Assalto piatto a Matteo Salvini dopo l’arresto di Paolo Arata e figlio

            Di piatto, ormai, non c’è solo, o non c’è più, il tipo di tassazione proposto dalla Lega per tentare la rianimazione dell’economia italiana, già riuscita in altre parti del mondo considerate però eretiche dai sapientoni dell’Unione Europea. Di piatto c’è anche, o soltanto, il tipo d’intervento dannatamente casuale, per carità, della magistratura nelle congiunture politiche, quando queste si fanno particolarmente critiche e dense di incognite, almeno per gli equilibri più o meno consolidati a vari livelli.

            Tramortita dai risultati elettorali del 26 maggio, costatagli 15 dei 32 punti percentuali di voti conquistati il 4 marzo dell’anno scorso nel rinnovo ordinario delle Camera, l’anima giustizialista del movimento grillino è risorta con l’annuncio di straordinaria e -ripeto- dannatamente casuale  tempestività dell’arresto di Paolo Arata e del figlio Francesco in Sicilia per riciclaggio, corruzione e non so cos’altro ancora, ma di probabilmente affine alla mafia.

             I due sono riferiti o riferibili alla Lega: l’uno come esperto di energia, inchiodato fotograficamente alla partecipazione ad un convegno del Carroccio in materia, e l’altro come socio, non essendo ancora reato il rapporto parentale, di un’azienda eolica condivisa con un detenuto, Vito Nicastri,  sospettato di sostenere la latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro.

              Già entrati nelle cronache politiche durante la campagna elettorale per i rapporti con l’allora sottosegretario leghista Armando Siri, rimosso dopo essere risultato indagato di corruzione Il Fatto.jpgper avere cercato, sia pure inutilmente, di varare norme che potessero consentire incentivi all’azienda posseduta con Nicastri, i due Arata vi sono tornati adesso più prepotentemente e invasivamente per il loro arresto. Che ha consentito a vignettisti, fotografi, titolisti e quan’altri di confezionare un processo mediatico contro La Lega, e più in particolare Salvini, rappresentato da Vauro, per esempio, sul solito Fatto Quotidiano come un frate orante e benedicente.

                L’unico Arata ancora libero, almeno di quelli noti dello stesso nucleo familiare, è il giovane Federico, consulente del Dipartimento Economico, se non ricordo male, della Presidenza del Consiglio, apprezzato pubblicamente sia da FEDERICO ARATA.jpgSalvini sia dal potente sottosegretario del Carroccio Giancarlo Giorgetti. Di lui vedrete che prima o dopo qualcuno chiederà l’autosospensione, o qualcosa di simile, che potrebbe quanto meno dare al giovanotto la consolazione di paragonarsi a qualcuno dei consiglieri superiori della magistratura che si trovano in questa condizione nel Palazzo dei marescialli.

                 La situazione di Paolo Arata, già politicamente critica  per i rapporti pur troppo enfatizzati con Salvini in persona, come lo stesso Salvini si è appena lamentato fra un’aggressione e l’altra ROLLI.jpgsubita sui terrazzi del Viminale dai gabbiani sfuggiti alla sorveglianza della polizia fluviale, si è aggravata col ricordo dei suoi trascorsi, persino parlamentari, con Forza Italia: quella naturalmente del “pregiudicato” Silvio Berlusconi, come ricorda ogni volta che può Marco Travaglio sul suo giornale. E come ha imparato bene il collaboratore, oltre che animatore e non so cos’altro del Movimento 5 Stelle, Alessandro Di Battista: Dibba per gli amici e simpatizzanti.

                 E’ proprio del giovane Di Battista, maliziosamente immaginato fuori e dentro casa, diciamo così, come uno che non vede l’ora di subentrare all’amico Luigi Di Maio come capo del movimento grillino, che manifesto.jpgsi sono già levate le grida contro la Lega contaminante, che a Forza Italia “ruba non solo voti ma anche uomini” e presumo pure donne più da galere che da discoteche. Il berlusconismo insomma vive ormai fra di noi, si dispera Dibba dopo un anno e più di forzata convivenza politica, e di governo, col baracconismo di origine arcorese, almeno nella concezione che sembra averne il compagno di partito di Di Maio.

                  Intanto anche dalle parti del Cavaliere si nutrono verso Salvini, il suo partito e i suoi più stretti oIL GIORNALE.jpg affini alleati, in quel che resta ormai del centrodestra, sentimenti non proprio amichevoli. Il Giornale Ferrara.jpgdella famiglia Berlusconi ha appena titolato in prima pagina sulle “trame” elettorali di “Salvini-Toti-Meloni”. E Giuliano Ferrara, in persona, sul suo Foglio ha cercato di spingere il “Truce” leader leghista, coi tempi che corrono, e con i problemi che lo incalzano, tra gli uffici comunitari di Bruxelles e quelli giudiziari di Palermo o affini, verso la rovina di una “dodicesima campagna elettorale”.

                  Ma prima di questo salto elettorale nel buio, se vi si farà trascinare, Salvini dovrà presentarsi, forse come persona informata dei fatti, diciamo così, davanti a quella specie di tribunale speciale che è diventata la commissione parlamentare antimafia, presieduta ora dal grillino Nicola Morra. Che, in verità, lo convocò già il mese scorso, ai tempi del non ancora deposto sottosegretario Siri, ma adesso sembra che non sia più intenzionato a concedergli pause o rinvii.

 

 

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Lo scafandro che non riuscirà forse a proteggere Giuseppe Conte

            Temo che non sarà sufficiente al povero Giuseppe Conte Lo scafandro in cui Emilio Giannelli lo ha infilato sulla prima pagina del Corriere della Sera per fargli “conquistare lo spazio” o le profondità, secondo i gusti, della cosiddetta fase 2 del governo gialloverde, incautamente autoassegnatasi dal presidente del Consiglio nelle pur proibitive condizioni politiche createsi con i risultati delle elezioni europee del 26 maggio. Esse consistono nel forte, a dir poco, soprasso dei leghisti sui grillini, nel ritrovato bipolarismo tra centrodestra e centrosinistra nelle amministrazioni locali, nel marasma rimasto o addirittura aumentato nel movimento delle 5 stelle col frettoloso salvataggio digitale della leadership ammaccata di Luigi Di Maio e nella procedura europea di infrazione per eccesso di debito messa in cantiere dalla pur uscente commissione di Bruxelles. Al cui presidente in persona, il lussemburghese Jean Claude Juncker non è parso vero vendicarsi di nuovo delle volte in cui dall’Italia il leghista Matteo Salvini, ora diventato il capo del partito più votato, gli ha dato dell’ubriacone.

            Farete con i vostri conti una brutta fine, ci ha mandato a dire Juncker soffiando sulla procedura d’infrazione con quel poco d’aria che gli è rimasta nei polmoni politici di capo della Commissione europea. E Conte dall’interno dello scafandro, anziché restarsene zitto, come forse preferiva il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sempre prodigo di consigli alla prudenza nei rapporti con Bruxelles e dintorni, ha mandato Juncker a quel paese rinfacciandogli gli errori commessi a suo tempo, sempre a Bruxelles, contro la Grecia e riconosciuti col solito ritardo, a danni già compiuti e irreparabili, dallo stesso presidente scaduto della Commissione.

            Con questa reazione, tuttavia, Conte non ha soltanto derogato alla cautela d’ispirazione quirinalizia. Egli si è sbilanciato, con tutto quel peso addosso, verso la posizione che dovrebbe temere di più, o dalla quale Giannelli Gazzetta.jpgha cercato di proteggerlo maggiormente con quella vignetta: la posizione per nulla remissiva di Salvini. Che lo stesso Conte avverte così minacciosamente da averlo ammonito dopo le elezioni del 26 maggio a darsi una regolata per avere vinto solo una partita giocata fuori dal Parlamento nazionale, dove i rapporti di forza sono rimasti quelli di prima, e non potranno cambiare senza ricorrere alle elezioni anticipate, se lui avrà il coraggio di reclamarle davvero, assumendosene le responsabilità e soprattutto convincendo il presidente della Repubblica a dargliele.

            L’animosità, i sospetti, la paura e quant’altro di Conte verso Salvini si ritrovano in un titolo galeotto del Fatto Quotidiano in prima pagina, dove spesso fanno dire al presidente del Il Fatto.jpgConsiglio quello che vorrebbero sentirgli gridare, arrivando nella scorsa settimana il direttore Marco Travaglio persino a tradurre in un editoriale quello che si aspettava di sentir dire il giorno dopo a Palazzo Chigi dal capo del governo nella conferenza stampa annunciata urbi ed orbi. “Sfuriata di Conte a Salvini”, ha sparato con le sue pallottole di carta il direttore del Fatto facendogli spiegare: “Basta dipingermi come il nuovo Monti, sennò ti sbugiardo”.

           Immagino i brividi nella schiena del ministro dell’Interno nel suo appartamento di servizio, a pochi passi da Piazza Venezia e dal fatidico balcone su cui chissà quante volte i suoi avversari vorrebbero vederlo per meglio apparentarlo al Duce, come hanno fatto nella campagna elettorale cogliendolo in fallo da comizio su un terrazzo a Forlì, peraltro conquistandone poi il Comune.

            Nella foga demolitrice del “capitano” o del “truce”, come preferisce chiamarlo sul Foglio Giuliano Ferrara, al Fatto Quotidiano hanno anche incorniciato Il Fatto 2 .jpgil dispetto, diciamo così, fatto a Salvini, in concorso fra loro da Palazzo Chigi e dal Quirinale, sforbiciandogli il tanto atteso e reclamizzato decreto legge bis sulla sicurezza, in modo da toglierli “le multe per i migranti” salvati in mare. Ma al Corsera.jpgmanifesto sono stati più avveduti ripiegando su unmanivfeso.jpg titolo di copertina che dice “Raggiro di vite”. E il raggiro sta nel fatto che le multe non sono state rimosse, ma laciate: “da 10 a 50 mila euro per i comandanti e gli armatori che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane impartito dal ministro dell’Interno”. In caso di recidiva “i prefetti”, non quindi i magistrati, “possono disporre -dice il decreto- la confisca dell’imbarcazione”, per la cui custodia sono stati stanziati 500 mila euro per quest’anno e un milione di euro per ciascuno dei due anni successivi.

 

 

 

 

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Giuseppe Conte tra il presente sofferto con i suoi vice e un incerto futuro

             Da quando i giornali, chi più e chi meno, hanno iscritto d’ufficio il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, specie dopo i risultati delle elezioni europee del 26 maggio, e col suo sostanziale benestare espresso definendosi “orgoglioso” dei rapporti col Quirinale, al cosiddetto “terzo partito”, costituito dal capo dello Stato e dai ministri prevalentemente tecnici degli Esteri e dell’Economia, l’uno diplomatico e l’altro economista, ho notato dal mio modestissimo osservatorio un certo imbarazzo di Sergio Mattarella. Che ha continuato, per carità, a tenere l’agenda piena di impegni, servitigli spesso per esternazioni riferibili, con qualche allusione culturale o costituzionale, a fatti e contingenze politiche, ma si è fatto adesso più parco nell’uso delle parole.

            Forse il presidente della Repubblica ha avvertito il pericolo di coprire troppo il presidente del Consiglio in quella che un notista politico di lunga esperienza come Stefano Folli ha Salvini.jpgdefinito su Repubblica la ricerca di “una seconda vita”, dopo un anno trascorso all’ombra, o quasi, dei sue dueDi Maio.jpg vice e capi dei rispettivi partiti di governo: il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini. Più che il presidente, egli ne era apparso qualche volta il sottosegretario, secondo la impietosa rappresentazione di qualche critico.

            Ora invece Conte vuole “carta bianca” dai vice finalmente accorsi al suo invito per un vertice a Palazzo Chigi,La Stampa.jpg ha titolato La Stampa. “Il premier sfida i due vice”, ha annunciato La Gazzetta del Mezzogiorno.Gazzetta.jpg Il vignettista del Fatto Quotidiano, Vauro, lo ha rappresentato spazientito nell’accogliere sulla porta i due vice accorsi sgomitando e litigando fra di loro, come se fossero ancora in campagnaVauro.jpg elettorale e non si fossero già riconciliati incontrandosi qualche giorno prima su un altro piano di Palazzo Chigi, quando Conte era ancora in Vietnam. Ma più realisticamente Repubblica ha titolato “Due contro uno”, e Repubblica.jpgIl Messaggero “assedio a Conte”. Che dall’idea di poter dare finalmente Schermata 2019-06-11 alle 06.14.05.jpgordini ai due vice, avvalendosi delle prerogative del famoso articolo 95 della Costituzione, più volte rinfrescato alla sua memoria da Mattarella in persona fra un piatto e l’alto delle loro colazioni di servizio e di cortesia al Quirinale, temo stia passando alla paura di doversi rassegnare a tornare a prenderne, di ordini. E ciò, sia pure a schiena apparentemente dritta, facendo buon viso a cattivo gioco, e ripetendo ad ogni giornalista ammesso al suo telefono o alla sua presenza di essere pronto, per carità, a lasciare, cioè a dimettersi, piuttosto che “galleggiare” o, come diceva e spesso preferiva la buonanima di Giulio Andreotti, a “tirare a campare, piuttosto che tirare le cuoia”.

            D’altronde, pur avendo di suo un doppio e ben remunerato o remunerabile mestiere, di professore universitario e di avvocato civilista, e sulla carta persino qualche titolo per aspirare al doppio ruolo di tecnico e politico ;izolini.jpgpronosticatogli o attribuitogli sul Giornale della famiglia Berlusconi dall’immaginifico Augusto Minzolini, dopo aver fatto il presidente del Consiglio Conte difficilmente potrà trovare nel quadro competitivo riaperto a vari livelli dai risultati elettorali di questa primavera elettorale, la “nuova vita” di cui ha scritto Folli. A meno che non gli basti quella foto galeotta in un giardino, alle prese anche lì però non con uno ma con due cani.

 

 

 

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Se le profezie diventano maledizioni: da Moro a Falcone, dalla Dc al Csm

E’ fastidioso giudicarsi fra di noi, ma mi chiedo lo stesso perché mai il Corriere della Sera abbia ritenuto di prendere sabato scorso le distanze con la formula epistolare del “Caro direttore”, pur nella onorevole pagina dei commenti, da un articolo di Giuseppe Ayala sulla crisi gravissima esplosa nel Consiglio Superiore della Magistratura. Dove alla fine sono venuti al pettine tutti i nodi avvertiti sulla propria pelle da Giovanni Falcone e da lui stesso denunciati in un discorso pronunciato a Milano il 5 novembre 1988: un anno apertosi il 18 gennaio con la sua bocciatura alla guida dell’Ufficio dei giudici istruttori al tribunale di Palermo. Seguì, fra l’altro, lo smantellamento dello storico  pool antimafia costituito da Antonino Caponnetto.

Del Consiglio Superiore della Magistratura e di Falcone, che ne fu in qualche modo vittima ben prima di essere assassinato dalla mafia a Capaci con la moglie e la scorta il 23 maggio del 1992, il 74.enne Giuseppe Ayala ha scritto e può tornare a scrivere a ragion veduta per essere stato magistrato di lungo corso, interrotto per 14 anni dall’impegno politico di deputato, di senatore e -per 4 anni- anche di sottosegretario alla Giustizia.

Di Falcone, e di Paolo Borsellino, trucidato Ayala e Borsellino.jpgdalla mafia pure lui nel 1992, Ayala fu grandissimo amico, e non solo collega, condividendone le fatiche nel primo maxi-processo alla mafia nel ruolo di pubblico ministero. In pensione da 7 anni e mezzo, egli è ora vice presidente della Fondazione Falcone, non certo a caso.

Anche da pensionato, con la passione della toga che gli è rimasta intatta dentro, e forse anche cresciuta dopo le delusioni forse provate da politico, Ayala continua naturalmente a interessarsi delle vicende della Giustizia, e a discuterne in pubblico quando gli capita, come accadde due anni fa in una trasmissione radiofonica con l’allora consigliere superiore della Magistratura Luca Palamara, già presidente del sindacato delle toghe e oggi inquisito a Perugia proprio per la vicenda delle nomine che ha investito il Consiglio in carica nel Palazzo dei Marescialli. Di quel confronto con Palamara, che gli offrì l’occasione di ripetere le critiche anticipate già nel 1988 da Falcone ai colleghi e all’organo di autogoverno della Magistratura, Ayala ha voluto ricordare nell’articolo sul Corriere della Sera l’invito ricevuto a “smetterla di fare il qualunquista”.

Ma veniamo a Falcone e ai suoi rapporti col Csm evocati da Ayala. Che ha selezionato, per segnalarne la preveggenza ai lettori, questo passaggio del discorso del 5 novembre 1988 a Milano: “Le correnti dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, anche se per fortuna non tutte in egual misura, si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio Superiore. E quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata nell’organo di autogoverno della Magistratura con pesantezza sconosciuta anche in sede politica”.

Rispetto alla situazione stigmatizzata 31 anni fa da Falcone, e 27 anni dopo la morte di quel valoroso magistrato costretto infine a preferire Roma e il Ministero della Giustizia al tribunale della sua Palermo, la situazione  si può considerare solo peggiorata. Sul Csm, come già accadde per Morojpg.jpgla Dc con quei severissimi moniti rivolti da Aldo Moro prima di essere ucciso dalle brigate rosse,  è in qualche modo caduta come una “maledizione” la spietata analisi di Falcone. Che fu peraltro costretto il 15 dicembre 1991 a subire anche un mezzo processo nel Palazzo dei Marescialli, risparmiatoci nei ricordi di Ayala, per le insinuazioni di Leoluca Orlando contro una sua presunta eccessiva prudenza o copertura, addirittura, dei presunti livelli politici della mafia.

E’ caduto vittima del tempo e dei costumi anche quell’inciso generoso di Falcone su “non tutte le correnti per fortuna in egual misura” responsabili della deriva politicizzata e castale dell’ordine giudiziario.

Già deplorevole di suo, e condotto sul doppio binario delle riunioni negli alberghi con politici e ospiti di ogni tipo e di quelle delle commissioni e del plenum del Consiglio Superiore nel Palazzo dei Marescialli, il mercato correntizio delle carriere si aggiunge ad una organizzazione degli uffici giudiziari che lascio descrivere ad una fonte insospettabile come quella del Fatto Quotidiano, non certo prevenuta contro le toghe.

Ha appena scritto, domenica sul giornale diretto da Marco Travaglio, il buon Giorgio Meletti: “L’opacità, spacciata per serietà, è l’arma letale di un potere malato. Consente ai pubblici ministeri di parlare solo con i giornalisti amici e, per questa via, di decidere a loro capriccio a quali indagini dare risonanza e quali lasciare sconosciute, quali reputazioni distruggere e quali proteggere”.

In questa situazione ha del temerario pretendere fiducia nella magistratura all’annuncio di ogni inchiesta o avviso d garanzia, e dell’eroico accordarla.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Ballottaggi felici per Salvini, di sollievo per Zingaretti, di ansia per Di Maio

             Con la conquista di Ferrara, strappata alla sinistra dopo una settantina d’anni, quanti ne ha all’incirca la Repubblica, la Lega di Matteo Salvini può forse intestarsi davvero il secondo e decisivo turno delle corpose elezioni amministrative di questo 2019, prezioso scampolo -in qualche modo- delle elezioni europee del 26 maggio. Che sono state già molto generose per il Carroccio, avendone fatto il partito pìù votato in Italia con quel 34 per cento umiliante soprattutto per i momentanei alleati grillini di governo, precipitati di quindici punti in un solo anno di collaborazione con la Lega, appunto.

            Un sospiro di sollievo può ben essere riconosciuto dopo i ballottaggi comunali al Pd di Nicola Zingaretti, che ha potuto riconquistare la postazione storica di Livorno e conservare, fra l’altro, quella di Reggio Emilia.

            I grillini avevano ben poco da giocare nei ballottaggi, essendo in pista solo a Campobasso. Dove hanno vinto -e alla grande, bisogna ammetterlo- con quel 69 e più per cento contro il 30,9 del candidato del centrodestra- ma ad un prezzo politico particolarmente imbarazzante e un pò ansiogeno per il loro capo Luigi Di Maio, reduce da un pranzo con Beppe Grillo in persona in cui gli ha chiesto aiuto con tutte e due le mani, non bastandogliene una, per contenere nel movimento il debordante leader dell’ala ortodossa di sinistra e presidente della Camera Roberto Fico. Ebbene, a Campobasso le cinque stelle hanno potuto brillare grazie alla luce ad essa fornita, votando il loro sindaco, dal Pd caro a Fico. E il partito di Zingaretti ha potuto a sua volta avvalersi anche di quel poco di energia rimasta ai grillini nella lontana Livorno per riprendersene il Municipio.

            Non è proprio il massimo della chiarezza, e neppure del conforto, bisogna ammetterlo, per la decisione appena presa a Roma da Di Maio, col sostegno di Grillo, Davide Casaleggio e appendici, di rianimare l’alleanza di governo col pur cresciuto di peso Salvini. Che ora gli può dettare l’agenda di governo ancor più di prima e contare sul suo aiuto anche per contenere le ambizioni nel frattempo cresciute del presidente del Consiglio Giuseppe Conte per l’aria Salvini.jpgimmessa nelle sue gomme dal presidente della Repubblica in persona, Sergio Mattarella, disposto a concedere al professore, avvocato e quant’altro persino le elezioni anticipate nel caso in cui gli venisse la tentazione di rompere con i due vice assedianti e aprire una crisi di governo. Dalla quale però Salvini, non proprio nelle grazie del capo dello Stato, con tutte le allusioni critiche che gli rivolge in giro per le stanze del Quirinale e per le piazze e le strade d’Italia, avrebbe tutto da guadagnare e Di Maio tutto, ma proprio tutto da perdere.

            In questa situazione un po’ paradossale e pasticciata, archiviata ormai la primavera elettorale di questo 2019,  che doveva essere peraltro per Conte “un anno bellissimo”, si apre la cosiddetta, conclamata e scaramanticamente rischiosa “fase 2” del governo gialloverde, tra problemi falsi e veri, manovre sopra e sotto traccia, a livello nazionale ed europeo. Dove una procedura d’infrazione per eccesso di debito messa è stata appena messa in cantiere dalla pur uscente Commissione di Bruxelles. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha annunciato dal lontano Giappone, dopo averne parlato col promotore Pierre Moscovici, la convinzione di potersene e potercene risparmiare uno sviluppo infausto. Ma il solo scambio delle prime lettere di contestazione dei conti  ha già precluso di fatto all’Italia la possibilità di aspirare nella nuova Commissione di Bruxelles alla successione, guarda caso, proprio al francese Moscovici.

 

 

 

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In diretta dall’Italia il solito passaggio dal dramma alla commedia

            La facilità di passare in Italia, per fortuna, dal dramma alla commedia è nota e provata grazie anche a celebri Coomedia striscioni.jpgpellicole che hanno allietato milioni di spettatori, al di qua e al di là dei confini, peraltro tornati di moda col sovranismo di Matteo Salvini. Che Eugenio Scalfari ha appena scudisciato nell’omelia domenicale su Repubblica Coomedia striscioni.jpgcome “un dittatore nazionale” in erba e “un razzista con una piumetta di cattolicesimo”, per niente gradita al decano del giornalismo italiano, estimatore dichiarato e difensore laico di Papa Francesco. Di inedito, nella facilità del passaggio dal dramma alla commedia, c’è solo il contributo che si sono dimostrate di dare in questo campo le diramazioni del Viminale al comando proprio di Salvini.

              Il ministro dell’Interno non ha avuto bisogno neppure di dare un ordine alla Questura di Roma, intervenuta di propria iniziativa, con ironia che sarei tentato di augurarmi non casuale, per proteggere il “paesaggio” e il “decoro” della terrazza del Pincio e della sottostante Piazza del Popolo impedendo che venisse srotolato uno striscione della Uil contro lo stesso Salvini e il suo socio politico Luigi Di Maio: uno striscione  preparato per divertire una manifestazione sindacale a favore del pubblico impiego.

            Infastidito da tanta solerzia, peraltro ripetuta perché di quello striscione è stato poi impedito l’uso anche in altro modo, non pensile, lo stesso Salvini, nella triplice veste di vice presidente del Consiglio, ministro dell’Interno e leader del partito italiano più votato nelle elezioni europee del 26 maggio scorso, si è affrettato a prenderne le distanze. Lo stesso ha fatto il vice presidente grillino del Consiglio e pluriministro Luigi Di Maio, che ha spiritosamente adottato nei suoi profili telematici la gigantesca vignetta che lo rappresentava preoccupato della sfortuna derivante al governo dalle proteste sindacali e tranquillizzato dalla garanzia di Salvini di “portarsi avanti col lavoro” ai fianchi, diciamo così, della Uil e associazioni affini.

            Ancor più che da Salvini, tuttavia, Di Maio è stato rinfrancato nelle ultime ore da Beppe Grillo in Di Maio con Grillo a Bibbona.jpgpersona. Che nella sua villa a Bibbona, non so se più sceso o salito ancora dal ruolo di “garante”, “elevato” e quant’altro assegnatosi nel movimento da lui stesso fondato, ha concesso a “Giggino” un pranzo di protezione e di reinvestitura dopo i 15 punti percentuali su 32 perduti nelle elezioni europee di quindici giorni fa, e quelli che stanno per rotolare nei ballottaggi comunali di questa seconda domenica di giugno.

            “Presto saremo più forti di prima”, lo ha consolatoNazione.jpg Grillo incoraggiando il vice presidente del Consiglio allegramente a concedere ai leghisti anche un generoso per quanto innominabile rimpasto di governo, come si chiamava questa pratica nella lontana e odiata prima Repubblica. Egli ha consentire anche l’ipotesi di rimozione della sua omonima ministra della Salute, la siciliana Giulia. Che pure lo stesso Grillo aveva appena apprezzato sul suo blog difendendola dai malumori esterni e interni al movimento. Persino sotto le cinque stelle, quindi, si fa presto a passare dal dramma alla commedia, con maggiore professionalità forse che altrove, visto il mestiere di comico del fondatore per niente defilato e distratto del movimento sceso in un anno dal primo al terzo posto della graduatoria elettorale, superato non solo dalla Lega ma anche dal Pd di Nicola Zingaretti.

            Neppure quest’ultimo tuttavia scherza a passare dal dramma alla commedia, quale merita di essere obiettivamente chiamata la partecipazione piddina allo scandalo, vero o presunto che sia, dei minibot per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione. Che erano stati auspicati con una mozione parlamentare approvata all’unanimità, col voto quindi pure del Pd, oltre che col parere favorevole del governo, espressosi col ministro dei rapporti con le Camere, il grillino Riccardo Fraccaro, con tanto di barba autorevole e convinta, e  poi spaccatosi di fronte alle critiche e proteste europee: a cominciare da quelle del presidente italiano della Banca Centrale dell’Unione, Mario Draghi, convinto della loro impraticabilità per l’aumento neppure tanto occulto del debito pubblico appena contestato dalla Commissione di Bruxelles col sostanziale avvio di una procedura d’infrazione. Che si è già tradotta, peraltro, in un indebolimento della capacità negoziale dell’Italia per la distribuzione delle cariche comunitarie dopo le elezioni del 26 maggio.

            La spaccatura del governo gialloverde sui minibot, fra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte quanto meno perplesso, e ancora una volta spiazzato dagli eventi, il ministro dell’Economia Giovanni Tria contrario manifesto.jpge i due vice presidenti del Consiglio ancora convinti della loro utilità e praticabilità, accomunati anche dalla sfida allo stesso Tria a trovare qualcosa d’altro per far pagare finalmente dallo Stato i debiti ai suoi creditori, è stata al solito tradotta in un felice titolo di copertina del manifesto: Sotto Bot.

            Ugualmente comico è stato, a proposito dei minibot, il ripensamento di Forza Italia, dove peraltro Silvio Berlusconi ha nuovamente scoperto e apprezzato i vantaggi dell’alleanza pur sofferta con la Lega del debordante e sempre Il Gionle.jpgpiù attrattivo Salvini. Con un titolo in prima pagina dedicatogli dal Giornale di famiglia l’ex presidente del Consiglio ha anticipato la sua soddisfazione per i “fortini rossi” in via di “espugnazione” da parte del centrodestra a trazione leghista nei ballottaggi comunali che stanno concludendo questa primavera elettorale.

 

 

 

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Il gradimento è mobile, come la donna nel Rigoletto di Giuseppe Verdi

            Ora che è finito, per fortuna, anche il supplemento della campagna elettorale di primavera e partiti, leader e leaderini sono in attesa solo dei risultati dei 163 ballottaggi comunali di domani 9 giugno, di cui 15 in capoluoghi di provincia, è davvero augurabile che tutti si diano una calmata e facciano seriamente di conto. E si decidano, magari, ad affrontare i problemi sul tappeto -sia quelli vecchi sia quelli maturati negli ultimi giorni, a cominciare dalla procedura europea d’infrazione per eccesso di debito messa in cantiere dalla pur uscente Commissione di Bruxelles- con maggiore consapevolezza delle loro forze.

            Potrà essere utile, a questo riguardo, in particolare alla maggioranza gialloverde che sembra ricompostasi attorno ai due vice presidenti del Consiglio, incontratisi a Palazzo Chigi senza neppure aspettare il ritorno a Roma dal Vietnam del presidente Giuseppe Conte, che era partito minacciandoli di abbandono, un esame delle rivelazioni appena effettuate per il Corriere della Sera dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli.

            Nel mese e poco più trascorso dal 2 maggio al 5 giugno, comprensivo quindi della parte culminante e alquanto burrascosa della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, del consiglio regionale del Piemonte e di quasi quattromila amministrazioni comunali, e dei loro risultati, noti nella loro interezza nella giornata del 27 maggio, l’indice di gradimento del governo ha perso ben 4 degli 8 punti giocatisi dall’insediamento. Non mi sembrano francamente pochi, anche se il gradimento è ancora di due punti sopra il 50 per cento.

            Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che pure qualche volenteroso ha accreditato del 12 per cento dei voti se decidesse di mettersi in proprio, visti i problemi che gli creano i due vice, e di allestire per le prossime elezioni politiche, anticipate o ordinarie che siano, una sua lista, come fece Mario Monti nel 2013, ha perduto in un mese 6 punti, pur fermandosi a 53. Che è lo stesso livello di Matteo Salvini, partito tuttavia dal 49 per cento personale di un anno fa, contro il 63 del professore, avvocato “del popolo” e via discorrendo, compreso “l’uomo che si fa Stato” gridato al Circo Massimo il 21 ottobre 2018 da Di Maio davanti al pubblico radunatosi anche per festeggiare la fine della povertà. Essa era stata trionfalisticamente annunciata qualche sera prima dal balcone di Palazzo Chigi dallo stesso vice presidente. Era stata la sera -ricordate?- della sfida alla Commissione europea di Bruxelles, e a tutto ciò ch’essa poteva rappresentare oltre l’Unione, col deficit portato nel progetto di bilancio del 2019 al 2,4 per cento del pil: salvo poi premettere uno 0 al 4, dopo faticose trattative condotte da Conte per bloccare la procedura d’infrazione anche allora di fatto già avviata.

            Non può certamente stupire, anche ricordando quella infelice serata e tutto ciò che n’è poi seguìto, compresi il 15 per cento dei voti perduti dai grillini il 26 maggio rispetto al 32 per cento del 4 marzo 2018 per il rinnovo delle Camere, se Di Maio ha conservato quel 32 nell’ultimo rilevamento dell’Ipsos di Pagnoncelli solo come indice di gradimento personale, rispetto al 47 dell’insediamento.

            Per sua fortuna -o sfortuna, si vedrà- il vice presidente grillino del Consiglio ha già evitato col referendum digitale allestitogli in tutta fretta da Davide Casaleggio di perdere la guida del movimento delle 5 stelle, pur lasciatagli -credo- da buona parte di quelli che lo hanno salvato solo per fargli intestare anche la prossima, prevedibile sconfitta.

            Peggio di Di Maio tuttavia sono messi i suoi ministri, fra i quali si distinguono per caduta di gradimento Ipsos 2.jpgpersonale, sempre secondo le rilevazioni ultime dell’Ipsos di Pagnoncelli per il Corriere della Sera, l’ineffabile Danilo Toninelli, precipitato alla guida delle Infrastrutture dagli iniziali 46 punti, prima della caduta del ponte Morandi a Genova, a 21. Che sono comunque sempre più dei 20 del ministro per i rapporti col Parlamento Riccardo Fico, o della ministra del Mezzogiorno Barbara Lezzi, sempre pentastellati.

 

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Il momento dei Rieccoli: la coppia Di Maio-Salvini e…Berlusconi

Indro Montanelli, morto nel 2001 alla pur bella età di 92 anni, non ha fatto in tempo a conoscere la coppia politica guadagnatasi il diritto alla successione a quel famosissimo “Rieccolo” da lui affibbiato ad Amintore Fanfani. Che cadeva e si rialzava con una ostinazione da primato.

Luigi Di Maio e Matteo Salvini, vice presidenti del Consiglio in ordine sino a poco tempo fa sia alfabetico sia di consistenza elettorale, ora solo in ordine alfabetico, visto il rovesciamento dei rapporti forza nelle urne del 26 maggio, hanno ritrovato l’intesa perduta in una campagna elettorale condotta, nelle ultime battute, senza esclusione di colpi.

Essi si sono riconciliati, con tanto di comunicato da summit, in un lungo incontro a Palazzo Chigi svoltosi non a caso, secondo talune maliziose letture di stampa, al minuscolo e al maiuscolo, in assenza del vero padrone di casa: il presidente Giuseppe Conte, in viaggio di ritorno dal Vietnam. Dove il professore si era recato dopo avere dato un ultimatum, sia pure senza scadenza, proprio a loro due perché gli risparmiassero, con la loro sostanziale incomunicabilità, le dimissioni e la conseguente apertura della crisi.

Sembra che i vice avessero gradito poco quell’uscita di Conte avvertendo il rischio che spianasse la strada, con la disponibilità del capo dello Stato rassegnata o minacciosa, secondo i punti di vista, a mettere nella toppa del Quirinale la chiave delle elezioni anticipate. Alle quali, a conti fatti, né Di Maio, che pure ne aveva avvertito l’odore, o la puzza, nei progetti del suo omologo leghista, né Salvini sono evidentemente interessati.

Che non avesse interesse Di Maio si era capito subito dalla consistenza drammatica della sua sconfitta elettorale il 26 maggio, con quei quindici punti perduti in un anno. E che non gli sono costati la carica di capo del movimento delle 5 stelle proprio per il timore delle elezioni anticipate anche da parte dei suoi critici, interessati perciò ad accollargli pure il successivo, prevedibile insuccesso.

Che non avesse interesse neppure Salvini non era invece scontato, nonostante la convinzione da lui espressa pubblicamente prima e dopo il voto che fosse necessario andare “avanti”, senza neppure la necessità o il proposito di chiedere quello che una volta si chiamava “rimpasto” per distribuire in modo più conveniente gli incarichi di governo, e prenotare anche quelli di sottogoverno.

Forti pressioni per elezioni anticipate, dietro la facciata di un partito galvanizzato dai successi elettorali e politici del suo “capitano”, si avvertivano fra i leghisti. Dei quali aveva parlato in pubbliche dichiarazioni, e con un certo compiacimento, anche Silvio Berlusconi nella speranza, almeno apparente, che riuscissero a smuovere Salvini e a farlo tornare nell’ovile del centrodestra, intanto ingranditosi in tutte le realtà locali dove si è votato dopo il 4 marzo dell’anno scorso.

Invece, guarda caso, proprio dopo un incontro di due ore avuto con Berlusconi domenica scorsa, complice forse la circostanza di abitare a Roma l’uno di fronte all’altro, Salvini deve avere ricavato l’impressione che le elezioni anticipate non convenissero neppure a lui, oltre che a Di Maio.

A dare la notizia di questo incontro, cui è seguito cronologicamente e politicamente quello di Salvini con Di Maio a Palazzo Chigi, è stato il giornale di famiglia dell’ex presidente del Consiglio e leader a vita di Forza Italia, dandone una versione un po’ troppo ottimistica, forse, visti gli sviluppi successivi. Che si sono tradotti in un rafforzamento delle prospettive del governo gialloverde, pur su un percorso pieno di ostacoli o di mine, a cominciare dalla procedura europea di infrazione per debito eccessivo messa in cantiere contro l’Italia dalla Commissione uscente, ma non per questo omissiva o rinunciataria, dell’Unione.

Per quanto il Cavaliere, archiviata con la campagna elettorale anche la candidatura del suo fedelissimo Antonio Tajani a Palazzo Chigi, non proprio musica per le orecchie del leader leghista, si sia ritagliato un ruolo lontano, acquistando casa a Bruxelles e proponendosi di essere fra i più attivi nel nuovo Parlamento europeo, Salvini non sembra proprio entusiasta, né impaziente, della possibilità di  un ritorno con lui, fatti salvi -per carità- i loro rapporti personali. Che sono di amicizia e persino di simpatia, a volte.

Tutto sommato, la coppia Di Maio-Salvini appena rinata dalle ceneri delle elezioni europee, ma anche piemontesi e amministrative del 26 maggio, senza voler fare torto a nessuno dei due, e agli interessi politici che entrambi perseguono legittimamente, pur confliggenti spesso fra di loro, può ben essere definita quella della paura.

Parlo non tanto della paura che  la coppia gialloverde incute presso gli altri, avversari o concorrenti che siano, quanto di quella che ciascuno dei suoi componenti nutre: per Di Maio la paura delle elezioni anticipate e per Savini la paura del ruolo che riesce ancora a conservare Berlusconi, per quanto ridotto a risultati elettorali da una cifra soltanto.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Di Maio e Salvini: la coppia politica anticipata 2000 anni fa da Ovidio

             La buonanima di Ovidio -sì, proprio lui, Publio Ovidio Nasone, il poeta di Sulmona vissuto duemila anni fa- dev’essersi affacciata a Palazzo Chigi, dove vive l’ultima edizione della sua famosissima coppia immortalata con le parole “nec sine te nec tecum vivere possum”: non posso vivere né con te né senza di te. O, in un altro passaggio della sua ode, con queste parole: “Ti odierò se potrò, altrimenti ti amerò controvoglia”.

            I vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico, sono Gazzetta.jpgtornati non solo a sentirsi o a messaggiarsi -da messaggi- con gli strumenti che il povero Ovidio non poteva neppure immaginare ai suoi tempi, ma anche ad incontrarsi e a ritrovare la voglia di stare insieme, dopo una campagna elettorale che li aveva letteralmente stressati e portati sulla soglia della rottura sotto gli occhi esterrefatti di Giuseppe Conte. Il quale, a dispetto dell’orgoglio ogni tanto ostentato, specie quando ne è incoraggiato con particolare insistenza al Quirinale da Sergio Mattarella, vive la sua insperata avventura di presidente del Consiglio per effetto di quei suoi due vice che, a quanto pare, non possono proprio fare a meno l’uno dell’altro.

            Dal muralemurale 2.jpg che li ha presentati per un po’ come due duellanti con la pistola in mano che aspettano l’ordine di separarsi per spararsi addosso, Di Maio e Salvini sono tornati al murale dell’anno scorso, di murale 1.jpgquesti tempi, che a pochi passi da Montecitorio, esattamente in Piazza Capranica, li aveva rappresentati in amorosi sensi.

            E’ francamente difficile dire, forse neppure con l’aiuto dei più celebri e attrezzati psicanalisti sul mercato, chi o cosa abbia maggiormente contribuito a ravvivare fra i due l’attrazione politica capace, a questo punto, di allontanare anche il fantasma delle elezioni anticipate d’autunno, se non addirittura d’estate. Cui pure sembrava rassegnato, per finta o davvero, il presidente della Repubblica: l’unico che ne abbia le chiavi, a dispetto di quanti nei giorni pari, e spesso anche in quelli dispari, ne parlano come se ad averle fossero loro.

            Può avere contribuito alla rinascita della coppia lo stesso Mattarella consigliando, a dir poco, a Conte di mettere sul tavolo la minaccia delle dimissioni e della crisi. O addirittura, dalla lontana Bruxelles, il commissario europeo Pierre Moscovici avviando di fatto una Conte.jpgprocedura d’infrazione per eccesso di debito che ha tolto a Conte, nel frattempo volato in viaggio ufficiale nel Vietnam, ogni tentazione, se mai gli fosse già venuta in mente in una terra famosa perGiornale.jpg esserne stata teatro, di adattarsi alla guerriglia gialloverde. O possono avervi contribuito, ora che ne ha dato notizia il Giornale di famiglia, le due ore trascorse insieme domenica scorsa da Silvio Berlusconi a Roma con Salvini. Che peraltro da ministro dell’Interno dispone di un alloggio di servizio di fronte alla residenza romana del Cavaliere. Due ore d’incontro, ripeto: altro che le telefonate di cui hanno riferito altri quotidiani.

            In quei 120 minuti -scusate la malizia di un vecchio giornalista abituato da una sessantina d’anni a scrivere di politica- il leader leghista potrebbe avere toccato con mano, al di là del rispetto e dell’amicizia che sicuramente nutre per Berlusconi, le difficoltà di una riedizione post-elettorale del centrodestra a livello nazionale, per quanto esso raccolga vittorie seriali a livello locale. E può essersi convinto che, tutto sommato, gli conviene di più continuare a spremere il limone della maggioranza gialloverde, peraltro realizzata un anno fa col permesso, e persino con l’incoraggiamento, come ricorda spesso con pubbliche dichiarazioni, da Berlusconi in persona, contrario allora alle elezioni politiche anticipate, dopo quelle ordinarie svoltesi il 4 marzo.

            Di quelle elezioni anticipate il fondatore e leader a vita di Forza Italia non temeva solo, come ama dire quando ne parla in pubblico, il caldo da stagione. Ne temeva di più il caldo politico che, complice la disaffezione elettorale  da bagni, avrebbe potuto rafforzare in una riedizione del Parlamento il sorpasso leghista appena registrato nelle urne all’interno del centrodestra. Ed era, dal punto di vista di Berlusconi, un timore per niente ingiustificato, provato dai risultati di tutte le elezioni locali poi affrontate dal centrodestra. Che tuttavia non hanno per niente convinto l’ex presidente del Consiglio, per quanto si sia nel frattempo ritagliato uno spazio d’azione, o distrazione, a livello europeo approdando al Parlamento di Strasburgo, e comperando casa a Bruxelles, a rinunciare alla convinzione di essere l’elemento centrale di una riedizione del centrodestra a livello nazionale.

            Ecco, la paura che sotto sotto, o sopra sopra, ha di un Berlusconi solo apparentemente convesso o concavo, secondo le circostanze, può avere indotto Salvini a ritrovarsi d’accordo con Di Maio, peraltro fortemente indebolito dai risultati elettorali del 26 maggio e in preda, a sua volta, della paura delle elezioni anticipate. Che peraltro accomuna nel movimento delle 5 stelle Di Maio a tutti quelli che pure gli vorrebbero fare la festa ritenendolo responsabile dei 15 punti e più persi nelle urne in un anno. “Meno 15”, qualcuno già chiama sarcasticamente il vice presidente del Consiglio e pluriministro sotto le 5 stelle.

            L’abito rolli.jpgdi Di Maio è diventato troppo largo dopo il 26 maggio e quello di Salvini troppo stretto, anche se il leader leghista, scopertosi peraltro padre di 60 milioni di italiani da sfamare, preferisce indossare comode felpe piuttosto che gessati, ma le convenienze li accomunano più di quanto non li dividano. Con quali effetti sul Paese, si vedrà.

 

 

 

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I misteri della porta di Bruxelles lasciata “aperta” all’Italia da Moscovici

             A dispetto dell’annuncio anche in italiano di averla lasciata aperta, pur quando di sostanzialmente aperta c’è solo la cosiddetta procedura d’infrazione contro l’Italia proposta al vertice politico dell’Unione, la porta del commissario europeo Pierre Moscovici sembra chiusa, o socchiusa nella più ottimistica interpretazione, ai meno sprovveduti o più autonomi osservatori politici. Che cercano di non confondersi nel nostro bel Paese né con le opposizioni né con il governo di turno, specie poi con quello in carica, composto da partiti reduci da una campagna elettorale nella quale non si riusciva francamente a capire chi dei due vice presidenti del Consiglio, fra il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, fosse davvero al governo e chi all’opposizione pure lui.

            Come si dice sovente anche dei magistrati quando iscrivono qualcuno sul registro degli indagati, dimenticandosi poi di informarlo o lasciando che a farlo sia qualche giornale prescelto nell’anticipazione, si è detto anche del francese Moscovici, e del solito lettone Valdis Dombvskis, d’accordo con lui nella Commissione di Bruxelles sull’analisi critica dei conti italiani, che ha fatto solo un atto “dovuto”, lasciando impregiudicate la difesa del governo di Roma e le valutazioni finali. Che spetteranno alla sede politica dell’Unione Europea, cioè ai capi di Stato o di governo Rolli.jpgdei paesi aderenti, o dei ministri economici dell’area  dell’euro, quando se ne occuperanno. Intanto le due parti si scambieranno altre valutazioni e informazioni, con cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dal lontano Vietnam e il ministro dell’Economia Giovanni Tria da Roma si sono affrettati a sperare di poter fare cambiare idea a Moscovici, declassato benevolmente  dall’ex presidente italiano della Commissione di Bruxelles, Romano Prodi,  a un professore che si è limitato confezionare “le pagelle” ai conti, peraltro non solo di casa nostra.

            A parte la benevolenza, vera o presunta, di un professore vero com’è Prodi, il paragone con “l’atto dovuto” dei pubblici ministeri calza fino ad un certo punto perché non credo che l’Unione Europea fosse stata concepita dai suoi padri fondatori e sia diventata per strada, nonostante tutti gli errori che sono stati certamente commessi, specie allargandola sempre di più dopo la caduta di quello che era il blocco sovietico, come un tribunale: per giunta all’italiana, con la pratica tutta nostra della cosiddetta obbligatorietà dell’azione penale. Che, per quanto scritta nella Costituzione, per carità, come tante altre cose apprezzabilissime, è più una finzione che una realtà, più un’ipocrisia che altro, perché nei fatti la discrezionalità del magistrato, nei suoi tempi, nei suoi metodi d’indagine, nella scelta dei collaboratori fra gli agenti della polizia giudiziaria, è ben superiore alle apparenze già notevoli, o a quanto non si voglia far credere.

            La procedura d’infrazione -o “d’infezione”, come l’ha definita sarcasticamente Il Foglio- per debito eccessivo è stata di fatto avviata contro l’Italia nel momento e in circostanze che più sospette nonIl Foglio.jpg si potessero immaginare: con una Commissione uscente, sostanzialmente scaduta con le elezioni europee del 26 maggio, e in vista -non ditemi, per favore, soltanto casuale- dei negoziati politici fra i governi per la nomina della nuova Commissione. Alla quale l’Italia avrà diritto di partecipazione con un commissario di un peso non certo indipendente dalla procedura d’infrazione, o d’infezione, appena messa nel piatto. O no?

            Non so poi se definire più ingenuo o farisaico l’invito fatto pubblicamente proprio da Moscovici ai mercati finanziari, affollato notoriamente di squali, a non profittare della porta dalla quale è uscita la sua lettera al governo italiano, chiusa o aperta o socchiusa che sia rimasta, per giocare con i titoli di Stato italiano come coi birilli. Mi chiedo se Moscovici ci faccia o ci sia, considerando anche la circostanza che i suoi referenti a Parigi hanno contemporaneamente bloccato, non certo per amore o simpatia per l’Italia, l’operazione già concordata  di fusione fra la nostra ex Fiat, ora Fca, e la francese Renault.

            Alla luce anche di tutte queste considerazioni mi chiedo se sia, non dico patriottico perché questo sentimento è stato un po’ deprezzato dall’uso che ne fanno i cosiddetti sovranisti, ma decoroso il salto delle opposizioni di sinistra e di centro al governo gialloverde sul cavallo di Moscovici per rovesciarlo, o aggravarne le difficoltà.

             Mi ha fatto una certa impressione vedere partecipare a questo assalto, in particolare, anche quel che resta ormai della Forza Italia del vecchio, anzi antico Silvio Berlusconi. Che ancora parla, ogni volta che può, della caduta del suo ultimo governo, nell’autunno del 2011, come Berlusconi.jpgdi un “complotto” ordito fra Roma, Bruxelles e altre capitali europee: un complotto cui lui si prestò dimettendosi da presidente del Consiglio dopo avere chiesto, peraltro, all’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano il piacere e l’onore di apporre la sua pur non indispensabile controfirma al decreto quirinalizio di nomina a senatore a vita di Mario Monti, destinato a prenderne il posto a Palazzo Chigi.

            Qualcosa tuttavia va detto anche a Matteo Salvini, il leader della Lega che, questa volta sostenuto di nuovo da Di Maio, ha contestato l’iniziativa di Moscovici, e di quanti gli stanno accanto e sopra. Mi chiedo quando il buon “capitano” si renderà conto che ha scelto in Europa gli alleati sbagliati, a cominciare dall’ungherese Viktor Orban, che lo ha appena scaricato,  per sostenere con una certa efficacia la sua pur giusta causa di cambiare regole, parametri e quant’altro dei vecchi trattati per evitare che l’Unione diventi un inferno per chi ne fa parte senza la dovuta sottomissione a Berlino o a Parigi, o a entrambe.

 

 

 

 

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