 5 Stelle, ma non da capo della delegazione grillina al governo.
A quella all’Espresso è pertanto seguita un’intervista di Di Pietro a Gianni Barbacetto, appunto per Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. In essa però non sono state chieste a “Tonino” maggiori delucidazioni sul filone d’indagine riguardante la mafia e trattato dalla Procura di Milano prima che la competenza fosse rivendicata con successo dalla Procura di Palermo. No. A Barbacetto e al suo giornale interessava far tornare a parlare Antonio Di Pietro di Bettino Craxi per riproporne l’immagine di “latitante” e di criminale simbolo di Tangentopoli, ridotto invece nell’intervista all’Espresso dell’ex magistrato a “uno dei tanti”, che faceva “come tutti”.
la tattica adottata, in particolare, dal Pd di fronte a questa tortuosa vicenda politica e giudiziaria, pur nell’apparente stranezza di quel titolo quasi a tutta pagina col quale
anche il giornale –la Repubblica– ha tenuto a sottolineare il carattere, diciamo così, paradossale della decisione di Salvini di firmarsi da solo la condanna, diciamo così, al
processo. Che tuttavia non significa condanna scontata nel processo, anche se il leader leghista lascia credere, nell’ultima settimana della campagna elettorale in una regione così significativa o decisiva come l’Emilia-Romagna, di essere rassegnato, anzi smanioso di perdere la causa proponendosi come vittima, un neo-Silvio Pellico
pronto a scrivere il diario della sua prigionia. E il vignettista Vauro sul Fatto Quotidiano lo affida sarcasticamente, giocando sul nome della nave bloccata per ordine di Salvini allora al Viminale, alla protezione di “Santa Maria Gregoretti”, sotto un titolone peraltro in cui i leghisti vengono liquidati come “pagliacci”.
adesso contro l’ex ministro dell’Interno. Che Giannelli però, in sintonia con i dubbi di Folli su Repubblica, ha dipinto o immaginato sulla prima pagina del Corriere della Sera davanti a un plotone di esecuzione puntandone i fucili non contro l’imputato ma contro i capi dei due maggiori partiti di governo: Nicola Zingaretti e il grillino Luigi Di Maio.
a “monitorare” anche con i nostri militari la tregua tra chi si contende con le armi il controllo effettivo di quel paese in cui si giocano molti interessi economici e politici dell’Italia, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte deve intanto monitorare in questa settimana la salute del suo governo alle prese con le elezioni regionali di domenica prossima in Emilia-Romagna. Esse sono diventate un passaggio decisivo per la sopravvivenza della maggioranza giallorossa, in grado probabilmente di incassare senza conseguenze una sconfitta in Calabria, dove pure si voterà il 26 gennaio, molto meno nella regione storicamente roccaforte della sinistra. Lo ha fatto capire con franchezza l’insospettabile, ed emiliano, capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio accompagnando la fiducia d’ufficio, diciamo così, nella vittoria della propria parte politica con questa ammissione: “Se si perde, saranno problemi”. Sì, saranno problemi a cominciare dal segretario del Pd Nicola Zingaretti per finire con i grillini, la cui crisi interna, già grande di suo, si aggraverebbe con quella della maggioranza di governo.
raduno propiziatorio della sconfitta dell’ex ministro dell’Interno. Le sardine, si sa, piacciono molto in questa stagione politica al Pd, che pensa di rifondarsi anche col loro sapore, e cominciano ad essere corteggiate anche dai grillini o dai loro vertici, le cui attenzioni sono state rivelate pubblicamente dagli stessi interessati. Ma nessuno sa veramente se questi rinforzi basteranno a contenere l’assalto politico di Salvini, cui è stato imprudentemente regalata una gestione alquanto pasticciata, francamente, del processo chiesto contro di lui dal tribunale dei ministri addirittura per sequestro di persona in ordine al cosiddetto “affare Gregoretti”. Che fu nella scorsa estate una variante, a dir poco, dell’analogo “affare Diciotti” dell’anno precedente, chiusosi col no anche dei grillini al processo riconoscendo l’enormità dell’accusa di fronte ad una politica di contenimento dell’immigrazione clandestina, e relativi sbarchi sulle coste italiane, condotta dall’allora maggioranza gialloverde.
spiegato la sua legale e collega di partito Giulia Bongiorno. La quale proprio in nome di questo obiettivo ha finito per condividere la tattica scelta questa volta dal leader leghista, opposta a quella da lei consigliatagli nell’affare Diciotti per avvalersi dell’immunità parlamentare riservata ai cosiddetti reati ministeriali dall’articolo 96 della Costituzione ed evitare il processo.
di ricordare a suo modo Bettino Craxi nel ventesimo anniversario della morte ad Hammamet. Dove sono corsi in tanti dall’Italia in questi giorni per onorare la memoria del leader socialista, sentendolo e riproponendolo come il capro espiatorio di una vicenda che già indusse dieci anni fa l’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, a denunciare in una lettera pubblica la “durezza senza uguali” praticata contro di lui dai tribunali, dai giornali e dalla politica. Si vollero insomma usare indagini e processi più per liberarsi di Craxi che per fare davvero giustizia.
rivoltegli allora su Repubblica da Eugenio Scalfari, è chiaro e difforme dalla rappresentazione fattane proprio oggi sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio. Che
e non so cos’altro in futuro- “faceva come tutti: siccome quello era il sistema, una quota se la tenevano per loro e ci facevano quel che ci dovevano fare, a fini personali. Era un normale politico, come tutti gli altri, che ha fatto quello che hanno fatto anche gli altri. Non è che ha agito diversamente. L’ha ammesso anche lui. Non c’è una differenza, non fatelo più grosso di quello che è”, o era. Solo che, al netto di quei “fini personali”, su cui magari i familiari di Craxi avranno qualcosa da dire o ridire, visto che non sembrano avere ereditato chissà quali ricchezze, egli si vide riservare sul piano giudiziario, mediatico e politico quella “durezza senza uguali” lamentata con franchezza dieci anni, ripeto, dall’allora presidente della Repubblica: una durezza da capro espiatorio.
presidente di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che presiedendo la giunta del regolamento ha usato il diritto, che non ha mai perduto, di votare per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Proprio così aveva fatto qualche giorno prima alla Camera la presidente grillina della Commissione Giustizia provocando la bocciatura della proposta del centrodestra, sostenuta anche dalla componente renziana della maggioranza, di bloccare il blocco, o sopprimere la soppressione, scusate il bisticcio verbale, della prescrizione dei reati con l’emissione della sentenza di primo grado nei processi penali.
ma è un’opinione come un’altra. I fatti restano quelli che sono, conformi alla lettera e, direi, anche allo spirito del regolamento. Se si è convinti del contrario, si
ponga mano alle norme regolamentari e si cambino. Buttare il pallone fuori campo e fischiare contro l’arbitro non serve a nulla, anche se si riesce a divertire qualche vignettista, com’è accaduto stavolta sul Corriere della Sera, sul Foglio e sulla Gazzetta del Mezzogiorno.
sfidò all’arrembaggio delle coste italiane per scaricarvi ad ogni costo i “suoi” migranti- non vi dirò nulla più di quanto non abbia scritto e detto uno dei più loquaci e agguerriti sostenitori dell’iniziativa giudiziaria catanese: il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Che pure dileggia chi vi si oppone per il solo gusto, secondo lui, di fare le linguacce, diciamo così, ai magistrati impedendo loro di fare il proprio mestiere, ostacolato evidentemente da un odioso, capriccioso, pretestuoso, scandaloso articolo della Costituzione che richiede una libera e preventiva valutazione del Parlamento per questo tipo di processi.
un po’ per l’interesse che ancora suscita la figura dell’unico presidente socialista del Consiglio nella storia d’Italia e un po’ per la straordinaria bravura dell’attore che lo ha interpretato. Ma il vero “ultimo Craxi”, credete a me che l’ho ben conosciuto e frequentato prima e dopo il suo ritiro ad Hammamet, è quello raccontato in poco più di 120 pagine ben scritte e documentate, ancora fresche di stampa, che si leggono d’un fiato. E che ti fanno venire spesso la pelle d’oca per quanto riescano ad essere toccanti. E’ l’omonimo libro di Andrea Spiri, pubblicato da Baldini+Castoldi, in cui il Craxi degli ultimi, sette anni drammatici della sua vita, dei quali sei trascorsi in Tunisia, è raccontato con le sue stesse parole, legittimamente virgolettate, che l’autore da storico di professione com’è ha saputo leggere e cogliere consultando le tante carte scritte di suo pugno o dettate al collaboratore di turno da Bettino -permettetemi di chiamarlo affettuosamente per nome, come facevo quando era vivo- negli interminabili giorni della sua solitudine, della sua struggente nostalgia dell’Italia, del ricordo dei torti subiti e degli errori compiuti. Fra i quali un peso decisivo
ha avuto anche la scelta di amici sbagliati, o di amici veri scambiati per avversari, come una volta gli rimproverai personalmente prendendo le difese di Ugo Intini, rappresentatogli da Roma al telefono da qualche sprovveduto come uno che trescava per tradire -all’incirca-la sua storia politica cincischiando con Massimo D’Alema.
approdò pur avventurosamente a Palazzo Chigi, con l’aiuto di Francesco Cossiga. E’ il D’Alema che poi, tragicamente, non ebbe il coraggio di scontrarsi pubblicamente con la Procura di Milano, oppostasi a un gesto umanitario verso un malato ormai terminale. Egli per giunta mandò un telegramma quasi anonimo di auguri, tramite l’ambasciata di Roma a Tunisi, al suo vecchio avversario politico uscito vivo, sì, ma ancora per poco da un difficile, disperato intervento chirurgico. Che avrebbe potuto avere migliore esito se compiuto in Italia.
alla morte: serenità, più ancora di rassegnazione, nella consapevolezza di una vita vissuta per il suo Paese e per la politica, pur ricambiato così male, anzi così atrocemente: un avverbio, quest’ultimo, che solo con una dose industriale di malafede si può rifiutare di adoperare per giudicare i metodi usati sul piano giudiziario e mediatico contro Craxi per farne il capro espiatorio di quel fenomeno generale e conosciutissimo del finanziamento illegale dei partiti, delle loro correnti, dei gruppi e dei singoli leader e leaderini.
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle scrivere una lettera alla vedova, e ai figli, non solo e non tanto per esprimere, come ha opportunamente ricordato Spiri all’inizio del suo lavoro, il proprio “turbamento” ricordando la morte solitaria di un uomo da lui ben conosciuto in vita, e per apprezzarne il contributo dato al governo del Paese e alla sinistra “italiana ed europea”.
sulla strada della cosiddetta Tangentopoli: “E’ un fatto – scrisse Napolitano- che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza uguali sulla sua persona”. In quella “durezza senza uguali” è scolpito come in un’epigrafe un severo giudizio pure sui magistrati, anche se costoro, i più diretti interessati, almeno quelli ancora in vita allora, fecero finita di non sentire, non leggere e non capire. Una durezza quando è “senza uguali” sconfina, signori miei, nella violazione del senso stesso della giustizia, che deve essere coniugata con l’equanimità.
che esplosa, la Corte Costituzionale a guida femminile, con Marta Cartabia, è implosa con il suo no al referendum leghista, chiamiamolo pure così, sulla legge elettorale tentato per rendere interamente maggioritario il metodo di elezione del Parlamento, alla maniera inglese.
vice presidente del Senato Roberto Calderoli, e al non leghista ma referendario
della prima ora Mario Segni, Mariotto per gli amici, fra i quali chi scrive. Che tuttavia ha dissentito francamente da lui dal primo momento perché convinto che abrogazione e manipolazione fossero, e siano, concetti non complementari ma alternativi, e incompatibili.
di ripristinare il sistema elettorale proporzionale, persino quella di Matteo Renzi, magari corretto con l’introduzione di una cosiddetta soglia di sbarramento. Al di sotto della quale i partiti o liste concorrenti ai seggi parlamentari escono dalla partita con la proclamazione dei risultati elettorali.
con un titolo sfottente verso il curioso alleato Matteo Renzi per avere votato con l’opposizione di centrodestra, ha festeggiato un po’ imprudentemente la vittoria conseguita nella commissione Giustizia della Camera. Dove con 23 voti contro 22, e il contributo decisivo della presidente pentastellata, è stata bocciata la proposta del berlusconiano Enrico Costa di sopprimere la soppressione della prescrizione -scusate il bisticcio delle parole- all’arrivo della sentenza di primo grado.
materia nel Pd, tempestivamente accusato da Matteo Renzi di essersi “grillinizzato”, o di essersi consegnato “in manette” agli alleati pentastellati, come ha titolato il Giornale della famiglia Berlusconi, il verdetto della commissione potrebbe essere rovesciato. E a quel punto la festa potrebbero celebrarla Renzi e il centrodestra.
Benedetto XVI e Francesco sul tema del celibato sacerdotale per un libro a doppia firma col cardinale africano Robert Sarah appena pubblicato in francese, la Repubblica ha ritenuto di poterla titolare, almeno all’interno, così: “Papa Francesco: con Ratzingher il caso è chiuso”. Chiuso, perché Benedetto XVI aveva annunciato il ritiro della firma dal volume per non vedersi e sentirsi arruolato fra gli antibergogliani: da Bergoglio, il cognome anagrafico del Pontefice regnante.
da parte del suo potente segretario e arcivescovo Georg Gansswein, che serve adesso in altro modo il nuovo Pontefice- ha autorizzato il cardinale africano a compensare il ritiro della sua firma dal libro con l’introduzione di una nota di esplicita approvazione del passaggio più significativo del volume riguardante l’intangibilità del celibato sacerdotale. Sono cose di Chiesa, diciamo così, analoghe a quelle della politica laica italiana, ma non solo, bisognerebbe aggiungere.