L’irritazione, la delusione e quant’altro attribuite al presidente della Repubblica Sergio Mattarella dal navigato quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda al termine del primo e inconcludente giro di consultazioni, cui ne seguirà un altro, annunciato per martedì in diretta all’ora di cena dallo stesso Mattarella dopo due ore di riflessione, sono niente di fronte alla sensazione del vuoto che si avverte seguendo la crisi con le lenti dei cosiddetti giornali “d’area”. Che hanno preso il posto dei vecchi giornali di partito, scomparsi con le forze politiche di cui trasmettevano idee e umori: giornali a leggere i quali, quando si passava da un governo a un altro, si coglieva un po’ meglio di adesso, diciamolo francamente, come andavano le cose dietro la facciata delle consultazioni.
L’Unità del Pci, l’Avanti del Psi, Il Popolo della Dc, specie quando a dirigerlo verso la fine era Sandro Fontana con lo spirito sarcastico di Bertoldo, La Voce Repubblicana del Pri, La Giustizia del Psdi, spesso vere scuole di giornalismo, da cui sono usciti fior di editorialisti, inviati e direttori di quotidiani per niente di partito, appartengono ormai agli archivi. Adesso bisogna accontentarsi dei giornali, dicevo, “di area”. Che non rispondono ai partiti o movimenti di cui riflettono umori e tendenze, spesso cercando di dettar loro gli uni e le altre, come tanti “consigliori” al netto del significato o delle allusioni mafiose che questo termine si porta appresso, o addosso, ma spesso aiutano a capirne le pulsioni, le contraddizioni o la linea, quando ne hanno una. Spesso, dicevo, ma non sempre.
E’ accaduto, per esempio, che durante la lunga gestazione di questa crisi, prima che si formalizzasse con le dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il Giornale della famiglia Berlusconi reclamasse continuamente e vigorosamente le elezioni anticipate, come del resto ha fatto Silvio Berlusconi in persona dopo l’incontro della delegazione di Forza Italia, da lui personalmente guidata, con Mattarella al Quirinale. Ma contemporaneamente, e senza che si levassero smentite o precisazioni, sono comparsi altrove retroscena e quant’altro sull’”agghiacchiante arrivo”- parola del Fatto Quotidiano– di una guarnigione di ascari berlusconiani al seguito di Gianni Letta” per garantire ad un ribaltone giallorosso in funzione antisalviniana una “opposizione costruttiva” o “graduata”.
Ciò non significa tuttavia che Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio a schiena sempre orgogliosamente dritta si senta custode e sostenitore di una maggioranza giallorossa dura e pura, perché a leggerne la descrizione che fa del Pd, che dovrebbe sostituire i leghisti nell’alleanza con i grillini, c’è francamente da chiedersi se davvero esso ci tenga alla sorte e alla buona salute del Movimento delle 5 Stelle. Il cui “elevato”, “garante” e quant’altro, cioè Beppe Grillo, gli affida spesso i suoi urticanti commenti e messaggi al popolo.
“Trattare col Pd -ha appena scritto Travaglio in persona in un editoriale dopo il primo giro di consultazioni al Quirinale- è come trattare con la Libia. Fai l’accordo con Al Sarraj e poi scopri che non controlla neppure la scala del palazzo presidenziale perché quella è presidiata da Haftar. Però il tutto è occupato dalla milizia di Misurata, peraltro assediata dal capotribù dei Warfalla, diversamente dalle cantine contese dai clan Gadafda e Magharba. Così uno o se li compra tutti o si spara”.
Non hai finito di chiederti se Al Sarraj e Haftar siano paragonabili a Nicola Zingaretti o a Matteo Renzi, o viceversa, e già ti imbatti dopo qualche pagina in un racconto sui grillini, presumibilmente noti alla redazione del Fatto Quotidiano, che potrebbe bastare e avanzare per dissuadere il Pd dal tentare un accordo con loro, rischiando di essere travolto da faide interne di fronte alle quali impallidisce il ricordo di quelle dei tempi peggiori della Dc.
“La grandissima parte del Movimento -racconta Luca De Carolis a pagina 4 scrivendo appunto dei grillini- invoca Giuseppe Conte” ancora a Palazzo Chigi “ma Di Maio si sta già rassegnando al veto del Pd, cioè a far cadere il nome del premier uscente, di cui soffre popolarità e stile, e con il quale la distanza è da settimane profondo”, nonostante l’abbraccio nell’aula del Senato prima che salisse al Quirinale per dimettersi.
“Di Maio sa -continua il rapporto di De Carolis sulla situazione interna ai pentastellati- che i dem non potrebbero accettare sia lui che Conte in uno stesso esecutivo. E non ha voglia di fare un passo indietro, anche se alcuni big in queste ore glielo hanno chiesto proprio per arrivare a un Conte 2”.
Non finisce qui tuttavia il racconto esclusivo del Fatto Quotidiano, che prosegue così: “Di Maio, capo già molto indebolito, non ha voglia di sacrificarsi. Rimanere fuori dall’esecutivo gli farebbe perdere visibilità e altra quota nel Movimento, dove Beppe Grillo è tornato centrale. Però non potrebbe fare muro a un altro nome in costante ascesa per Palazzo Chigi: quello di Roberto Fico, il presidente della Camera, il grillino del cuore rosso antico, l’opposto del vice premier che lo soffre come avrebbe sofferto Conte. Ma Fico andrebbe benissimo a molti nel Pd”, soprattutto – mi permetto di aggiungere- all’ex ministro Dario Franceschini. Di cui è arcinota l’ambizione alla Presidenza della Camera, che si libererebbe con Fico a Palazzo Chigi. Essa mancò a Franceschin per un pelo nel 2013, quando l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, candidato peraltro alla guida di un governo “minoritario e di combattimento” cui i grillini rifiutarono l’appoggio, gli preferì a sorpresa, all’ultimo momento, Laura Boldrini. Che, fedele, lo avrebbe poi seguito fra i “liberi e uguali” col presidente del Senato Pietro Grasso nella scissione promossa da Massimo D’Alema.
Pubblicato su Il Dubbio
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Sala delle Vetrate del Quirinale, all’ora di cena, quello che sempre Breda ha definito “il messaggio forse più drammatico del suo settennato”. Esso si è concluso con la concessione di cinque giorni di tempo ai partiti maggiori per chiarirsi fra di loro, e ancor più al loro interno, e riferirgli in un altro giro di consultazioni programmato da martedì prossimo.
Pd o a quello alternativo della Lega, per niente chiuso nonostante le accuse e persino gli insulti precedenti e successivi alle dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La cui successione infatti, pur non dipendendo da lui il conferimento dell’incarico e poi la nomina, Matteo Salvini ha offerto a Luigi Di Maio apprezzandone esplicitamente il lavoro svolto come vice presidente e pluriministro dell’esperienza gialloverde, e scaricando quindi tutte le colpe delle incomprensioni, dei ritardi e quant’altro del governo uscente a Conte. Dei cui attacchi rivoltigli personalmente nell’aula del Senato, in toni a volte persino paternalistici, con quella mano appoggiatagli sulla spalla e quel “Matteo” pronunciato con aria beffardamente confidenziale, Salvini si è in qualche modo vendicato.
di Marco Travaglio, al quale non basta evidentemente “il cazzaro” autorizzatogli con tanto di sentenza dal tribunale di Milano, la sostanziale offerta di Salvini della Presidenza del Consiglio a Di Maio per un nuovo governo gialloverde preposto all’approvazione definitiva della riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari e alla predisposizione della manovra finanziaria e conseguente bilancio dello Stato, ha creato problemi all’interno del Movimento delle 5 Stelle.
la Repubblica di carta tra le foto di Di Maio e dello stesso Zingaretti- avendo avvertito il rischio di cattive sorprese. Una o la principale delle quali sarebbe quella di una gestione delle trattative, da parte del segretario del Pd, non a caso criticato nelle ultime ore dai renziani, finalizzata ad una rottura. Che consentirebbe a Zingaretti, con le elezioni anticipate, non la riduzione di tutti i parlamentari reclamata sotto le 5 Stelle, e destinata al naufragio con lo scioglimento delle Camere, ma la riduzione solo dei parlamentari del Pd riconducibili all’ex presidente toscano del Consiglio, oggi in grado di controllare i gruppi parlamentari del partito per averne determinato l’elezione l’anno scorso con i candidati scelti da lui stesso. Stavolta a sceglierli sarebbe Zingaretti. E il Pd diventerebbe davvero diverso
da quello di Renzi. Il quale peraltro rimane indigesto ai pentastellati anche dopo l’improvvisa apertura ricevuta, e ricambiata peraltro col rifiuto di farsi contaminare da qualche loro ministro particolarmente visibile in un eventuale governo di soccorso alla diciottesima legislatura cominciata solo poco più di un anno fa.
con tutti gli onori e ascoltato dal presidente della Repubblica in apertura, quasi, del rito
delle consultazioni “ad alta velocità”, per dirla con Giannelli nella vignetta del Corriere della Sera, o a “rotta di Colle”, secondo l’espressione di copertina del manifesto, per la soluzione di questa crisi agostana di governo, convulsa come i temporali d’estate.
all’elenco delle consultazioni al Quirinale. E’ anche, o soprattutto in questa congiuntura politica, uno degli esponenti di punta del Movimento delle 5 Stelle, peraltro reduce da un vertice conviviale convocato da Beppe Grillo nella sua villa al mare per dettare la linea alla vigilia delle dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Di cui proprio Fico potrebbe anche essere il successore per un governo e una maggioranza col Pd al
posto della Lega, vista “la falsa partenza” della crisi contestata dall’interessatissimo Fatto Quotidiano al segretario Nicola Zingaretti. Che ha posto in nome della “discontinuità” -contrastata, secondo il giornale di Marco Travaglio, da Matteo Renzi ma approvata all’unanimità dalla direzione piddina- un sostanziale veto alla conferma del professore e “avvocato del popolo”.
fatto con Matteo Salvini al Senato- commentando la crisi di governo apertasi in Italia con l’indicazione del “ vero perdente” proprio nel capo formale delle 5 Stelle. Che impara così a flirtare con i rivoltosi in giallo di Francia.
con Zingaretti, sia le elezioni anticipate. Che dalle sue parti, per quanto contrarie nella consapevolezza di uscirne a pezzi, forse anche peggio di fine maggio con le europee, sono talmente messe nel conto che Davide Casaleggio, o chi per lui, ha sollecitato i parlamentari morosi a pagare le trattenute mensili all’associazione o piattaforma Rousseau. La messa in regola con “le rendicontazioni” è stata reclamata entro il 2 settembre “in vista -è scritto nella comunicazione elettronica- di eventuali elezioni e dei relativi controlli da farsi per le candidature”. Un brivido deve avere percorso la schiena di molti destinatari di questa lettera.
all’apertura finalmente formale di una crisi in corso sui giornali almeno da un mese, per togliersi dalla scarpa i classici sassolini. Ma si è tolto solo quelli messigli da Matteo Salvini, cui ha fatto un processo da “avvocato del popolo”, secondo
la sua stessa originaria definizione, ma inteso come pubblico ministero: un processo in cui “il popolo” sarebbe la parte lesa. L’imputato leghista ha dovuto subire l’attacco, standogli seduto accanto ancora come vice e ministro dell’Interno, opponendogli solo o prevalentemente gesti di dissenso, prima di spostarsi sui banchi dei parlamentari del Carroccio e di parlare a propria difesa, peraltro interrotto ostinatamente dai senatori del Pd insofferenti della sua sopravvivenza fisica all’attacco di Conte. Che essi avevano applaudito nei passaggi
più significativi, come quello sulla “vicenda russa da chiarire” per i dubbi non risolti sulla ricerca di affari a “Moscopoli”, come la chiama la Repubblica di carta, da parte del leghista Gianluca Savoini.
concluso così il suo editoriale di giornata contro il leader leghista: “Ora il Cazzaro è al punto più basso della sua parabola politica. Solo il Pd può salvarlo. E pare che, ancora una volta, stia lavorando per lui”, nonostante o a dispetto dell’altro ribaltone: quello compiuto all’interno del partito dall’ex odiatissimo Renzi passando dai pop corn alle danze sotto le cinque stelle.
dell’innominato e uscente presidente del Consiglio, cui ancora la Repubblica di carta non perdona il velleitario annuncio di un “bellissimo” 2019.
a lui le responsabilità della crisi virtualmente aperta da allora, con la riserva di riferire al Parlamento in tempi non immediati. Che sono stati poi definiti a Palazzo Madama da una maggioranza generalmente salutata, si vedrà se a torto a ragione, come anticipatrice di quella destinata a sostituire l’alleanza gialloverde.
non vorrebbe far credere il giornale fondato da Eugenio Scalfari. In realtà, Di Maio è stato praticamente svuotato di funzioni e ruolo dal ritorno sulla scena, o retroscena, della politica di Beppe Grillo. Che è in grado di convocare col telefonino, o altra diavoleria elettronica, nella sua villa al mare anche la terza carica dello Stato, il presidente della Camera Roberto Fico, per dettare la linea rovesciandovi dentro tutti i suoi umori ora tornati antisalviniani, in linea d’altronde col rimprovero fatto direttamente l’anno scorso alla madre del leader leghista di averlo concepito rinunciando alla pillola. Il povero Zingaretti, dal canto suo, orfano come il fratello Luca di quel grande e popolare giallista che era diventato Andrea Camilleri, vive da qualche giorno nell’angoscia di trovarsi non davanti ma al seguito di un predecessore ingombrante come Matteo Renzi.
versione minimale, e forse per questo ritenuta da lui più digeribile o presentabile, non di un governo ribaltonista di coalizione ma di “un monolcolore grillozzo”: di quelli che faceva ogni tanto la Dc quando era partito di maggioranza, com’è ancora nelle attuali Camera il movimento delle 5 stelle, senza contare il tracollo elettorale nelle europee del 26 maggio scorso.
vorrebbe che fornisse un aiuto anche “l’amor suo” Silvio Berlusconi pur di “fermare” l’indigesto e pericoloso Salvini, si è proposto come consigliere, regista, protettore e altro ancora Romano Prodi. Che ha suggerito di chiamare “Orsola” la nuova maggioranza, dalla traduzione in italiano del nome della nuova presidente della Commissione Europea, la tedesca Ursula von der Leyen, eletta nel Parlamento Europea proprio con una convergenza determinante di voti dei deputati grillini, del Pd e di Forza Italia.
affettuosi, il “licenziato” Salvini, secondo il trionfalistico annuncio della Repubblica di carta, sembra nelle ultime ore francamente rassegnato, nonostante i bellicosi tentativi di resistenza che annuncia nelle interviste, compresa quella concessa per la seconda volta in pochi giorni al
direttore del Giornale della famiglia Berlusconi. Gli rimarranno “le piazze”, di cui egli ha appunto
parlato in questa intervista, solo per i comizi delle campagne elettorali regionali che il capo dello Stato ben difficilmente potrà impedire dal prossimo autunno alla prossima primavera, dopo essersi speso -se veramente si spenderà- per evitare quelli per il rinnovo anticipato delle Camere reclamato dal leader leghista.
così- al Colle già con i predecessori di Mattarella, il presidente della Repubblica alla vigilia delle dimissioni di Conte, e dell’apertura finalmente formale di una crisi in corso
già da tempo nel dibattito politico, è tentato da due soluzioni non elettorali: una “politica” e una “istituzionale”, entrambe giallorosse nei fatti. “Altrimenti resta il voto”, ha ammesso Breda, ma molto altrimenti.
che il manifesto ha chiamato “il buco delle lettere”, non mi sembra francamente che l’obbedienza di Salvini si sia tradotta in un successo politico del presidente del Consiglio. Che si è rivelato molto poco accorto quando si è scoperto che ben otto di quei 27 sbarcati come minorenni erano in realtà maggiorenni.
Conte, “il leader più apprezzato in Italia e all’estero”, anche se si può carpirne così facilmente la fiducia contrabbandandogli per minorenni otto maggiorenni su 27 in un solo sbarco. O anche se i grillini hanno potuto contestarne così clamorosamente al Senato lo sblocco della Tav da presentare una mozione di segno contrario, obbligandolo a disertare la seduta non si è capito se più per vergogna, o per rabbia, o per opportunismo contando sulle opposizioni per far prevalere la decisione maturata a Palazzo Chigi a favore del completamento della linea ferrovia ad alta velocità per il trasporto delle merci dalla Francia all’Italia, visto che la rinuncia sarebbe stata ancora più costosa della realizzazione.
di “rimpiangere” l’editore Berlusconi comfrontandolo con Salvini- se a farla così pazza non ha contribuito proprio lui vomitando tutti i pop corn appena mangiati e proponendo un governo con gli odiati grillini. Che egli impedì al suo partito l’anno scorso, all’inizio della legislatura, con una intervista televisiva che vanificò la riunione della direzione convocata dal segretario di allora, Maurizio Martina, per il giorno dopo.
in programma per martedì al Senato e per mercoledì alla Camera, gli avversari danno la rappresentazione di un uomo disperato, di un tattico sprovveduto e di uno stratega conseguentemente fallito. E persino di un vanesio che, dopo essersi abbronzato sulle spiagge, si fa quasi arruolare come un raccoglitore di pomodori o fiori nei campi del virtuale, o aspirante, suocero Denis Verdini.
Conte, dal Quirinale fanno sapere, attraverso l’”analisi” del solito Marzio Breda sul Corriere della Sera, che il capo dello Stato, rientrato a Roma dalla Sardegna, si aspetta “chiarezza”, beato lui, dai partiti e rispettivi leader che dovranno sfilargli davanti nel rito delle consultazioni.
anticipate chieste, prima degli ultimi ripensamenti, dal leader della Lega.
Di cui pure il già citato Feltri ha scritto su Libero che “l’ora del coglione piglia tutti, come si dice in Emilia Romagna”. O di cui Marcello Sorgi ha sanzionato sulla Stampa “la credibilità perduta”. O cui Mario Ajello sul Messaggero ha ricordato il celebre aforisma di Ennio Flaiano “Lei non può immaginare quanto io non sia irremovibile nelle mie idee”.
di un governo gialloverde guidato da Luigi Di Maio. proposta smentita dal capo del Movimento delle 5 Stelle, fermo al sarcastico rimprovero già fatto al leader leghista di avere fatto “una frittata”.
sul Fatto Quotidiano ha declassato Salvini, con tanto di editoriale e fotomontaggio, a un “mendicante” dedito ad “accattonaggio molesto”. “Ora Salvini ha paura”, ha titolato la Repubblica per avere “sottovalutato”- gli ha gridato il quotidiano del Sud- un’altra paura: quella che lui procura agli altri in acqua, tra linguacce sulle spiagge e blocchi dei porti, e in terra, chiedendo
agli elettori “pieni poteri” dai palchi dei suoi comizi. Sollevato forse proprio da questa paura svanita con gli errori rimproveratigli -ripeto- persino dall’amico Vittorio Feltri, il manifesto ha rappresentato Salvini in mutande, e non da bagno.
all’inizio dal leader leghista. “Potrebbe essere sdrammatizzato -ha scritto il quirinalista del Corriere della Sera- persino il ricorso all’esercizio provvisorio”, altre volta avvertito con paura da Mattarella, per quanto contemplato dalla Costituzione, “purchè tutto ciò avvenga in nome di una riconquistata stabilità politica”. Cui Salvini, almeno sino a qualche giorno o settimana fa, riteneva che si potesse approdare solo rinnovando le Camere in anticipo, dopo i mutati, anzi capovolti, rapporti di forza elettorale fra grillini e leghisti col voto europeo del 26 maggio.
assai compromessa dopo che il primo ha rimproverato al secondo, a proposito della vicenda dei migranti soccorsi dalla nave del volontariato Open Arms battente bandiera spagnola, “l’ennesima, a dire il vero, sleale collaborazione” e l’”ossessiva” riduzione della complessa gestione dell’ancor più complesso fenomeno dell’immigrazione alla formula dei “porti chiusi”. Ma è “un’ossessione”
di cui il leader leghista di è detto” orgoglioso” con ciò confermando implicitamente, nonostante la sfida apparente, la consapevolezza di essere ormai diventato un problema personale nei rapporti con Conte, e quindi la disponibilità a risolverlo con un’altra edizione della stessa maggioranza.