Il fortino assediato di Giovanni Tria al Ministero dell’Economia

            C’è un sospetto nei piani alti, e non solo in quelli bassi, dei palazzi della politica. Che il presidente uscente ma pur sempre operativo della Commissione europea  Jean-Claude Juncker nella missione compiuta a Roma, in particolare fra Palazzo Chigi e il Quirinale, abbia voluto alludere anche a quello dell’Economia Giovanni Tria parlando genericamente  di “alcuni ministri bugiardi” nel governo italiano.

            Il sospetto nasce, fra l’altro, dal fatto che con i suoi interlocutori il presidente della Commissione europea ha insistito a parlare delle difficoltà a dir poco contabili della pur “cara” Italia, e della necessità di farvi fronte con una certa urgenza. Eppure il ministro Tria ha pubblicamente assicurato che dall’Europa non sono arrivati e non arrivano richieste o manifestazioni d’interesse per manovre correttive nel nostro Paese.

            D’altronde, solo a parlare di manovre correttive, non a caso escluse da entrambi i vice presidenti del Consiglio per conto dei partiti che rappresentano nel governo, vengono i brividi nella maggioranza gialloverde per i temuti contraccolpi nella campagna elettorale in corso per il rinnovo a fine maggio del Parlamento europeo e di moltissime amministrazioni locali. Ai cui risultati sono appesi gli sviluppi della situazione politica, anche se il leader leghista Matteo Salvini assicura i suoi alleati grillini, timorosi di vedere confermata la curva discendente delle loro cinque stelle, che non ha alcuna intenzione di provocare una crisi di governo, evidentemente con richieste indigeribili per l’altra parte.

            Ma la crisi, sincere o non che siano le assicurazioni di Salvini, è un’ombra che ogni giorno si allunga di più sulla maggioranza e sullo stesso governo a causa dei conflitti che, anziché ridursi, aumentano. Fra i quali spicca in queste ore quello scoppiato attorno proprio al ministro Tria, che si sente bersaglio di attacchi da “spazzatura”, come ha confidato al Corriere della Sera, in particolare dai grillini. Che hanno chiesto e ottenuto dal presidente del Consiglio, con riserva di Tria e consiglierapg.jpgrivolgersi con più forza anche al capo dello Stato, un intervento sul ministro per “chiarire”, diciamo così, il ruolo della sua consigliera Claudia Bugno, aspettandosene una rimozione che il ministro ha negato. Le ha anzi confermato pubblicamente piena fiducia, rimediandosi dal Fatto Quotidiano, il più vicino fra i giornali al movimento delle 5 stelle, un ruvido trattamento, con annessa vignetta.

             Pure sul presidente del Consiglio Giuseppe Conte il giornale diretto da Marco Travaglio ha avuto da ridire per non essere stato Fatto su  Tria.jpgabbastanza esigente col ministro Tria, e con la vicenda, fra l’altro, di un figlio della seconda moglie  assunto dall’azienda del marito della sua consigliera. Alla quale -altra accusa dei grillini- Tria avrebbe tolto un incarico, diciamo così, suppletivo in una società a partecipazione statale solo per concederle un altro forse più vantaggioso, nel Consiglio di Amministrazione dell’Azienda Spaziale Italiana.

            Questa storia, francamente più da cortile che da palazzo, si sovrappone alla ben più politica contestazione delle resistenze opposte da Tria al provvedimento predisposto dal governo per liquidare i Repubblica.jpgdanneggiati dalle banche fallite. Alla fretta di entrambi i partiti della maggioranza di chiudere questa partita prima delle elezioni di fine maggio il ministro oppone, oltre alle perplessità espresse in sede comunitaria, il rischio suo personale e dei suoi dipendenti di rispondere dei danni contestabili dalla Corte dei Conti in assenza di truffe lamentate dai risparmiatori ma non comprovate sul piano giudiziario. E poi,  c’è la lunga storia dei rapporti mai felici fra Tria e i partiti che ne reclamavano già nella scorsa estate maggiori aperture a spese in deficit per realizzare il costoso contenuto del loro contratto di governo.

            Il livello della tensione nella maggioranza su quello che si può ormai chiamare l’affare Tria, pur con qualche differenza di tono fra grillini e leghisti, più incalzanti i primi e più cauti i secondi, emerge dalla nettezza con la quale il ministro dell’Economia, sentendosi probabilmente spalleggiato dal Quirinale, ha liquidato come “sciocchezze” le dimissioni che qualcuno si aspetta da lui. “Se andassi via -ha spiegato al Corriere della Sera, per  nulla “intimidito” dalla campagna in corso contro di lui- dovremmo vedere quale sarebbe la reazione dei mercati”, troppo snobbati evidentemente da chi gli sta facendo una guerra per niente nascosta.

 

 

 

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Mezzo secolo di governi litigarelli: da Moro a Conte, i pugliesi di Palazzo Chigi

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte per una volta si è dunque mostrato insofferente sbottando contro la poca “sobrietà” dei suoi ministri, presi più dalla campagna elettorale per le europee e le amministrative di fine maggio che dai doveri della “generosità” operativa in un’alleanza per quanto anomala qual è quella fra i grillini e i leghisti. Che si accordarono l’anno scorso dopo esserle dette di tutti i colori sulle piazze fisiche e telematiche, come era già accaduto nelle elezioni politiche del 1976 ai democristiani e ai comunisti. Ma quelli si erano poi spinti a fare insieme una maggioranza di tregua, non un governo.

Erano altri tempi. E c’erano pure altri uomini, con ben altre esperienze e partiti alle spalle. Uno di quelli era Aldo Moro, l’ultimo pugliese passato per Palazzo Chigi prima di Conte, che non ha nascosto l’ambizione di ispirarvisi, almeno per conterraneità.

Ma, tutto sommato, è proprio a Moro, fra gli altri, che Conte potrebbe pensare se volesse consolarsi misurando la temperatura della sua compagine ministeriale.

Moro non aveva ancora formato il suo primo governo “organico” di centro-sinistra, col trattino, avendone Moro.jpgsolo prenotato la guida dopo le elezioni del 1963 affrontate e vinte come segretario della Dc, che già impensieriva l’allora presidente della Repubblica, e collega di partito, Antonio Segni. Il quale, nell’estate di quell’anno, prima volle che Giovanni Leone imbarcasse nel Antonio Segni.jpgsuo governo cosiddetto “balneare” come ministro del Tesoro il fedelissimo Emilio Colombo. Poi, dando a quest’ultimo un passaggio in auto dopo la partecipazione ai funerali di Giovanni XXIII, ne incoraggiò le ambizioni con questo ragionamento: alla fine dei bagni con Leone preferirei dare l’incarico di formare il governo a te, che sei giovane, piuttosto che a Moro. Il quale peraltro aveva 47 anni: solo quattro in più del neo-ministro del Tesoro.

            Colombo prese così sul serio Segni che, confermato dopo qualche mese al suo posto da Moro nel primo governo di alleanza vera e propria con i socialisti, trasformò il dicastero di via XX Settembre in una specie di fortino politico. Dove autorizzava le spese col contagocce, o quasi, preoccupato dalla “smania” dei socialisti, come avrebbe raccontato lui stesso dopo molti anni in una intervista, di allargare la borsa per fare avvertire laColombo.jpg svolta costituita dal loro arrivo al potere. E, poiché Moro fingeva di non capire o di non sentire, ad un certo punto gli scrisse una lettera per denunciare i rischi di una crisi economica e finanziaria continuando a soddisfare le richieste degli alleati.

Per un disguido dei suoi uffici, a sentire il racconto di Colombo, o apposta, come apparve a Moro o ai suoi più stretti collaboratori, quella lettera arrivò anche nella cassetta della posta di Cesare Zappulli al Messaggero, prossimo al Quirinale quanto a Palazzo Chigi. Scoppiò un finimondo politico che nell’estate del 1964 impedì a Segni, allo scoppio della crisi del primo governo Moro sul problema del finanziamento alla scuola privata, di mettere Colombo in pista per la successione alla presidenza del Consiglio. Fu una crisi rovente, con i “rumori di sciabole” riferite dal leader socialista e vice presidente del Consiglio Pietro Nenni nei suoi diari.Saragat.jpg A crisi risolta, ci fu una sfuriata del ministro socialdemocratico  degli Esteri Giuseppe Saragat a Segni, colto da ictus mentre il suo interlocutore, presente peraltro Moro, gli rimproverava di avere cercato di strozzare il centro-sinistra in culla con un aiuto militare.

Da quell’ictus Segni non si sarebbe più ripreso, sostituito a fine anno proprio da Saragat con un’operazione politica finalizzata da Moro alla cosiddetta stabilizzazione del centro-sinistra, ma subìta dai democristiani con disagio neppure tanto nascosto.

Proprio per coprirsi bene le spalle all’interno del suo insofferente partito Moro sostituì Saragat alla Farnesina con l’”altro cavallo di razza” della Dc, come veniva chiamato Amintore Fanfani accoppiandolo nella scuderia scudocrociata allo stesso Moro. Ma furono per il presidente del Consiglio più guai che sollievi.

Gli americani, abituati all’atlantismo ferreo di Saragat, non gradirono la svolta della politica estera tentata da Fanfani, scavalcando anche i socialisti, con iniziative di vario tipo in Estremo Oriente per porre fine al conflitto vietnamita. La più famosa e clamorosa di quelle iniziative fu un viaggio del sindaco fanfaniano, appunto, di Firenze Giuseppe La Pira ad Hanoi, la capitale del Vietnam comunista del Nord.

Di quel viaggio, come se non bastassero i sospetti pubblici e privati dei governanti americani, cercò di spiegare le buone Fanfani.jpgintenzioni e i possibili effetti positivi la stessa moglie di Fanfani in una intervista a Gianna Preda, firma di punta del settimanale di destra Il Borghese, che lo stesso marito definì “improvvida” dimettendosi da ministro. Ma non senza sottrarsi a un dibattito parlamentare nel quale si tolse qualche sassolino dalla scarpa, di fronte a un Moro a dir poco imbarazzato, accusando gli alleati americani di confondere praticamente il Ministero degli Esteri italiano per il Ministero delle Poste.

Difficoltà non mancarono durante la cosiddetta prima Repubblica neppure nei governi cosiddetti monocolori, composti interamente da democristiani, dove pure si presumeva che dovesse essere più facile andare d’accordo. In quello -il primo presieduto da Giulio Andreotti – che nel 1972 Andreotti.jpgche portò il Paese alle elezioni anticipate dopo l’interruzione del centro-sinistra con l’ascesa di Giovanni Leone al Quirinale per succedere a Saragat, il ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin si rifiutò di giurare, preferendo andare da un barbiere davanti a Montecitorio. Dovette intervenire il paziente amico Moro, ministro degli Esteri e mancato presidente della Repubblica, per convincerlo alla disciplina il giorno dopo.

In un altro dei monocolori di Andreotti, quelli appoggiati dai comunisti fra il 1976 e il 1978, lo stesso Donat-Cattin e Antonio Bisaglia crearono tanti di quei problemi al presidente del Consiglio da indurlo a cedere alla richiesta del Pci di Enrico Berlinguer di lasciarli fuori in occasione dell’ultima crisi, gestita come presidente della Dc da Moro. Che volle e seppe salvarli entrambi, pochi giorni prima che venisse sequestrato dalle brigate rosse fra il sangue della sua scorta per essere ucciso anche lui dopo 55 giorni. Durante i quali un altro ministro democristiano creò problemi ad Andreotti. Fu Arnaldo Forlani, che alla Farnesina, contravvenendo in qualche modo alla linea della fermezza presidiata dal Pci nella maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale”, strappò al segretario generale delle Nazioni Unite un appello per la liberazione di Moro. Le brigate rosse, se avessero voluto, avrebbero potuto vendersi  quel fatto politicamente come un riconoscimento internazionale della loro formazione eversiva.

Quando si tornò ai governi di coalizione il buon Giovanni Spadolini, il primo al quale la Dc cedette il passo a Palazzo Chigi, dovette dimettersi nel 1982 per una incontenibile lite da “comari” scoppiata fra il ministroSpadolini.jpg democristiano del Tesoro Nino Andreatta e quello socialista delle Finanze Rino Formica, scambiato ad un certo punto addirittura per un “nazionalsocialista”. Il contrasto fu sul ruolo e sulle competenze della Banca d’Italia, che fino ad allora era stata costretta a garantire al Tesoro la collocazione di tutti i titoli del debito pubblico.

A Bettino Craxi, costretto nei quattro anni trascorsi a Palazzo Chigi, fra il 1983 e il 1987, a guardarsi spesso più dall’alleato segretario della Dc Ciriaco De Mita che dall’avversario Enrico Belinguer e dai suoi successori, toccò ad un certo punto di essere messo in difficoltà dal suo compagno di partito e ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis. Che rifiutò le scuse reclamate dal capoCraxi e De Michelis.jpg dello Stato, il socialista Sandro Pertini, per avere incontrato a Parigi il rifugiato Oreste Scalzone, ricercato per terrorismo in Italia. Per protesta Pertini cominciò uno sciopero non dichiarato della firma, che in pochi giorni paralizzò a tal punto il governo da indurre Craxi a intimare a De Michelis le scuse.

Il sesto e penultimo governo pentapartitico di Andreotti sopravvisse fortunosamente nel 1990 alle dimissioni dei ministri della sinistra democristiana, fra i quali Sergio Mattarella, presentate per protesta contro la legge che aveva regolarizzato le televisioni private di Silvio Berlusconi. Il miracolo avvenne per la sostituzione repentina dei dimissionari consentita dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga fra la sorpresa e le proteste persino del partito -il Pri- cui apparteneva l’autore della legge: il ministro delle Poste Oscar Mammì.

I governi litigarelli, chiamiamoli così, affollarono anche la cosiddetta seconda Repubblica, seguita alla prima grazie al combinato disposto delle inchieste giudiziarie su Tangentopoli e di una nuova legge elettorale per i tre quarti maggioritaria e solo per un quarto proporzionale. Pur forte, come riteneva per essersi proposto direttamente agli elettori come presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi durò la prima volta a Palazzo Chigi meno di una gravidanza per il fuoco amico dei leghisti. Che prima lo sconfessarono sul decreto legge, pur controfirmato immediatamente dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, per limitare il ricorso alle manette durante le indagini preliminari e poi lo fecero cadere sullo scoglio della solita riforma delle pensioni. Intanto il Cavaliere entrava nell’interminabile tunnel giudiziario dove si sarebbe  abituato a viaggiare costantemente.

Tornato alla guida del governo nel 2001 grazie alla riconciliazione con la Lega di Umberto Bossi, il fondatore e leader del centrodestra dovette fare i conti con vice presidenti del ConsiglioBerlusconi e Fini.jpg insofferenti e ingombranti, secondo le occasioni, come Gianfranco Fini, Marco Follini e Giulio Tremonti, a volte talmente in conflitto fra di loro da eliminarsi. Tremonti, per esempio, dovette dimettersi dopo essersi sentito dire da Fini che Fin e Tremonti.jpgpoteva anche intendersi di economia, ma non certo di politica. Poi a Fini, nel frattempo passato dall’esperienza della Farnesina a quella di presidente della Camera, venne la tentazione di far fuori politicamente lo stesso Berlusconi, mancando l’obiettivo per poco.

Richiamato al Tesoro con una scelta che sembrò riparatrice da parte del Cavaliere, Tremonti divenne per Berlusconi nel 2011 un problema forse ancora più grande della crisi finanziaria importata da oltre Oceano. Nei giorni scorsi, commentando le rivelazioni fatte su quella torrida estate di otto anni fa da Fabrizio Cicchitto con la ricostruzione della storia di Forza Italia, Tremonti ha moltiplicato anziché ridurre i misteri delle tensioni e infine della rottura con Berlusconi. Egli ha detto, in particolare, che non è ancora arrivato il momento giusto per sentire la sua versione dei fatti.

Anche il governo tutto tecnico di Mario Monti, succeduto all’ultimo del Cavaliere, dovette perdersi per strada il ministro addirittura degli Esteri, Giulio Terzi di Sant’Agata, per un clamoroso dissenso sulla gestione dell’affare indiano dei militari italiani arrestati per un’operazione anti-pirateria. Ancora più clamorosa era stata la disavventura occorsa al governo tecnico di Lamberto Dini, succeduto a Berlusconi nel 1995, con la sfiducia praticamente imposta dal Quirinale contro il guardasigilli Filippo Mancuso, scontratosi con la Procura di Milano per una ispezione indesiderata.

Neppure i governi di centrosinistra, senza più il trattino delle prime, autentiche versioni morotee, se la sono cavata bene durante la seconda Repubblica. Romano Prodi non è mai riuscito a guidarli, come invecemastella e prodi.jpg è accaduto bene o male almeno una volta a Berlusconi, per una intera legislatura cadendo sempre per il cosiddetto fuoco amico. L’ultimo, nel 2018, solo formalmente cadde per la reazione del ministro della Giustizia Clemente Mastella all’arresto della moglie, con l’ennesimo intreccio fra politica e giustizia. In realtà, il guardasigilli aveva già liquidato il governo affacciandosi una mattina nella stanza del presidente del Consiglio per annunciargli che non si sarebbe lasciato “fottere” -testuale, secondo i suoi stessi racconti- dalla “vocazione maggioritaria” proclamata da Walter Veltroni fondando l’anno prima il Pd e assumendone la segreteria.

Non dimentichiamo infine il fuoco amico di Matteo Renzi contro il governo di Enrico Letta, nè quello dei vari Massimo D’Alema al governo Renzi e persino a quello di Paolo Gentiloni, durante il quale si consumò il suicidio della scissione del Pd.

 

 

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