Il battistrada Franceschini non rinuncia alle intese locali Pd-5 stelle

            Inseguito di nuovo dal segretario del Pd in persona Nicola Zingaretti, questa volta senza che si scomodasse pure Matteo Renzi, Dario Franceschini  si è fermamente proposto di coinvolgere i grillini anche a livello locale per strappare ad una temuta vittoria del centrodestra a trazione leghista, al netto di quel che bolle nella pentola di Silvio Berlusconi,  le regioni storiche della sinistra dove si voterà nei prossimi mesi, a cominciare dal 27 ottobre in Umbria. Dove la debolezza del Pd è aggravata dalle disavventure giudiziarie, a dir poco, in cui è incorsa l’amministrazione uscente nella gestione della sanità.

            Per quanto i rapporti col capo -ancòra- del movimento delle 5 stelle Luigi Di Maio siano facilitati dal fatto che adesso partecipino entrambi allo stesso governo, lui come ministro dei beni Il Foglio.jpgculturali e capo della delegazione del Pd e l’altro non più vice presidente del Consiglio e pluriministro ma pur sempre ministro degli Esteri, quotidianamente sfottuto in internet per le sue gaffe in geografia e rapporti internazionali, Franceschini non ha raccolto  risultati concreti. La diffidenza dell’interlocutore, ma anche la spregiudicata disinvoltura e franchezza del battistrada ormai del Pd sono state ben rappresentate sulla vignetta del Foglio. Che li rappresenta su una panchina in corteggiamento politico non ancora concluso, né nelle intenzioni di Franceschini né forse nelle chiusure momentanee di Di Maio. Che non vorrebbe esagerare sulla strada delle provocazioni alla base del suo movimento, per quanto abbia sinora disposto al momento opportuno del soccorso di Davide Casaleggio sulla sua piattaforma elettronica Rousseau, Ma Di Maio conosce anche bene la posta in gioco per il Pd, che è troppo alta perché lui possa aggirarla del tutto, o a cuor leggero.

            Un collasso del Pd a livello locale metterebbe in guai irrimediabili Zingaretti e lo stesso Franceschini, già vittima recentemente di un rovescio nella sua Ferrara. Esso si porterebbe appresso il governo e, questa volta, davvero la legislatura appena salvata nella crisi di agosto col repentino cambiamento di maggioranza e la rivalutazione, da parte dei grillini, persino di Renzi. Che, dal canto suo, non si sta facendo coinvolgere più di tanto dal nuovo corso che pure ha voluto. Egli ha infatti ripreso a tessere, se mai aveva smesso di farlo, la tela di una sua uscita dal Pd per creare un’area di centro con l’aiuto di un ritorno al sistema elettorale proporzionale, dopo tutto il male che se n’è detto per una trentina d’anni, sino ad addebitargli la colpa dell’ingente debito pubblico italiano per via dei governi spendaccioni succedutisi alla sua ombra nella cosiddetta prima Repubblica.

            Le difficoltà locali del Pd sono dimostrate dalle ultime notizie provenienti dall’Umbria e non a caso raccolte e rilanciate dal Fatto Quotidiano. Sono in corso di studio espedienti per facilitare un ripensamento o riallineamento dei grillini. Cucinelli.jpgAi quali, in particolare, si offrirebbe la rinuncia del Pd a presentarsi in proprio, col simbolo e il nome, per coprirsi dietro qualche soluzione “civica”. I candidati “indipendenti” alla presidenza della regione da schierare contro Donatella Tesei, messa in campo da Salvini, che ha cominciato con largo anticipo la sua campagna elettorale sul posto, sarebbe il pur recalcitrante “re del cachemire” Brunello Cucinelli o l’ex presidente della Confcooperative regionali Andrea Fora, un cattolico molto ben visto o introdotto nella Chiesa locale.

 

 

 

 

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Il presidente del Consiglio fra le spine di Bruxelles e quelle di Roma

Nel valzer con Ursula von der Leyen a Bruxelles immaginato dal vignettista Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera c’è forse un Giuseppe Conte troppo su di tono, o intraprendente, perché Conte a Bruxelles 3 .jpgle notizie giunte dalla capitale belga, e dell’Unione Europea, non sono proprio Conte a Bruxelles 2.jpgincoraggianti per chi si aspettava e si aspetta un grande cambiamento di passo, ora che nel governo italiano accanto ai grillini non ci sono più i leghisti del sovranista Matteo Salvini ma il Pd e la sinistra radicale dei “liberi e uguali” Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Pietro Grasso e via rosseggiando.

            Il corrispondente del giornale della Confindustria 24 Ore dagli uffici comunitari ha riferito, per esempio, diSole 24 Ore.jpg un presidente del Consiglio costretto ad “accantonare” nella sua missione bruxellese la riforma del cosiddetto patto di stabilità chiesta, ipotizzata e quant’altro nelle dichiarazioni programmatiche alle Camere. E anche il nuovo commissario agli affari economici della Commissione Europea presieduta dall’ex ministra tedesca della Difesa, l’italiano Paolo Gentiloni, potrà praticare e chiedere per Roma una “flessibilità” molto relativa con tutti gli occhi vigilanti che ha addosso, a cominciare da quelli del vice presidente “esecutivo”, il rigorista lettone Valdis Dombrovskis, messogli sopra deliberatamente, per quanto Conte abbia scorto smagliature fra le sue deleghe.

            Qualche spiraglio, pur se smentito nel suo titolo di prima pagina da Repubblica, che parla di un’Europa sorda Repubblica.jpganche su questo terreno, è stato invece avvertito da Conte sul fronte dell’immigrazione negli  incontri con gli uscenti ed entranti vertici comunitari, visto che si ì avventurato a parlare poi con i giornalisti di multe ed altre penalità da poter applicare ai paesi dell’Unione che dovessero sottrarsi ad una equa distribuzione di quanti continueranno a sbarcare sulle coste italiane.

            Se a Bruxelles ha lasciato spine, nel suo rientro a Roma Conte non ne ha trovate di meno fra un Luigi Di Maio che continua ad usare gli uffici della Farnesina per ostentare il suo ruolo di “capo” del Movimento delle 5 stelle presiedendo una riunione di esperti economici per il varo del bilancio, un po’ come Salvini faceva al Viminale anche con i sindacati; un plenipotenziario dello stesso Di Maio e il capo della delegazione piddina al governo, Dario Franceschini, sommersi dalle troppe candidature grilline ai posti di sottosegretario e vice ministro, e un segretario del Pd in persona, Nicola Zingaretti, che ammette anche in pubblico il timore di una scissione, o qualcosa di simile, del suo partito per iniziativa del mobilissimo Matteo Renzi. Di cui pure lo stesso Zingaretti ha assecondato le improvvise aperture ai grillini durante la crisi agostana, rinunciando alla linea di un preventivo passaggio elettorale che aveva indotto Salvini a scommettere sullo scioglimento anticipato delle Camere interrompendo l’esperienza gialloverde.

            Dopo le ammissioni del capogruppo renziano del Pd al Senato, Andrea Marcucci, spintosi a dichiarare al Corriere della Sera che in caso di scissione, o -ripeto- qualcosa del genere, del suo partito “l’importante è che Renzi continui ad appoggiare il governo” nato proprio grazie a lui, si sono avute parole non proprio casuali della ministra che lo sesso Renzi ha voluto all’Agricoltura: Teresa Bellanova. Che sempre al Corriere della Sera, parlando appunto della possibilità di clamorose sorprese nel suo partito, ha detto: “Quando ci saranno fatti nuovi, io ancora una volta dirò con molta chiarezza da che parte sto”, cioè con Renzi.

            Da tripartito, quindi, per tornare ai linguaggi e alle formule della cosiddetta Prima Repubblica, il secondo governo Conte appena nato e fiduciato dalle Camere rischia di diventare quadripartito, con tutti gli inconvenienti relativi,  a meno che non torni tripartito col rientro dei “liberi e uguali” di D’Alema e compagni nel Pd, più facile una volta che Renzi dovesse uscirne, o metterne un piede fuori costituendo un gruppo autonomo a Montecitorio e restando invece in quello del Senato, dove il regolamento gli imporrebbe l’adesione al gruppo misto.  Ma un Pd del genere non sarebbe certamente uguale a quello con cui Conte ha negoziato il suo secondo  esecutivo.

 

 

 

 

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La trappola della legislatura costituente in cui si è infilato anche il Bisconte

Da come ha presentato il suo secondo governo alle Camere ottenendone la fiducia, pur fra le proteste, gli insulti, i cartelli e quant’altro degli ex alleati leghisti e degli affini fratelli d’Italia, ho capito che Giuseppe Conte non è superstizioso. Lo scrivo naturalmente salvo sorprese, come potrebbe essere quella di scoprire che anche lui ogni tanto si mette nelle tasche qualche cornetto rosso, come faceva Giulio Andreotti. E non ditelo, per favore, al mio amico Paolo Armaroli, perché nessuno gli toglierebbe mai più dalla testa l’impressione già espressa, e da me non condivisa, che l’attuale presidente del Consiglio sia di ispirazione o derivazione andreottiana, per quanto partito in politica con ben altri modelli per la testa: quello, per esempio, del suo corregionale Aldo Moro. Di cui è stato, appunto come  corregionale, il primo successore a Palazzo Chigi

Il coraggio vantato da Conte per sé e per il suo nuovo governo non sta tanto nel cambiamento repentino degli alleati, rimproveratogli ruvidamente dal suo ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, quanto nella decisione o nel proposito di rivestire dei panni “costituenti” la legislatura messa in pericolo e ora contestata nelle piazze, oltre che nelle aule parlamentari, dalle due componenti della destra ritrovatesi insieme dopo la crisi di agosto. Ma una delle quali, a dire il vero, quella di Giorgia Meloni, sarebbe stata disposta l’anno scorso ad allearsi anch’essa con i grillini se questi ultimi l’avessero voluta accettando la proposta formulata loro da Salvini.

I propositi costituenti, dopo la Costituente vera che l’Italia si diede nel 1946 con le elezioni abbinate al referendum istitutivo della Repubblica, non hanno purtroppo portato mai fortuna ai loro autori o aspiranti. Il povero Francesco Cossiga, per esempio, con un messaggio alle Camere Cossiga.jpgsi ricandidò di fatto al Quirinale nel 1991, per quanto avesse litigato un po’ con tutti nella fase conclusiva del suo mandato, quella delle “picconate”, offrendosi come un presidente di transizione e di garanzia per accompagnare la legislatura che sarebbe nata nel 1992 sulla strada di un’ampia e radicale riforma costituzionale, di stampo persino presidenziale. Ma ciò bastò e avanzò per sbarrargli ancora di più le porte di una rielezione. Che egli aveva un po’ furbescamente cercato di aprirsi anche con la improvvisa decisione di anticipare di qualche settimana,  con le dimissioni,  la conclusione del suo primo mandato per risparmiarsi la gestione della crisi di governo in apertura della nuova legislatura: una gestione che, in linea con gli accordi raggiunti già prima del voto fra democristiani e socialisti, lo avrebbe costretto a dare l’incarico di presidente del Consiglio all’amico Bettino Craxi, odiatissimo dai comunisti e già lambito dalle indagini giudiziarie su Tangentopoli.

Anche Giorgio Napolitano dal Quirinale, dove era stato rieletto nel 2013 dalle Camere sfinite dal tentativo dell’allora segretario del Pd Pierluigi Bersani di fare un governo “di minoranza e di combattimento” con l’aiuto dei grillini Napolitano.jpge dalle fallite scalate di Franco Marini e di Romano Prodi al Colle più alto di Roma, cercò di animare o rianimare come costituente la legislatura cominciata così affannosamente. Egli lo fece con un discorso persino sferzante alle Camere in occasione della conferma al vertice dello Stato.  Le difficoltà incontrate su questa strada dal governo delle cosiddette larghe intese presieduto da Enrico Letta e l’irruenza con la quale Matteo Renzi lo sostituì resero Napolitano ancora più diffidente di quanto l’età avanzata non gli suggerisse di suo e lo indussero alla rinuncia, due anni dopo, per conclamate ragioni di stanchezza fisica.

Renzi portò a termine la Renzii.jpgpropria stagione costituente come peggio non si poteva, francamente: con la bocciatura referendaria, nel 2016, della sua riforma costituzionale, e poi con la scissione e la durissima sconfitta del Pd nelle elezioni politiche dell’anno scorso.

Non migliore fortuna aveva avuto nel 1998 la stagione costituente tentata due anni prima, pur tra sospetti, più subendola che promuovendola, con il suo primo governo da Romano Prodi. Che era partito quasi contemporaneamente con una commissione bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D’Alema D'Alrema.jpgd’accordo con l’opposizione guidata da Silvio Berlusconi. Ebbene, prima naufragò la commissione e poi il governo del professore emiliano, sostituito acrobaticamente proprio da D’Alema con un cambio di maggioranza subitaneo, grazie al soccorso degli “straccioni” transfughi del centrodestra arruolati con orgogliosa baldanza da Cossiga.

Fallito il tentativo abbozzato con D’Alema, servito a quest’ultimo esclusivamente per approdare a Palazzo Chigi, Berlusconi cercò di intestarsi da solo una stagione costituente nella legislatura successiva, Berlusconi.jpgvarando una riforma della Costituzione di stampo federalista, almeno a parole. Che però  fu bocciata nel 2006 dopo una campagna referendaria condotta da Oscar Luigi Scalfaro, che già dal Quirinale, come presidente della Repubblica, aveva dato filo da torcere al Cavaliere di Arcore.

Con tutti questi precedenti alle spalle, ripeto, Giuseppe Conte ha avuto davvero coraggio cercando di rianimare con un obiettivo costituente, appeso all’albero della riduzione del numero dei parlamentari cui manca solo l’ultimo passaggio parlamentare, la legislatura compromessa dalla caduta del suo primo governo. Egli ha messo in cantiere, fra l’altro, una nuova legge elettorale per riportarci al sistema proporzionale della cosiddetta e tanto vituperata prima Repubblica.

Ancora più coraggioso -o illusorio, si vedrà con i fatti- è stato ed è il proposito del “Bisconte”, come lo sfottono un po’ dalle parti del Foglio, pur compiaciuto della sua avventura, di intestarsi una stagione costituente anche in Europa con la riforma del cosiddetto patto di stabilità, già bollato come “stupido” da Prodi negli anni in cui guidò la Commissione di Bruxelles. Ma di cui la nuova presidente Ursula von der Leyen, gelando un po’ attese, speranze e quant’altro di Roma e dintorni, accese anche dalla nomina di Paolo Gentiloni a commissario europeo per gli affari economici, ha detto che più sarà rispettato, meglio sarà “per tutti”.

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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Ursula guasta da Bruxelles a Conte la festa della fiducia al nuovo governo

              Peccato per Giuseppe Conte -o “il Bisconte”, come lo sfottono amichevolmente sul Foglio, pur compiaciuti della sua conferma a Palazzo Chigi dopo la crisi agostana- che la festa della fiducia prima alla Camera e poi anche al Senato gli sia stata guastata a distanza dalla nuova presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Che non ha aspettato di incontrarlo oggi a Bruxelles, per un appuntamento datogli in precedenza, per fargli sapere di non farsi troppe illusioni sulla revisione del cosiddetto patto di stabilità da lui auspicato con l’appoggio, questa volta, del capo dello Stato in persona, Sergio Mattarella.

            Sarà pure “stupido”, come lo definì una volta persino l’allora presidente della Commissione, l’italiano Romano Prodi, già presidente del Consiglio a Roma, ma quel patto resta lì dov’è, con tutti i suoi vincoli anti-deficit.  E più lo rispetteremo, meglio staremo tutti, ha avvertito la signora con quel piglio militare che aveva già prima di diventare ministra della Difesa nella sua Germania e ha poi perfezionato in quella veste.

            Non a caso, del resto, la signora di Bruxelles, italianizzata proprio da Prodi chiamandola Orsola e proponendone il nome anche alla nuova maggioranza giallorossa formatasi attorno al governo Conte 2, ha rispettato a metà -parola anche Repubblica.jpgdel quotidiano la Repubblica– l’impegno di assegnare nella nuova Commissione la delega degli affari economici all’italiano Paolo Gentiloni. Egli infatti è stato non affiancato ma sottoposto ad una specie di sorveglianza del vice presidente esecutivo Valdis Dombrovskis:  un lettone rigorista, cui i tedeschi molte volte affidano il compito di dire e fare ciò che essi preferiscono non dire e fare in prima persona.

            Impostata così, l’esperienza di Gentiloni a Bruxelles rischia di tradursi nella impietosa vignetta dedicatagli sulla prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno, alle prese con un pallottoliere a colori. L’italiano Gazzetta.jpgpotrebbe servirgli solo per comunicare a Roma in lingua originale, o di casa, giudizi, moniti e quant’altro saranno decisi “collegialmente”- come ha precisato la stessa presidente- dalla nuova Commissione.

            Più possibilità di riuscita o accoglienza ha invece l’aspirazione, l’interesse, il bisogno italiano di una revisione del cosiddetto trattato di Dublino per una disciplina dell’immigrazione che non faccia più della nostra penisola lo stivale nel quale infila il piede il primo che sbarca, o viene sbarcato, sulle nostre coste. Conte 2 .jpgMa se così davvero sarà, se si riuscirà cioè a cambiare le regole degli sbarchi, Conte potrà o dovrà dire di avere raccolto i frutti non tanto del suo secondo governo, ma del primo, realizzato con quel Matteo Salvini al Viminale che è diventato solo dal 20 agosto scorso il suo bersaglio preferito, se non unico. Duro è stato Salvini al Senato.jpglo scontro fra i due anche nel dibattito sulla fiducia nell’aula di Palazzo Madama: con Salvini che ha dato all’altro del poltronista e Conte che, pur non chiamandolo né per nome né per cognome, come fece invece il mese scorso nel momento della rottura, gli ha dato dell’arrogante, prepotente e un po’ persino dell’eversore nei rapporti con la Costituzione, su cui pure aveva giurato l’anno passato da ministro dell’Interno.

            I due sono ormai destinati a vivere l’uno in funzione del contrasto all’altro. Rappresenteranno il “nuovo bipolarismo” italiano, come ha detto Marco Travaglio, collegato dal suo ufficio di direttore del Fatto Quotidiano, allo studio televisivo di Lilli Gruber. Dove il giorno prima aveva duramente parlato contro il nuovo governo, dando quanto meno del trasformista a chi lo guida, l’editore virtuale di Repubblica Carlo De Benedetti. Di cui Travaglio si è vendicato a suo modo, scrivendone nel proprio editoriale, non avendo potuto farlo a voce con la Gruber, come di uno sprovveduto o, peggio ancora, di un menagramo che ha fatto la sfortuna dei suoi amici o beniamini di turno. Come nemico, pertanto, Conte non dovrebbe temere l’ingegnere. Ma, se fosse per questo, non dovrebbe temerlo neppure Salvini, l’altro polo del presunto bipolarismo attaccato ugualmente da De Benedetti.

 

 

 

 

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Il nuovo Conte, che si attende sobrietà dagli alleati e spinge la destra alla rissa

            Più che da un cambio di maggioranza, col Pd e Leu al posto dei leghisti, nella presentazione del suo secondo governo al Parlamento Giuseppe Conte è sembrato reduce da un corso accelerato e ben riuscito di oratoria. Con pause sconosciute nella sua prima esperienza di presidente del Consiglio egli ha saputo raccogliere e rilanciare tutte, ma proprio tutte le occasioni di polemica e di scontro con gli ex alleati esasperandone le reazioni sin quasi alla rissa. La sua ossessione è apparsa quella di dimostrare all’aula di Montecitorio, e al pubblico che lo seguiva per televisione da casa, che davvero era finito l’anno e più di governo gialloverde e che le “poltrone imbullonate” rinfacciategli dai leghisti nella stessa aula e in piazza, davanti alla Camera, erano quelle cui essi ambivano chiedendo le elezioni anticipate per capitalizzare il successo conseguito nelle votazioni europee del 26 maggio scorso. E’ un  ragionamento, questo, che ha mandato in visibilio la sinistra perché riflette l’antisalvinismo impostole dai “pieni poteri” imprudentemente reclamati, a dire il vero,  dall’ex ministro dell’Interno nel chiedere appunto le elezioni anticipate.  

            La “sobrietà”, la “pacificazione” ed altre parole magiche, come le avrebbe chiamate la buonanima di Amintore Fanfani, spese da Conte nei suoi interventi di apertura del dibattito e di replica hanno riguardato solo il modo di essere e di fare della nuova maggioranza, dopo le tensioni permanenti della vecchia, non i rapporti con l’opposizione, ora solo di destra. Non si può infatti parlare di centrodestra, perché quella di Silvio Berlusconi affidata ai parlamentari di Forza Italia -diciamo la verità- è un’opposizione più di facciata che altro: cosa della quale Conte deve fingere di non accorgersi, e di non compiacersi, per non aggiungere un nuovo contenzioso  a quelli sotto traccia esistenti con i grillini, che pure gli fanno in pubblico i salamelecchi da quando Beppe Grillo in persona ne ha voluto la conferma a Palazzo Chigi e lo ha “elevato” quasi al proprio livello, un gradino sotto Dio col quale il comico genovese s’immagina collegato dal suo blog personale quando sente il bisogno di intervenire nelle vicende politiche e di dettare la linea ai sottoposti.

              Sarebbe oggettivamente troppo per Grillo e per il suo “popolo” difeso da Conte ingoiare, dopo l’accordo di governo con l’odiato Pd, la disponibilità dell’ancora più odiato Berlusconi ad una opposizione “ferma ma costruttiva, repubblicana, responsabile” e quant’altro, trasformabile in appoggio sul terreno delle riforme della Costituzione e della legge elettorale. Così  fu per qualche tempo col governo di Matteo Renzi, sino a quando i due non ruppero sulla elezione di Sergio Mattarella al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano.

            Alla piazza della protesta della destra si è paradossalmente aggiunto, con gli stessi argomenti Piazza Montecitorio.jpge le stessa aspirazione elettorale, l’editore virtuale, diciamo così, della Repubblica di carta, Carlo De Benedetti, standosene seduto nel salotto televisivo appena riaperto da Lilli Gruber su La 7 di Urbano Cairo, l’editore a sua volta sognato da molte parti nei panni di un Berlusconi più commestibile.

            Anche De Benedetti ha dato del “trasformista” a Conte accusando i suoi nuovi soci di maggioranza di non aver capito che la destra sovranista  di Salvini De Benedetti.jpge della Giorgia Meloni sarebbe stata più linearmente, più efficacemente e più stabilmente sconfitta proprio raccogliendone la sfida elettorale. Che pertanto sarebbe stata per l’ex ministro dell’Interno un’autorete maggiore della stessa crisi agostana, sempre che naturalmente la sinistra avesse saputo e voluto attrezzarsi a dovere, anziché scegliere la strada che ha invece imboccato seguendo a sorpresa l’imprevedibile Matteo Renzi: tanto imprevedibile, peraltro, che non ha smesso di lavorare -ha raccontato De Benedetti, cui certamente non mancano buone informazioni- per uscire dal Pd e mettersi in proprio.

            La conferma di una simile prospettiva, destinata quanto meno a complicare la situazione politica,  si trova in una intervista al Corriere della Sera dell’insospettabile capogruppo renziano del Senato Andrea Marcucci. Il quale, rispondendo ad una domanda, appunto, sull’intenzione attribuita Renzi e Zingaretti.jpga Renzi di mettersi in proprio, costituendo un gruppo autonomo alla Camera e rimanendo per un po’ in quello del Pd al Senato perché il regolamento l’obbligherebbe a confluire nel gruppo misto, ha detto che “l’importante è che ci sia il sostegno a questo governo”. Il solo inconveniente per Conte sarebbe quello di dover avere un interlocutore in più sulla sua strada, senza limitarsi a parlare per il Pd col segretario Zingaretti o col capo della delegazione piddina Dario Franceschini.

            Con questi chiari di luna, diciamo così, è quanto meno prematura la prospettiva “di legislatura” assegnatasi da Conte presentando al Parlamento il suo secondo governo, e risparmiando agli italiani, bontà sua, la prenotazione anche della legislatura prossima, con tutto quel programma che ha esposto per la “Smart Nation”, come l’hanno definita i suoi ammiratori.

 

 

 

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La sinistra radicale al governo già minaccia la sfiducia a difesa dei migranti

            In coincidenza sinistra -sotto tutti i sensi- con la presentazione del secondo governo di Giuseppe Conte alle Camere, dall’interno di uno dei tre partiti che lo compongono -i fuoriusciti dal Pd raccoltisi l’anno scorso sotto la sigla di Leu, acronimo di “liberi e uguali”, e rappresentati nel nuovo esecutivo dal ministro della Sanità Roberto Speranza- – hanno minacciato di negare Secolo XIX.jpgla fiducia se non saranno lasciati sbarcare in Italia i cinquanta migranti appena soccorsi davanti alla Libia da una nave della “Mediterranèe”. Che si è subito indirizzata verso le coste italiane scommettendo proprio sul cambiamento del clima e degli equilibri politici dopo la caduta del governo gialloverde promossa da Matteo Salvini, l’ormai ex ministro dell’Interno distintosi per la chiusura dei porti alle navi delle organizzazioni volontarie di soccorso, e persino a quelle militari italiane.

            La componente governativa della sinistra radicale è importante nell’assetto della nuova maggioranza non tanto per i numeri, che sono modesti ma al Senato potrebbero diventare decisivi, quantoZingaretti.jpg per la capacità di condizionamento che possono avere nei riguardi del Pd, il cui segretario Nicola Zingaretti peraltro l’ha voluta nella combinazione tripartita per tingere più di rosso la soluzione alla crisi agostana di governo. Della quale egli si è appena vantato chiudendo la festa tradizionale dell’Unità, sopravvissuta alla scomparsa dalle edicole della storica testata comunista, assicurando “lealtà” al Movimento delle cinque stelle: purché ricambiata, ha aggiunto Zingaretti per rispondere a quanti, fra i grillini, stanno mostrando crescente insofferenza verso il Pd e si chiedono già in che cosa esso possa concretamente manifestarsi diverso dalla Lega nei rapporti con loro.

            Dev’essere stato anche per quanta insorgenza di malumori e per le conseguenti turbolenze nella maggioranza e nello stesso governo- dove Luigi Di Maio, per esempio, ha fatto sapere che, nonostante il disagio avvertito o attribuito al presidente del Consiglio, egli continuerà a riunire periodicamente alla Farnesina i ministri pentastellati per esercitare il suo ruolo di capo del movimento delle 5 stelle e dalla rispettiva “delegazione” nell’esecutivo- che Paolo Mieli ne ha preso altre distanze sul Corriere della Sera.

           Pur nella conferma del carattere “costituzionalmente inappuntabile” della soluzione data alla crisi, l’editorialista ed ex direttore del più diffuso giornale italiano ne ha rilevato “l’altrettanto evidente Paolo Mieli.jpgdeficit di legittimazione popolare”, già registrata d’altronde dai sondaggi sul gradimento del nuovo governo, ben al di sotto del 50 per cento, contro il 60 e più guadagnatosi dal precedente. Ed ha avvertito  che “l’infima minoranza d’italiani” chiamata a dimostrare in piazza contro Conte dalle destre di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini “è destinata però nel tempo a crescere”, magari con l’affluenza dei forzisti ora trattenuti da Silvio Berlusconi. Il quale  preferisce e promette una opposizione parlamentare “senza sconti” al nuovo governo, ma secondo indiscrezioni di stampa non smentite ha già telefonato personalmente a Zingaretti per offrirsi sul terreno delle riforme costituzionale ed elettorale, come già fece del resto col governo di Matteo Renzi nel 2014.

           Sul carattere riformatore e “costituente” del Conte 2 e della legislatura salvata proprio dalla sua formazione, contro la richiesta leghista delle elezioni anticipate, ha insistito nel suo titolo di apertura Repubblica.jpgdi prima pagina la Repubblica. “Costituente”, d’altronde, tra riforma della Costituzione e riforma della legge elettorale, diventò anche la scorsa legislatura, dopo il fallimento del tentativo dell’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani di far decollare con l’aiuto dei grillini un suo governo “minoritario e di combattimento” e il passaggio ai governi delle intese via via meno larghe, di Enrico Letta e del già ricordato Renzi, patrocinati dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ruvido nelle reazioni a chi li declassava a “inciuci”.

           L’epilogo non fu, per la verità, tra i più felici. Una riforma costituzionale, ben più consistente della riduzione del numero dei parlamentari in arrivo col Conte 2 e dei conseguenti adattamenti della legge elettorale, fu clamorosamente bocciata dagli elettori nel 2016. E Mattarella, nel frattempo succeduto a Napolitano al vertice dello Stato, non ritenne per questo esaurita la legislatura. Pertanto, respingendo la richiesta delle elezioni anticipate avanzatagli da Renzi, egli ne impose la prosecuzione sino alla scadenza ordinaria dell’anno successivo. Ciò si  tradusse in una umiliante sconfitta del Pd, frattanto indebolito dalla scissione promossa da Bersani e Massimo D’Alema, e nell’avanzata elettorale del movimento di Beppe Grillo, sino a diventare la forza politica di maggioranza relativa, com’era una volta la Dc.  

 

 

 

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Gravano sul Conte 2 le incognite dell’Europa e dei partiti di governo

            L’Europa , come assicura in prima pagina   la Repubblica di carta, ci farà pure lo sconto, grazie al nuovo governo di Giuseppe Conte, in cui i grillini hanno Repubblica.jpgsostituito la Lega col Pd, applicando con più flessibilità le regole sul deficit, in attesa che esse cambino, come ha appena auspicato anche il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ma qualcosa a Bruxelles non si sta muovendo nel migliore dei modi per l’Italia.

            Il presidente del Pd Paolo Gentiloni, pur con tutta la carriera politica che ha alle spalle per essere stato prima ministro degli Esteri e poi presidente del Consiglio, non è ancora sicuro di ottenere nella nuova Commissione dell’Unione l’incarico di prima fila degli affari economici che si aspettava nel momento della designazione. E che, sotto sotto, gli aveva adombrato la presidente della stessa Commissione, la tedesca Ursula von der Leyen, ricevendolo a Bruxelles.

            “Credo -ha testualmente dichiarato lo stesso Gentiloni con linguaggio diplomatico alludendo alle resistenze che sta incontrando da parte dei Paesi nordici e più rigoristi- che l’Italia abbia tutto il diritto, e direi anche il dovere, di svolgere il ruolo importante che le spetta”, e “spesso coincide con l’ambito economico”.  Ma all’ambito economico potrebbero essere attribuite, secondo chi gli resiste, anche le competenze del commissario per l’Industria, come risulta in una lista che circola in questi giorni a Bruxelles, o per la Concorrenza, come fu a suo tempo per Mario Monti.

            In ogni caso Gentiloni a Bruxelles e Conte a Roma accetteranno qualsiasi conferma o sorpresa, sapendo evidentemente di disporre al vertice dell’Unione, anche ora che dal governo è stata allontanata la troppo “sovranista” Lega di Matteo Salvini, di un potere contrattuale non altissimo, diciamo. Lo stesso Gentiloni, come hanno riferito i due giornalisti del Messaggero che ne hanno raccontato la partecipazione ad una cerimonia a Santa Severa per ricevere il premio europeo intestato al compianto liberale Giampiero Orsello, ha già cominciato a cercare casa a Bruxelles con la moglie per trascorrervi i prossimi cinque anni, quanto durerà il suo incarico di commissario. “Normalmente -ha peraltro osservato Gentiloni con una malizia forse inferiore a quella immaginata da molti leggendone le parole- in questo lasso di tempo cambiano tre governi in Italia”. “Per carità, non mi sto augurando -ha aggiunto- che Conte cada” col governo appena formato, che sta per presentare alle Camere per la fiducia e che Gentiloni ha definito “di necessità”, senza abbandonarsi ad altre più compiaciute e ottimistiche definizioni formulate nel suo partito. Dove il segretario Nicola Zingaretti parla, per esempio, di governo del “coraggio”, della “pacificazione” e “di legislatura”, immaginandone quindi la durata sino al 2023.

            A dispetto di tanta fiducia, speranza, ottimismo o come altro si voglia chiamare questo approccio di Zingaretti al secondo governo di Conte, voluto nel Pd da un mobilissimo Matteo Renzi prima ancora che da lui, sarà forse Libero.jpgesagerato quel titolo di Libero su grillini e piddini che “si scannano già”, ma di certo non si può dire che stiano vivendo in armonia questi primi giorni di alleanza.

           Tra un Luigi Di Maio – “of Maio”, lo ha sfottuto Aldo Grasso sulla prima pagina del  Corriere della Sera raccogliendo e rilanciando l’umorismo scatenatosi in internet dopo la sua nomina a ministro degli Esteri- che lancia o non smentisce gli avvertimenti a Conte attribuitigli con la formula “comando io” nel Movimento delle cinque stelle, e la crescente diffidenza verso il Pd daIl Fatto.jpg parte di un giornale come il Fatto Quotidiano, sensibilissimo agli umori grillini, c’è francamente ben poco da scommettere sulla durata o tenuta del nuovo governo. “Ma è il Pd o la Lega?”, si è appena chiesto nel titolo di copertina il giornale diretto da Marco Travaglio, il quale ha dedicato anche il suo editoriale a questa domanda  che  da sola basta ed avanza a capire ciò che già bolle, o continua a bollire, nella pentola del partito maggiore di governo. Dove -ripeto- a comandare è deciso a restare Di Maio, anche a costo di creare a Conte una quantità e qualità di problemi non inferiori a quelle di Salvini, ritrovatosi alla fine all’opposizione.  

 

 

 

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L’amaro risveglio dei tifosi del governo giallorosso partorito dalla crisi agostana

            Per alcuni laudatori del governo Conte 2, assopitisi fra le promesse di una “nuova stagione” formulate dal presidente del Consiglio, i messaggi scritti e vocali di compiacimento da oltre Oceano e le foto del tuttora presidente del Pd Paolo Gentiloni accolto festosamente a Bruxelles dalla nuova presidente della Commissione Europea, che martedì gli assegnerà gradi e funzioni, deve essere stato amaro spulciando i giornali. Sul più diffuso dei quali, il Corriere della Sera, sonoCorriere.jpg indicate col titolo di testa nella sanità e nei cantieri “le prime spine” dell’esecutivoRepubblica.jpg che deve peraltro ancora ottenere la fiducia delle Camere, soprattutto del Senato. Dove i numeri sono stretti e ballerini quasi come quelli del governo precedente gialloverde, e di altri ancora che proprio a Palazzo Madama sono caduti, come il secondo ed ultimo governo di Romano Prodi nel 2008. Difficoltà vengono indicate anche  sulla prima pagina di Repubblica.

            Lo stesso Conte viene rappresentato diviso sul Corriere della Sera fra il disappunto procuratogli dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio – che come capo della delegazione pentastellata ha riunito alla Farnesina i colleghi di partito e di governo preparando la complessa partita delle nomine dei sottosegretari, ma soprattutto esortandoli a far capire ai colleghi del Pd che si tolgano dalla testa di comportarsi come i leghisti che li hanno precedutie l’incognita costituita per lui da Matteo Renzi. Sul quale  debbono essergli giunte notizie, voci e quant’altro che non lo hanno per niente tranquillizzato, per cui il presidente del Consiglio “ha deciso di cercarlo” direttamente, ha riferito sempre sul Corriere Francesco Verderami. E Corriere 2 .jpgsperiamo per lui, cioè per lo stesso Conte, che dall’ex segretario del Pd, ex presidente del Consiglio e ora “semplice” ma sempre temuto e imprevedibile “senatore di Scandicci” non gli arrivi la ormai famosa e poco incoraggiante esortazione a “stare sereno”. Essa costò notoriamente Palazzo Chigi all’amico di partito Enrico Letta, facendogli passare poi anche la voglia di restare a Montecitorio come deputato.

            Sulla Stampa il già guardasigilli e ora vice segretario del Pd Andrea Orlando, rimasto volontariamente La Stampa.jpgfuori dal governo forse per non contendere a Dario Franceschini il ruolo di capo della delegazione, cui l’ex ministro avrebbe avuto diritto per i gradi che ha nel partito, ha voluto far sentire alta e forte la sua voce avvertendo che la riforma della Giustizia predisposta dal ministro grillino Alfonso Bonafede “non va”. Ma, in verità, non andava neppure ai leghisti, anche se probabilmente per motivi diversi. In ogni caso, è un’altra spina, per dirla con il Corriere, per niente risolta o chiarita evidentemente nel programma di governo concordato nei giorni scorsi.

            Il quadro non migliora se lo si contempla sfogliando un giornale come il Fatto Quotidiano, dichiaratamente impegnatosi durante la crisi a sostenere, con titoli, commenti, consigli e quant’altro, l’accordo di governo fra grillini e Pd scritto “nel destino”, da quando Beppe Grillo in persona tentò di iscriversi alla sezione piddina di Arzachena,  il Comune sardo della Costa Smeralda nel cui territorio il comico genovese possiede una casa sfortunatamente finita in queste ore sulle prime pagine dei giornali per un’inchiesta giudiziaria sul figlio e alcuni amici alle prese a luglio con una modella.

            Ebbene, il giornale diretto da Marco Travaglio ha scoperto e denunciato sulla prima pagina, con tanto di fotomontaggio Il Fatto.jpge titolo da scatola di tonno, che i ministri del Pd all’Economia e ai Beni culturali, Roberto Gualtieri e il già citato Dario Franceschini, stanno riesumando nei loro dicasteri e dintorni “dinosauri”, di cui uno allontanato personalmente da Conte durante il suo primo governo. Non ne faccio i nomi perché non voglio neppure involontariamente prestarmi alla caccia alle streghe, per la quale non sono francamente, e per fortuna, attrezzato.

            Se sono rose fioriranno, dice un vecchio adagio popolare. Per ora si vedono e si sentono “le prime spine”:  parole- ripeto- del Corriere della Sera.

Il vecchio e il nuovo del governo Conte 2 in convivenza problematica

Dieci ministri ai grillini e dieci ai loro nuovi alleati, dei quali nove al Pd e uno agli scissionisti di Leu, in un rapporto paritario che riporta al passato, quando al posto dei grillini erano i democristiani, nella parte più avanzata della loro collaborazione con socialisti e laici, a detenere la maggioranza relativa dei voti e dei seggi parlamentari. E si consideravano  perciò l’ago della bilancia, come Luigi Di Maio dice del suo movimento per questa e persino per le “prossime legislature”, con un ottimismo della volontà, sospirerebbe la buonanima di Antonio Gramsci, ben superiore al pesssimismo della ragione.

Persino Massimiliano Cencelli, l’autore dello storico manuale col quale i democristiani dei tempi d’oro distribuivano il potere all’interno del loro partito e all’esterno, ha detto che il governo Conte 2 -per carità, non chiamatelo Conte bis perché, una volta tanto, ha  ragione Marco Travaglio a protestare sul Fatto Quotidiano, trattandosi di tutt’altra maggioranza- ha rispettato proporzioni, rapporti di forza e quant’altro come si faceva una volta, quando la Repubblica era di edizione unica e originale. E si era affacciata solo alle finestre dei solitari e diversi Mario Segni e Marco Pannella la “seconda Repubblica” del sistema elettorale misto: per i due terzi maggioritario e per il rimanente terzo ancora proporzionale, quale scaturì poi dal referendum del 1993.

Appartiene al passato che curiosamente torna, almeno nelle apparenze, anche la disarticolazione, diciamo così, dei partiti della maggioranza, divisi in correnti, anime, aree, tendenze, spiriti e via discorrendo. Ne sa qualcosa il povero Nicola Zingaretti. Che, costretto dalle circostanze e dai tempi forse sbagliati della crisi scelti da Matteo Salvini, ha dovuto inseguire e persino scavalcare l’altro  imprevedibile Matteo, Renzi, sulla strada dell’intesa a sorpresa con i grillini, rimangiarsi i propositi elettorali che lo accomunavano ai leghisti e infine portare al governo tutte le componenti del suo partito, perché nessuno poi gli potesse contestare parzialità, o nella speranza che nessuno prima o poi gliele contesti ugualmente. Ed è stato persino naturale che la deroga alla cosiddetta discontinuità, o rinnovamento, sia stata riservata nel Pd al ritorno al Ministero dei Beni Culturali e del Turismo dell’ormai veterano, pur se giovanile, Dario Franceschini. Che all’interno del suo partito, forse non tanto per la forza dei numeri quanto per l’agilità con la quale sa muoversi, come si diceva una volta  nella Dc di Enzo Scotti, chiamato Tarzan dal compianto Carlo Donat-Cattin, è un po’ l’ago della bilancia che Di Maio si considera, o considera il suo  movimento,  per l’intero sistema politico.

Di Maio però ha adesso un problema, tanto grande e temuto dalle sue parti che anche  un uomo dall’apparente sistema nervoso di ferro come viene da qualche tempo considerato Giuseppe Conte ha dovuto in qualche modo cautelarsi strizzandogli l’occhio nella cerimonia di giuramento del nuovo governo al Quirinale. E sovrapponendo la mano all’altra del neo-ministro degli Esteri già stretta tempestivamente, con un calore unico fra tutti gli attori della cerimonia.

Eppure Di Maio, una volta messo in pista Conte per la conferma e fattolo politicamente ingoiare a Zingaretti, è stato quello che più ha creato poi  difficoltà al presidente del Consiglio incaricato,, e forse è destinato a crearne anche adesso che è pienamente in carica ed entrambi hanno giurato nelle mani del capo dello Stato. L’ultimo ostacolo prima della chiusura formale della crisi, ritardata di quasi mezza giornata tra l’impazienza del presidente della Repubblica riferita dai giornali senza alcuna smentita o precisazione, Di Maio lo ha procurato a Conte, secondo le cronache neppure esse smentite, imponendogli la nomina di Riccardo Faccaro a sottosegretario alla Presidenza e segretario del Consiglio dei Ministri. Che è una postazione più importante dei Ministeri che pure si considerano di prima fascia, come quelli dell’Economia, dell’Interno, degli Esteri, della Difesa: tanto importante che Conte nel precedente governo dovette assegnarla all’uomo -Giancarlo Giorgetti- almeno allora di maggiore fiducia dell’alleato Matteo Salvini.

Per le mani, le orecchie, gli occhi e quant’altro del primo sottosegretario di Palazzo Chigi passano le pratiche, e relative decisioni, in entrata e in uscita dalla scrivania del presidente del Consiglio. Che proprio per questo, ritenendo di poter essere considerato, sia pure in modo “improprio”, come gli  è capitato di dire, una persona del movimento delle 5 stelle, non a caso “elevato” dallo stesso Grillo nei giorni scorsi a un gradino sotto di lui, a sua volta sotto Dio direttamente, aveva pensato di poter nominare al posto di Fraccaro  il segretario generale uscente di Palazzo Chigi, Roberto Chieppa.

Se proprio insiste e ci tiene, il presidente del Consiglio potrà nominare Chieppa sottosegretario lo stesso, imbottirlo di deleghe anche a scapito di Fraccaro già insediato, come è stato anticipato dai giornali mentre scrivo, ma la figura preminente accanto al capo del governo  è e rimarrà lo stesso Fraccaro, generalmente catalogato, a torto o a ragione, come un uomo di raccordo vitale fra Di Maio e Davide Casaleggio. E’ come se Silvio Berlusconi nei suoi governi di centrodestra avesse dovuto rinunciare al suo fidato Gianni Letta, o ridimensionarne ruolo e deleghe.

Al di là dei nomi e delle persone, questa vicenda che ha accompagnato le ultimissime battute della crisi è indicativa dei problemi, chiamiamoli così, esistenti all’interno del movimento grillino, ben più complessi e meno trasparenti di quella certificazione notarile che ha assegnato nel referendum digitale della “piattaforma Rousseau” di Casaleggio sull’alleanza col Pd, dopo quella con la Lega, un  80 per cento  “plebiscitario” ai sì, come ha detto Di Maio, e un  20 per cento ai no.

Di quell’80 per cento dei sì del virtuale congresso grillino svoltosi in poche ore è insondabile anche per il più accurato e imparziale osservatore, bisogna riconoscerlo, quanta parte sia riferibile a Di Maio e alla sua leadership, salvata con un altro referendum digitale dopo la scoppola delle elezioni europee del 26 maggio scorso, e quanta alle altre “anime” o sensibilità del movimento pentastellato, amch’esse tutte presenti adesso nel governo Conte 2. La indeterminatezza di questi equilibri, inevitabile nel tipo di organizzazione, o non organizzazione, che si è voluto dare il quasi partito che Di Maio ritiene di rappresentare, oltre che di comandare, è un oggettivo, innegabile ostacolo alla trasparenza che pure lo stesso Di Maio vanta pubblicamente e chiede perentoriamente alle altre formazioni politiche, negando di fatto la rappresentatività dei loro organi direttivi.

Anche questa è un’incognita con la quale dovrà fare i conti il nuovo governo, nato tra aperture e sollievi internazionali ma costretto a districarsi fra i problemi esterni e quelli interni ai partiti che lo compongono. E che non possono riposare con i coltelli sotto il cuscino.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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Nel lettone del governo riposano con il coltello sotto il cuscino

 

            Tra le foto della cerimonia del giuramento del secondo governo di Giuseppe Conte al Quirinale, le più emblematiche della crisi appena conclusa sono quelle del saluto particolarmente caloroso del presidente del Consiglio al neo ministro degli Esteri, capo del Movimento delle 5 stelle e della relativa “ delegazione” nell’esecutivo: l’unico al quale il presidente del Consiglio ha voluto fare l’occhiolino di complicità e non solo stringere ma sovrapporre Di Maio 1 .jpgl’altra mano alla sua, sotto lo Di Maio 2 .jpgsguardo del presidente della Repubblica. Che pure il giorno prima aveva dovuto attendere un bel po’ di ore, abbastanza spazientito, che a Palazzo Chigi si compisse l’ultimo braccio di ferro fra i due: Conte deciso a nominare come principale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il segretario generale uscente della stessa Presidenza, Roberto Chieppa, di sua stretta fiducia, e Di Maio fermo nell’imposizione di Riccardo Fraccaro, formalmente declassato da ministro uscente ma in realtà promosso per il ruolo centrale che è chiamato ad avere sul piano politico. Dovranno passare per le sue mani, per le sue orecchie e per i suoi occhi tutto ciò che finisce poi sulla scrivania del capo del governo, o ne esce. Non a caso in quella postazione Conte aveva dovuto accettare l’anno scorso, negli accordi con i leghisti, Giancarlo Giorgetti, l’uomo di fiducia, almeno allora, di Matteo Salvini.

            La stessa logica, essendo Conte di designazione e di fiducia grillina, per quanto gli sembri “impropria” l’appartenenza attribuitagli al Movimento fondato dal comico genovese, avrebbe dovuto attribuire al Pd la postazione rivendicata da Di Maio per il fidato Fraccaro, tanto più dopo che lo stesso Pd aveva dovuto rinunciare all’assegnazione di una unica vice presidenza del Consiglio: una rinuncia necessaria a fare retrocedere Di Maio dalla pretesa di un’altra anche per sé, come nel precedente governo.

            Pur modesta forse nelle sue dimensioni, raccontata da tutti i giornali senza uno straccio di smentita o di imbarazzo degli interessati, e neppure completa perché sembra che Chietta sia destinato ad essere nominato comunque sottosegretario, e dotato di alcune deleghe a scapito di Fraccaro, questa vicenda la dice lunga sulla situazione interna al Movimento che secondo Di Maio è “l’ago della bilancia” di questa e forse anche delle prossime legislature, come fu la Dc ai suoi tempi.

            Di Maio, ora agli Esteri quasi per la regola dantesca del contrappasso dopo tanti scivoloni, a dir poco, accumulati in geografia e dintorni, è un uomo politicamente ossessionato dalla voglia di comandare davvero e dalla paura che il capo vero del suo partito sia già o sia destinato a diventare Conte, “elevato” dallo stesso Grillo in questi giorni al proprio livello, o quasi.

           E’ con Conte, pertanto, che i fatti e le circostanze potrebbero tornare a mettere in conflitto Di Maio, e viceversa, com’ è appunto accaduto per il caso Fraccaro: un conflitto che il presidente del Consiglio non potrà a lungo esorcizzare stringendo all’amico-antagonista le mani eMerlo.jpg facendogli “l’occhiolino del compromesso”, come lo ha definito sulla prima pagina di Repubblica Francesco Merlo. Non sempre si può riuscire a fare buon viso a cattivo gioco. E il Pd, pur essendo riuscito a strappare ai pentastellati -col  cespuglio dello scissionista Roberto Speranza al vertice della Sanità- ben la metà dei Ministeri, come facevano a suo tempo gli alleati della Dc da posizioni elettorali e parlamentari minori, potrà finire per essere coinvolto e indebolito dalle mene e dalle beghe stellari. Che peraltro potranno incrociarsi con quelle interne allo stesso Pd, dove il segretario Nicola Zingaretti deve guardarsi soprattutto da Matteo Renzi, al cui disinvolto e repentino passaggio dal no al sì ai pentastellati ha dovuto piegarsi dopo avere detto e ridetto di non poter cambiare i rapporti con loro senza un preventivo passaggio elettorale.

            Di Zingaretti, come dei forti contrasti fra i pentastellati riferitigli probabilmente da Di Maio quando andavano d’amore e d’accordo, nei fatti se non nelle parole, Salvini si era imprudentemente fidato  promuovendo una crisi che lo ha spiazzato e obiettivamente indebolito nei suoi sviluppi. Il leader leghista potrà ora scommettere solo sugli errori, incidenti e quant’altro dei suoi ex alleati e del loro nuovo partner, odiatissimo sino a pochi giorni fa ma riuscito utile solo per evitare un rinnovo anticipato delle Camere in cui sarebbero tornati a ranghi ridotti, da ago di una bilancia scassata.

            In queste condizioni di solito si dorme, in entrambi i posti del letto a due piazze, con il coltello nascosto sotto il cuscino.

 

 

 

 

 

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