Al Fatto Quotidiano debbono essere rimasti colpiti, diversamente da gran parte degli altri giornali che l’hanno ignorata, la clamorosa intervista con la quale Antonio Di Pietro ha un po’ riscritto, diciamo così, la storia delle sue “Mani pulite”, inserendola in un’indagine più grande sugli affari della mafia. Con cui egli si proponeva di arrivare a Giulio Andreotti per via di 150 milioni di lire fatte avere dalla Enimont di Raul Gardini a Salvo Lima, prima naturalmente che il capo degli andreottiani siciliani venisse ucciso proprio dalla mafia.
A quella all’Espresso è pertanto seguita un’intervista di Di Pietro a Gianni Barbacetto, appunto per Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. In essa però non sono state chieste a “Tonino” maggiori delucidazioni sul filone d’indagine riguardante la mafia e trattato dalla Procura di Milano prima che la competenza fosse rivendicata con successo dalla Procura di Palermo. No. A Barbacetto e al suo giornale interessava far tornare a parlare Antonio Di Pietro di Bettino Craxi per riproporne l’immagine di “latitante” e di criminale simbolo di Tangentopoli, ridotto invece nell’intervista all’Espresso dell’ex magistrato a “uno dei tanti”, che faceva “come tutti”.
Almeno in parte Di Pietro ha soddisfatto le attese del suo nuovo intervistatore, ricaricando negativamente la figura del leader socialista morto vent’anni fa nel suo rifugio tunisino, non nascosto in chissà quale boscaglia come un fuggitivo. Almeno in parte, dicevo, perché alla fine anche Di Pietro ha ammesso che Craxi poteva pur considerarsi in esilio, essendo peraltro espatriato -aggiungo- con un regolare passaporto prima di essere condannato o prima che ne fosse ordinato il sequestro dalla magistratura, ma restando tuttavia un latitante per la legge. E ad un latitante non sarebbe giusto -ha convenuto stavolta Di Pietro- dedicare strade o piazze o altro ancora del suo Paese, diciamo così, di origine.
Deve essere stato peraltro un ben curioso latitante il leader socialista se dieci anni dopo la morte la sua memoria fu celebrata dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una pubblica lettera di elogi e di comprensione alla vedova, lamentando “la durezza senza uguali” del trattamento riservatogli dalla magistratura e quant’altri per il fenomeno diffusissimo, e da lui stesso ammesso, del finanziamento illegale della politica. Nel ventesimo anniversario della morte è stata invece appena annunciata, senza alcuna smentita, la volontà o decisione dell’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, di ricevere al Quirinale i rappresentanti della Fondazione che porta il nome di Bettino Craxi, a cominciare dalla figlia Stefania, senatrice della Repubblica e reduce dalle celebrazioni del padre ad Hammamet.
Così vanno le cose nella politica, nella magistratura e nei giornali di questa particolarissima parte del mondo che si chiama Italia.
la tattica adottata, in particolare, dal Pd di fronte a questa tortuosa vicenda politica e giudiziaria, pur nell’apparente stranezza di quel titolo quasi a tutta pagina col quale
anche il giornale –la Repubblica– ha tenuto a sottolineare il carattere, diciamo così, paradossale della decisione di Salvini di firmarsi da solo la condanna, diciamo così, al
processo. Che tuttavia non significa condanna scontata nel processo, anche se il leader leghista lascia credere, nell’ultima settimana della campagna elettorale in una regione così significativa o decisiva come l’Emilia-Romagna, di essere rassegnato, anzi smanioso di perdere la causa proponendosi come vittima, un neo-Silvio Pellico
pronto a scrivere il diario della sua prigionia. E il vignettista Vauro sul Fatto Quotidiano lo affida sarcasticamente, giocando sul nome della nave bloccata per ordine di Salvini allora al Viminale, alla protezione di “Santa Maria Gregoretti”, sotto un titolone peraltro in cui i leghisti vengono liquidati come “pagliacci”.
adesso contro l’ex ministro dell’Interno. Che Giannelli però, in sintonia con i dubbi di Folli su Repubblica, ha dipinto o immaginato sulla prima pagina del Corriere della Sera davanti a un plotone di esecuzione puntandone i fucili non contro l’imputato ma contro i capi dei due maggiori partiti di governo: Nicola Zingaretti e il grillino Luigi Di Maio.