E’ un vero peccato che Ennio Flaiano non sia più con noi, e dall’ormai lontano 1972. Dalla visita del presidente della Cina Xi Jinping a Roma, e di tutto ciò che se ne sta scrivendo e dicendo, anche ai margini degli accordi commerciali
che la condiscono, Flaiano avrebbe saputo trarre ispirazione per replicare con “Un cinese a Roma” il successo del suo “marziano”, sempre a Roma. Che fu raccontato in modo satirico e fantascientifico nel 1954, tradotto in una fortunata commedia teatrale nel 1960 e infine in un film per la televisione nel 1983, quando già Flaiano non c’era più.
Quel “doppio senso” sfuggito al presidente della Repubblica Sergio Mattarella col suo ospite, parlando del memorandum d’intesa con i cinesi che tanto ha insospettito i nostri alleati al di qua
e al di là dell’Atlantico, ha rappresentato al meglio il quadro tanto enfatico quanto ambiguo di questo evento che ha blindato la Capitale italiana. “Doppio senso” davvero, e non solo inteso col codice stradale in mano. Non so, francamente, se alla Casa Bianca il presidente americano Donald Trump
e i suoi consiglieri, assistenti, amici e quant’altri, di cui sono arcinoti i sospetti sia sui cinesi sia sugli italiani nella versione gialloverde maturata dopo un avvio apparso incoraggiante l’anno scorso all’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma, avranno più riso o inveito.
Purtroppo non migliori, sul conto dell’Italia, del suo governo e dei suoi rapporti con gli alleati, sono le notizie giunte dal summit europeo con la partecipazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il quale ha profittato dell’occasione per il preannunciato, atteso approccio col
presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron sulla vicenda della Tav, o della sua versione maschile preferita dai tecnici. Che parlano del treno, anziché della linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci da Lione a Torino: una grande opera infrastrutturale negoziata con trattati regolarmente ratificati dall’Italia e che i grillini invece contestano, in un confitto permanente con la componente leghista della maggioranza, sostenendo che i benefici siano inferiori ai costi. E ciò per calcoli effettuati dallo stesso specialista che ha tratto convinzioni opposte in esami commissionati da altri, a Bruxelles e a Berna.
Anche se Conte ha fatto finta di non capire o di non sentire, o ha comunque fornito alla stampa informazioni prive di aspetti problematici, Macron ha detto a brutto muso al presidente del Consiglio italiano che non intende prestarsi ad essere il terminale o lo strumento delle polemiche politiche che dividono la maggioranza italiana di governo. Gli accordi per la realizzazione della Tav sono quelli che sono e lui non intende cambiarli per fare prevalere in Italia l’una parte sull’altra della coalizione gialloverde.
“Macron fa il furbo”, ha
titolato astiosamente il giornale più vicino in Italia alle posizioni ipercritiche dei grillini, che pretendono dai francesi quanto meno una diversa distribuzione degli oneri finanziari fra i due paesi regolarmente negoziata -ripeto- a suo tempo: Il Fatto Quotidiano, diretto da Marco Travaglio. Il quale forse ritiene che Macron debba prestarsi ai giochi politici e finanziari dei grillini in Italia per avere perduto consenso in Francia con le settimanali e rovinose rivolte dei cosiddetti gilet gialli. Cui non a caso il capo del movimento grillino, che è il vice presidente del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, si è pubblicamente collegato, in compagnia del suo amico e compagno di partito Alessandro Di Battista, provocando un clamoroso incidente diplomatico con la Francia. Ci sono volute le proverbiali sette camicie sudate del presidente della Repubblica Mattarella per fare rientrare almeno in parte il clamoroso incidente nei rapporti fra i due Paesi limitrofi e cofondatori dell’Unione Europea.
Per una spietata ironia della sorte i maggiori affari con la Cina sostenuti dai grillini con gli accordi di cui si è intestato il merito maggiore proprio Di Maio sono destinati a rendere ancora più necessaria la realizzazione della Tav per garantire il trasporto delle merci che, grazie ai cinesi, più abbondantemente passeranno per il porto di Genova, caro agli interessi di Pechino quanto quello di Trieste, sull’altro versante italiano proiettato oltr’Alpe.
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stanno rischiando un tale declassamento da parte delle agenzie di rating internazionali da non poter essere più acquistabili dai maggiori investitori finanziari che non siano mossi da finalità politiche ma esclusivamente economiche, la posizione della maggiore forza di governo interessata a questo aspetto dei rapporti con Pechino è in crescenti difficoltà.
Comunale Marcello De Vito, arrestato, e l’assessore allo sport e già vice sindaco Daniele Frongia, non arrestato per fortuna ma ugualmente indagato e perciò autosospesosi dagli incarichi. Essi sono coinvolti, pur in due fronti giudiziari diversi, per rapporti con imprenditori interessati alla realizzazione di importanti progetti edilizi e urbanistici, fra cui il nuovo stadio della società sportiva Roma.
dal capo del movimento Luigi Di Maio col plauso del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ammirato della “forza” e della “prontezza” del suo vice a Palazzo Chigi, resta lo stesso appiccicato alla storia del partito. Così come vi rimase nel 1992 al partito socialista Mario Chiesa, pur espulso dopo l’arresto per Tangentopoli e liquidato in piazza personalmente da Bettino Craxi come “un mariuolo”.
è stato arrestato, e tradotto in tuta verso il carcere, per prove o indizi di corruzione ricavate da intercettazioni e tracce di due bonifici da un conto bancario in comune, al minuscolo, con un socio avvocato coinvolto nelle indagini su una serie di lavori e progetti edilizi nella Capitale riconducibili al costruttore Luca Parnasi. Che fu a suo tempo arrestato pure lui trascinandosi appresso, fra gli altri, l’allora presidente dell’Acea Luca Alfredo Lanzalone: un avvocato genovese praticamente mandato a Roma dai grillini per assistere l’amministrazione comunale guidata con parecchie complicazioni da Virginia Raggi.
presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno, già forte di suo per temperamento, per esposizione mediatica e per il raddoppio dei voti che va collezionando dall’anno scorso a livello locale e sondaggistico: un raddoppio destinato molto probabilmente ad essere confermato domenica prossima nella regione Basilicata e, soprattutto, a fine maggio in tutto il territorio nazionale con le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo.
tra i banchi del governo e quelli del suo gruppo, dove aveva preferito spostarsi per pronunciare il discorso di autodifesa al termine della discussione generale. Di quella “sceneggiatura” si era inutilmente lamentato con ironia l’ex presidente del Senato Pietro Grasso.
bisogno di qualcosa in più. E di che cosa lo ha detto lui stesso, a dispetto della separazione dei poteri e di tutte le altre cose scritte nella Costituzione, aspettandosi o reclamando, come preferite, le manette ai polsi di qualcuno: meglio forse se a quelli assai noti dello specialista della contestazione che è Casarini. Il quale sa bene di avere unito, diciamo così, l’utile al dilettevole con quel tipo di salvataggio sulla nave di cui è armatore con Beppe Caccia: l’utile del soccorso in mare e il dilettevole della sfida a Salvini, o viceversa, come preferite.
mise o proseguì a studiare ben bene le carte. E, a vicenda conclusa, cioè a sbarco effettuato dei migranti, distribuiti fra vari paesi ed enti disposti a farsene carico, accusò Salvini di arresto arbitrario e altro ancora mandando il fascicolo a Palermo. Che, alquanto ridotto nella consistenza dei reati, fu a sua volta mandato a Catania. Dove la Procura chiese un’archiviazione negata dal cosiddetto tribunale dei ministri con l’avvio del procedimento approdato al Senato con l’imputazione di sequestro aggravato di persone.
Pentito, forse, di avere in qualche modo graziato il Cavaliere riconoscendogli nei giorni scorsi che non aveva certo interesse a riaccendere i riflettori, se mai erano stati spenti, sulle sue traversie penali invischiandosi nella morte di una sua accusatrice, o sostenitrice comunque dell’accusa di avere corrotto testimoni, Travaglio ha scritto che altri potrebbero avere ucciso o fatto uccidere la giovane per fargli un piacere. Come i fanatici o i servi di Mussolini fecero uccidendo Giacomo Matteotti. O la mafia uccidendo il giornalista Mino Pecorelli, che aveva la brutta abitudine di occuparsi criticamente, diciamo così, di Giulio Andreotti. O la stessa mafia cercando di uccidere Maurizio Costanzo quando si mise in testa di dissuadere l’amico editore Silvio Berlusconi dal progetto, evidentemente caro ai criminali di Cosa Nostra, di mettersi in politica. O di scendervi, come il Cavaliere preferiva dire adottando il linguaggio sportivo della squadra e del giocatore che scende, appunto, in campo.
in un carcere. La nave privata “Mare Jonio”, già avvicinatasi a Lampedusa mentre scrivo, ha invece come capo missione dei soccorsi un’autorità, a suo moydo, del mondo della contestazione. Si chiama Luca Casarini, protagonista peraltro delle proteste no global al G8 svoltosi a Genova nel 2001 non proprio nel massimo dell’ordine.
italiani per impedire sbarchi non autorizzati. Lo ha fatto con una direttiva di otto pagine alla cui attuazione dedicherà un’attenzione persino superiore- credo, dato lo stile politico e personale ormai noto di Salvini- a quella destinata alle manovre politiche, esterne ma anche interne alla
maggioranza di governo, in corso per non risparmiargli o comunque per complicargli la pratica del processo penale per la vicenda “Diciotti”, per quanto già negato dalla giunta presieduta dal forzista Maurizio Gasparri. E negato -aggiungo- col voto anche dei grillini dopo una consultazione digitale dei militanti. Che si concluse col 59 per cento a favore di Salvini e il 41 contro, ma non si sa sino a che punto disarmato nel gruppo pentastellato di Palazzo Madama. Ci potrebbe essere pur sempre un soccorso forzista potenzialmente decisivo, ma si aprirebbe nella già sofferente maggioranza gialloverde di governo un’altra crepa dagli imprevedibili sviluppi.
Sotto questi aspetti, oltre che il titolo del manifesto sul “soccorso premeditato”,
o ad orologeria, se preferite, non è sbagliato neppure quello del Messaggero sulla “sfida a Salvini” costituita dalla missione capeggiata da Luca Casarini sulla nave battente bandiera italiana della “Mediterranea Saving Humans”.
al Fatto Quotidiano, dicevo, hanno resistito alla tentazione di leggere in chiave politica, diciamo così, la misera e inquietante fine della modella marocchina Imane Fadil. Che, dopo avere dimorato per un po’ in un locale infestato di topi, è morta di avvelenamento radioattivo prima di poter testimoniare, o tornare a testimoniare contro Silvio Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari -nonostante assolto in via definitiva dall’accusa di prostituzione minorile- per la vicenda delle olgettine. Ma così, a dire il vero, la povera Imane non voleva essere chiamata, non avendo mai usufruito dell’ospitalità offerta dal Cavaliere in un omonimo albergo, o residence, alle frequentatrici delle sue feste nella villa di Arcore.
appena svoltesi con sintonia miracolosa in tutto il mondo. Ma il Pd nacque nel 2007, sotto la regìa e la guida di un uomo di grande fantasia e vocazione cinematografica come Water Veltroni, avendo come palla al piede proprio il progetto di assemblare ciò che non era e non è assemblabile. “Un amalgama mal riuscito”, lo definì poco dopo Massimo D’Alema. Che, in verità, avrebbe ripetuto dopo più di dieci anni la stessa cosa di “Liberi e uguali”, il movimento creato con Pier Luigi Bersani e gli allora presidenti del Senato e della Camera per uscire dalla gabbia che era diventata per lui il Pd guidato da Matteo Renzi.
Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera, abbastanza storico del Pci. Alla cui tradizione peraltro neppure appartiene il buon Gentiloni. Ma forse egli ha voluto con quelle parole sentirsi più di casa nell’assemblea che lo aveva eletto presidente. Ma è proprio in quell’aspirazione a sentirsi bene in quel tipo di casa che c’è il rischio che corre -ripeto- il Pd nuovo, diverso e quant’altro immaginato, annunciato, promesso da Zingaretti.
un misterioso avvelenamento da lei stessa denunciato nella clinica dove sarebbe poi spirata il primo marzo scorso. Sulla letale intossicazione da cobalto, a quanto pare, si stanno facendo le dovute indagini dall’epilogo -si è capito- né vicino né facile.
dall’amico Putin: tanto grande da rendere credibile l’assicurazione dichiarata da Berlusconi di non avere mai conosciuto la povera Imane. Della quale invece, oltre alle testimonianze rese in tribunale, si trovano nelle cronache dei giornali dalle sei alle otto tracce di sue presenze con Berlusconi a casa e fuori casa negli anni, mesi, settimane e giorni setacciati dalla Procura di Milano viaggiando sul confine fra i peccati e i reati contestabili all’allora presidente del Consiglio.
di suo, viene fuori un Cavaliere a dir poco da non frequentare per tutte le cose spiacevoli, dalla morte in giù, capitate a chi ha avuto a che fare con lui. Che pure si considera -ve lo assicuro, avendolo conosciuto e frequentato- un portafortuna. Ho avuto un sobbalzo vedendo fra le sinistre “coincidenze”
elencate da Travaglio con riferimento ai problemi e alla vita stessa del Cavaliere persino l’infarto di cui morì nel 2003 il famoso pubblico ministero di Firenze Gabriele Chelazzi, da tutti apprezzato per l’intuizione e al tempo stesso il rigore in cui seppe indagare su terrorismo e stragi. Fu una morte, se non ricordo male, avvenuta in una caserma della Guardia di Finanza, dove il magistrato alloggiava per ragioni di sicurezza. Tanto sicuro, evidentemente, non doveva essere considerato quell’alloggio.
Trionfale alla Camera dei Deputati, sterminò la scorta, anche quella che viaggiava su un’altra auto, e sequestrò lo statista per uccidere pure lui dopo 55 giorni di penosa e convulsa prigionia. Durante la quale, pur dietro la facciata di una linea della fermezza subito opposta ai terroristi dal governo su pressione soprattutto dei comunisti, che lo appoggiavano dall’esterno non essendo riusciti a farne parte neppure con una crisi appena conclusa, furono compiuti numerosi ma inutili tentativi di strapparlo alla morte.
succeduto allo stesso Moro a Palazzo Chigi. E in una delle sue prime dichiarazioni dopo la nomina a capo del governo gialloverde egli tenne a indicare proprio Moro come un modello al quale avrebbe voluto ispirarsi nella sua azione di governo e, più in generale, nel suo impegno politico. Lo disse non rendendosi conto -mi permetto di aggiungere- di quanto fosse esagerata, anzi smodata, quell’ambizione. I fatti lo avrebbero poi impietosamente dimostrato, perché francamente dubito assai, avendolo peraltro conosciuto, e non solo raccontato da giornalista, che Moro avrebbe mai permesso a un suo vice presidente di correre fra i gilet gialli francesi impegnati a mettere a ferro e fuoco il loro Paese per rovesciarne il legittimo governo, e ad un altro vice presidente di alternare disinvoltamente le sue funzioni di ministro dell’Interno con quelle dei ministri regolarmente in carica degli Esteri, della Difesa, dell’Agricoltura.
che Moro stava realizzando “il compromesso storico”, cioè la proposta ambiziosa e piena di governo avanzata dal Pci, non certo -credo- per sostenerlo dall’esterno. Eppure si dice che il direttore di questo telegiornale di Stato sia uno storico. Siamo messi bene.