Falliti i tentativi di impedire alla giunta delle immunità del Senato di votare lunedì 20 gennaio, come da programma concordato in dicembre, sull’autorizzazione chiesta dal tribunale dei ministri di Catania di mandare sotto processo Salvini per “sequestro” dei circa 130 immigrati trattenuti per qualche giorno a fine luglio scorso a bordo della nave Gregoretti, della Guardia Costiera, la maggioranza giallorossa ha sollevato un polverone di polemiche contro la
presidente di Palazzo Madama, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che presiedendo la giunta del regolamento ha usato il diritto, che non ha mai perduto, di votare per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Proprio così aveva fatto qualche giorno prima alla Camera la presidente grillina della Commissione Giustizia provocando la bocciatura della proposta del centrodestra, sostenuta anche dalla componente renziana della maggioranza, di bloccare il blocco, o sopprimere la soppressione, scusate il bisticcio verbale, della prescrizione dei reati con l’emissione della sentenza di primo grado nei processi penali.
Si dirà che c’è differenza fra un presidente di commissione e un presidente di assemblea parlamentare, anche quando si presiede insieme l’una e l’altra, com’è appunto accaduto alla Casellati,
ma è un’opinione come un’altra. I fatti restano quelli che sono, conformi alla lettera e, direi, anche allo spirito del regolamento. Se si è convinti del contrario, si
ponga mano alle norme regolamentari e si cambino. Buttare il pallone fuori campo e fischiare contro l’arbitro non serve a nulla, anche se si riesce a divertire qualche vignettista, com’è accaduto stavolta sul Corriere della Sera, sul Foglio e sulla Gazzetta del Mezzogiorno.
Ora la maggioranza giallorossa, oltre che nascondersi dietro il polverone sollevato contro la presidente del Senato, è a un bivio, almeno sino al momento in cui scrivo. O essa fa rientrare dagli Stati Uniti i suoi due senatori della giunta delle immunità in missione di studio da parecchi giorni in quel Paese come commissari antimafia, e ristabilisce i rapporti di forza a suo favore per dire sì al processo a Salvini, proponendolo poi all’aula di Palazzo Madama, o lasciarli dove sono e farsi battere dal centrodestra in giunta con un no alla magistratura catanese. O, ancora, disertare tutta insieme la votazione della giunta per svilirne il risultato, riservandosi di rovesciare il risultato nell’aula sel Senato, a voto palese, dopo le elezioni regionali di domenica 26 gennaio in Emilia-Romagna e in Calabria.
Tutto questo, secondo i geni, i furbi, gli strateghi e quant’altro della maggioranza di governo dovrebbe impedire a Salvini di proporsi agli elettori fino al 26 gennaio, appunto, come uno mandato sotto processo dai suoi avversari politici nel tentativo di liberarsene con armi improprie. Ma ciò presuppone, obiettivamente, un elettorato così sprovveduto da non capire quello che succede in Parlamento, dove la strada del processo all’ex ministro dell’Interno è comunque segnata perché i numeri in assemblea sono quelli che sono e il voto finale in aula -ripeto- sarà palese per una curiosità del regolamento che alla Camera però è diverso, tanto per far capire quanto ingarbugliata e discutibile sia questa materia.
Della natura del processo in arrivo al leader leghista- che intanto si è preso anche uno schiaffo metaforico dalla Cassazione con la bocciatura postuma del già esaurito arresto della famosa Carola Rachete, che lo
sfidò all’arrembaggio delle coste italiane per scaricarvi ad ogni costo i “suoi” migranti- non vi dirò nulla più di quanto non abbia scritto e detto uno dei più loquaci e agguerriti sostenitori dell’iniziativa giudiziaria catanese: il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Che pure dileggia chi vi si oppone per il solo gusto, secondo lui, di fare le linguacce, diciamo così, ai magistrati impedendo loro di fare il proprio mestiere, ostacolato evidentemente da un odioso, capriccioso, pretestuoso, scandaloso articolo della Costituzione che richiede una libera e preventiva valutazione del Parlamento per questo tipo di processi.
Ebbene, nonostante la posizione colpevolista assunta dai grillini, ai quali peraltro Travaglio non ancora perdona di avere sottratto l’allora alleato Salvini ad un processo analogo per la vicenda della nave Diciotti nel 2018, il direttore del Fatto Quotidiano scommette praticamente sull’assoluzione del leader leghista ed ex ministro dell’Interno. Egli infatti sorride alla pretesa di liquidare come sequestro di persona il trattenimento regolarmente assistito degli immigrati sulla nave Gregoretti, in attesa della loro distribuzione fra più paesi europei. Non a caso del resto la magistratura d’accusa, cioè la Procura della Repubblica di Catania, aveva proposto al tribunale dei ministri l’archiviazione della vicenda. Un processo insomma s’ha da fare, stando al ragionamento di Travaglio, solo per il gusto, e la comodità o convenienza politica del momento, di farlo. E’ un bel modo, francamente, di concepire l’amministrazione della giustizia e i rapporti fra i vari poteri dello Stato disciplinati dalla Costituzione.
Di questo curioso, se non addirittura finto processo la maggioranza giallorossa ha deciso di fare una discriminante fra chi è per bene e chi è, diciamo così, per male in questo povero e incolpevole Paese che si chiama Italia.
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
un po’ per l’interesse che ancora suscita la figura dell’unico presidente socialista del Consiglio nella storia d’Italia e un po’ per la straordinaria bravura dell’attore che lo ha interpretato. Ma il vero “ultimo Craxi”, credete a me che l’ho ben conosciuto e frequentato prima e dopo il suo ritiro ad Hammamet, è quello raccontato in poco più di 120 pagine ben scritte e documentate, ancora fresche di stampa, che si leggono d’un fiato. E che ti fanno venire spesso la pelle d’oca per quanto riescano ad essere toccanti. E’ l’omonimo libro di Andrea Spiri, pubblicato da Baldini+Castoldi, in cui il Craxi degli ultimi, sette anni drammatici della sua vita, dei quali sei trascorsi in Tunisia, è raccontato con le sue stesse parole, legittimamente virgolettate, che l’autore da storico di professione com’è ha saputo leggere e cogliere consultando le tante carte scritte di suo pugno o dettate al collaboratore di turno da Bettino -permettetemi di chiamarlo affettuosamente per nome, come facevo quando era vivo- negli interminabili giorni della sua solitudine, della sua struggente nostalgia dell’Italia, del ricordo dei torti subiti e degli errori compiuti. Fra i quali un peso decisivo
ha avuto anche la scelta di amici sbagliati, o di amici veri scambiati per avversari, come una volta gli rimproverai personalmente prendendo le difese di Ugo Intini, rappresentatogli da Roma al telefono da qualche sprovveduto come uno che trescava per tradire -all’incirca-la sua storia politica cincischiando con Massimo D’Alema.
approdò pur avventurosamente a Palazzo Chigi, con l’aiuto di Francesco Cossiga. E’ il D’Alema che poi, tragicamente, non ebbe il coraggio di scontrarsi pubblicamente con la Procura di Milano, oppostasi a un gesto umanitario verso un malato ormai terminale. Egli per giunta mandò un telegramma quasi anonimo di auguri, tramite l’ambasciata di Roma a Tunisi, al suo vecchio avversario politico uscito vivo, sì, ma ancora per poco da un difficile, disperato intervento chirurgico. Che avrebbe potuto avere migliore esito se compiuto in Italia.
alla morte: serenità, più ancora di rassegnazione, nella consapevolezza di una vita vissuta per il suo Paese e per la politica, pur ricambiato così male, anzi così atrocemente: un avverbio, quest’ultimo, che solo con una dose industriale di malafede si può rifiutare di adoperare per giudicare i metodi usati sul piano giudiziario e mediatico contro Craxi per farne il capro espiatorio di quel fenomeno generale e conosciutissimo del finanziamento illegale dei partiti, delle loro correnti, dei gruppi e dei singoli leader e leaderini.
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle scrivere una lettera alla vedova, e ai figli, non solo e non tanto per esprimere, come ha opportunamente ricordato Spiri all’inizio del suo lavoro, il proprio “turbamento” ricordando la morte solitaria di un uomo da lui ben conosciuto in vita, e per apprezzarne il contributo dato al governo del Paese e alla sinistra “italiana ed europea”.
sulla strada della cosiddetta Tangentopoli: “E’ un fatto – scrisse Napolitano- che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza uguali sulla sua persona”. In quella “durezza senza uguali” è scolpito come in un’epigrafe un severo giudizio pure sui magistrati, anche se costoro, i più diretti interessati, almeno quelli ancora in vita allora, fecero finita di non sentire, non leggere e non capire. Una durezza quando è “senza uguali” sconfina, signori miei, nella violazione del senso stesso della giustizia, che deve essere coniugata con l’equanimità.