Draghi stende il suo mantello sulle spalle del governo Meloni

Per una volta Mario Draghi ha tirato fuori dal guardaroba il mantello, non il cappotto, per indossarlo estendendolo a Giorgia Meloni. Che in una intervista al Corriere della Sera egli, pur dicendo che “non spetta” a lui “giudicare il governo soprattutto non dopo così poco tempo”, è tornato a definire “una donna abile” provvista di “un forte mandato elettorale”. 

Draghi ha inoltre rappresentato in qualche modo l’esecutivo attuale in continuità con i suoi “20 mesi di governo” caratterizzati da “tante sfide raccolte e vinte”, grazie alle quali “Il Paese -ha detto l’ex presidente del Consiglio parlando non più al passato remoto ma semplice, quasi un presente- ha dimostrato di farcela”. 

Dall’Irak, arrivata in missione augurale ai militari italiani che vi lavorano, la Meloni avrà gradito, e a ragione, essendosi spesa più volte anche lei nei giorni scorsi a rappresentarsi in continuità col governo precedente. Che è stato particolarmente apprezzato dalla presidente del Consiglio non più tardi di ieri per la vittoria, ad esempio, realizzatasi con lei a Palazzo Chigi sul problema del tetto al prezzo del gas. Cui ha furiosamente reagito  Putin al Cremlino, per troppo tempo abituatosi a speculare sul mercato energetico per finanziare la sua guerra all’Ucraina. 

La Meloni non dovrebbe  invece rallegrarsi per niente dello sforzo compiuto nelle ultime ore dai suoi amici di partito -sforzo su cui ha titolato la Repubblica- di scaricare sui “tecnici” del Ministero dell’Economia le origini, cause, responsabilità e quant’altro di una certa, obiettiva confusione registratasi nel percorso parlamentare della manovra fiscale alla Camera. “Abbandonati dai loro tecnici”, ha titolato in particolare il giornale fondato dal compianto Eugenio Scalfari scrivendo dei ministri, vice ministri e parlamentari dei “fratelli d’Italia” che hanno partecipato al gioco, chiamiamolo così, degli emendamenti risultati via via di sempre più incerta copertura finanziaria, o addirittura bocciati clamorosamente dalla Ragioneria Generale dello Stato. 

Le lamentele amplificate -ripeto- come con un cerino acceso in un pagliaio dal titolo di Repubblica hanno fatto apparire quello della Meloni un pò simile al primo governo di Giuseppe Conte, nel 2018. Il cui portavoce sbottò nella minaccia di far fuori mezzo Ministero dell’Economia che, secondo lui, non aveva collaborato o addirittura aveva boicottato proprio la legge di bilancio e il suo ambizioso progetto di “sconfiggere la povertà” in Italia col cosiddetto reddito di cittadinanza Ma anche con altre spese poco o per niente allineate ai parametri europei. 

Ora, comunque, che alla manovra finanziaria non resta praticamente che la ratifica del Senato tra i botti di Capodanno, o quasi, si spera che la lista dei pasticci e degli imprevisti, a dir poco, sia finita. E che Marco Travaglio possa rimangiarsi l’augurio fuori stagione di “Buon Carnevale” lanciato col titolo dell’editoriale odierno del suo solito Fatto Quotidiano. 

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Ma valeva la pena evitare a questo prezzo un legittimo esercizio provvisorio?

Al netto, molto al netto della soddisfazione d’ufficio espressa da Giorgia Meloni nel salotto televisivo di Porta a Porta, dove ha anche detto di non avere paura praticamente di nulla, guadagnandosi così il generoso titolo di Libero, c’è obiettivamente da chiedersi se fosse il caso, soprattutto per un governo di tanto vantata svolta, di pagare un prezzo così alto alla necessità un pò troppo conformistica -ammettiamolo- di evitare il ricorso al cosiddetto esercizio provvisorio di bilancio. Che pure è contemplato dall’articolo 81 della Costituzione “per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi”. Ma non sarebbe stato un bel segnale ai mercati, si è detto e scritto, anzi ripetuto, perché non è la prima volta che si è ritenuto di preferire all’esercizio provvisorio una legge di bilancio, o manovra finanziaria, a dir poco zoppicante e pasticciata. 

Quella in via di approvazione alla Camera col solito voto di fiducia, e di ratifica al Senato quasi fra i botti di Capodanno, non sarà la “manovra da riscrivere” sparata sulla prima pagina di Repubblica, perché da riscrivere non ci sarà nulla dopo l’approvazione ormai incardinata col ricorso alla fiducia. E dopo le tante, troppe correzioni apportate sino all’ultimissimo momento, in un penoso andirivieni fra commissione Bilancio e aula a Montecitorio. Ma resta una manovra per niente esaltante, con quelle 12 sanatorie fiscali di soppiatto contate dal Sole-24 Ore, i 44 buchi fatti rattoppare in extremis dalla Ragioneria Generale dello Stato e denunciati nel titolo di apertura della Stampa, e con quel pesce d’aprile fuori stagione che  ha trasformato la legge di bilancio nella via libera alla caccia al  cinghiale in città, con tutte le ironie che l’hanno giustamente sommersa. 

Se ha sbagliato tecnicamente ad annunciare “una manovra -ripeto- da riscrivere”, la Repubblica di carta non ha tuttavia sbagliato a ricordare alla presidente del Consiglio che “non basta la grinta per governare” pronunciando parole altisonanti in piazza e negli studi televisivi. Nè basta, contrariamente a quanto ha ritenuto Maurizio Belpietro sulla sua Verità, scrivere che “vale tutta la manovra il taglio al reddito 5S: quello introdotto nel 2018 dal primo governo di Giuseppe Conte addirittura per sconfiggere la povertà in Italia, come l’allora vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio annunciò di notte dal balcone di Palazzo Chigi. 

Nè serve a ridurre la velocità della discesa della credibilità del governo rappresentata nella sua vignetta da Stefano Rolli sul Secolo XIX il profluvio di dichiarazioni di questo o quell’esponente della maggioranza di centrodestra, o destra-centro, come preferite, per vantarsi delle bandierine piantate nella manovra finanziaria dai partiti di appartenenza, come accadeva ai tempi di Romano Prodi per i governi dell’Ulivo o dell’Unione, prima che entrambi si schiantassero in Parlamento. 

Questo della Meloni doveva essere-  per il fatto stesso di essere presieduto da una leader cresciuta dentro e fuori la sua coalizione facendo opposizione a tutti gli esecutivi succedutisi nelle ultime due legislature, se non ricordo male- un governo a suo modo rivoluzionario per stile e contenuto d’azione politica. Se non perduta del tutto, l’occasione della manovra finanziaria è stata in buona parte sprecata, salvo per la parte paradossalmente in continuità -si dice così- col precedente governo di Mario Draghi. Il quale continua ad essere, dal suo buon ritiro in Umbria, o dai viaggi che compie in estrema riservatezza all’estero, il convitato di pietra della politica italiana, secondo me meritevole della nomina a senatore a vita alla prima occasione che dovesse presentarsi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche a costo di fare impazzire di rabbia quello che si considera il capo virtuale dell’opposizione di sinistra: Giuseppe Conte. 

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La manovra finanziaria del governo Meloni si guadagna il nome di caccia al cinghiale in città

Povero Conte, al maiuscolo. Giuseppe,  secondo l’anagrafe forzata al plurale da Donald Trump nei lontani Stati Uniti quando da presidente  ne sponsorizzò il secondo governo, nel 2019. 

Nei ritrovati panni di avvocato del popolo, dopo la sconfitta elettorale del 25 settembre, e di concorrente del Pd alla guida della sinistra italiana, l’ex presidente del Consiglio aveva pensato di avere ricevuto da Gorgia Meloni il regalo di una manovra finanziaria impopolarissima per l’elettorato rimasto grillino e per quello recuperabile la prossima volta. Ciò a causa di tutti quei percettori del cosiddetto reddito di cittadinanza “sistemati per le feste”, secondo il titolo odierno del manifesto. Percettori di cui Conte ha praticamente costretto a prendere le difese persino il Pd, che a suo tempo aveva votato contro un provvedimento avventurosamente annunciato dal balcone di Palazzo Chigi per sconfiggere, abolire e quant’altro la povertà. Vasto programma, avrebbe detto anche  la buonanima del generale Charles De Gaulle. 

Con un gioco di prestigio completamente sfuggito alle antenne del ritrovato avvocato del popolo, distratto dai soliti fuochi artificiali che accompagnano le leggi di bilancio, tra emendamenti annunciati e poi persi per strada, votazioni al cardiopalma in commissione, bracci di ferro fra maggioranza e opposizioni, e all’interno sia dell’una che delle altre, quella furbacchiona della presidente del Consiglio ha introdotto nella manovra all’ultimo momento la caccia ai cinghiali nelle città dove essi scorrazzano tranquillamente da tempo, a volte persino più disciplinatamente dei pedoni umani perché attraversano le strade sulle strisce perdonali prima o dopo, o prima e dopo avere rivoltato rifiuti, aiuole e giardini di condomini. Qualche giorno fa un esemplare di grosse dimensioni è stato investito da un’auto di fronte a casa mia, a Roma. Sono rimasto una volta tanto ammirato dalla prontezza dei soccorsi dell’asl, dei Carabinieri e dei curiosi, con relativi ingorghi di traffico. 

Di colpo la manovra finanziaria del primo governo Meloni, e di tutto ciò che ne consegue nella  sua rappresentazione politica e ideologica, ha cambiato fisionomia e nome. Dalla manovra contro i deboli, gli umili, i poveri, trattati con spietata disumanità dalla destra, quella della Meloni e alleati più o meno disciplinati e concordi è diventata “la manovra del cinghiale”, come ha titolato La Stampa, ma un pò anche Repubblica con una informazione più completa. Le bestie ammazzate “si potranno mangiare”, ha aggiunto il giornale fondato dal compianto Eugenio Scalfari. E speriamo che si proceda al consumo con tutti i controlli sanitari necessari. 

Per quanto si possa essere animalisti come i colleghi del manifesto, affrettatisi a denunciare una “caccia senza regole” e “una pericolosa follia normativa”, per non parlare del giubbotto antiproiettile consigliato in televisione da Marco Travaglio per il rischio che potremmo correre tutti  di essere feriti o ammazzati al posto degli animali, sospetto -per Conte, elettori, stimatori e nostalgici- che la caccia ai cinghiali nelle città sia più popolare, o meno impopolare, come preferite, di quella deprecata e quant’altro ai percettori spesso troppo furbi del reddito di cittadinanza. 

L’albero di Natale dell’avvocato del popolo, che lo ha a lungo contemplato compiacendosi della propria astuzia e fortuna insieme, ha perso di un colpo gran parte delle palle e luminarie di cui era stato imbottito. Brava la Meloni, per quanto forse un pò troppo gracile con quella febbre che si procura ogni volta che indossa qualche abito scollato, o non si copre abbastanza quando esce da casa.

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Zelensky vola da Biden ma Berlusconi annuncia di “lavorare” in Italia per la pace in Ucraina

Sarò troppo malizioso, sino all’indisponenza verso la collega del Corriere della Sera Paola De Caro, che segue abitualmente Silvio Berlusconi e ne ha appena raccolto l’ultima, cioè la penultima intervista centrata col titolo sulle “riforme strutturali” in qualche modo opposte alle miserie della manovra finanziaria, o legge di bilancio, all’esame abitualmente accidentato ormai del Parlamento. Ma sospetto che quel diavolo dell’ex presidente del Consiglio se ha sentito il bisogno di farsi leggere sul più diffuso giornale italiano, dopo tutto ciò che di recente ha detto direttamente o lasciato scrivere dei suoi umori, lo ha voluto per ciò che ha dichiarato solo omsoprattutto a conclusione dell’intervista. E su cui, benedetti colleghi, al Corriere non hanno ritenuto di spendere una parola nella titolazione. 

“Che scenario vede oggi?” è stato chiesto a Berlusconi a proposito della guerra in Ucraina sulla quale “Lei ha più volte detto che servirebbe uno sforzo maggiore per una trattativa”. In verità, il Cavaliere ha detto sull’argomento molte altre cose, e per nulla scontate come l’auspicio di una pace, finalmente. Ma non torniamoci sopra. E’ tutto piuttosto noto per rivangare le parole di Berlusconi e le polemiche da esse provocate all’interno persino del suo stesso partito, non estranee alla successiva uscita, per esempio, dell’allora ministra forzista Mariastella Gelmini, rimasta tuttavia nel governo di Mario Draghi. 

Vedo -ha risposto Berlusconi- uno scenario molto preoccupante, nel quale troppe volte sento minacciare con leggerezza addirittura l’uso delle armi nucleari. La pace è necessaria e urgente. Ma la pace non può essere neppure un modo per dividere l’occidente. Ci sto lavorando, vedremo”.

“Ci sto lavorando”, ripeto. E penso alle mani che sarà stato forse tentato di mettersi fra i capelli il mio amico Antonio Tajani, pur conoscendo la sua fedeltà, anzi devozione, verso Berlusconi. Cui d’altronde ehi deve, più ancora che alla presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica, l’una proponendola e l’altro conferendola, la prestigiosa titolarità della Farnesina. Dove anche qualche navigatissimo ambasciatore starà tremando pensando alla imprevedibilità assoluta del Cavaliere, capace di non sentirsi minimamente in imbarazzo -come è accaduto d recente- promettendo accanto alla fidanzata “un pullman di troie” ai giocatori del suo Monza in caso di vittoria sulla Juventus o sul Milan, figuriamoci su entrambi. 

Anziché malizioso, come all’inizio, ora sarò troppo ingenuo, ma penso che Berlusconi in un approccio con l’amico Putin per farlo finalmente ragionare abbia persino qualche carta in più del presidente americano Joe Biden, e degli omologhi di Francia, Cina, India  e naturalmente Turchia, per parlare dei “laici”, senza sconfinare nel Papa sorpreso a piangere più volte parlando della “carissima” Ucraina devastata dalla guerra.  Forza, Cavaliere. Ci e li sorprenda tutti in questo epilogo d’anno, e sulla soglia del nuovo. 

Pubblicato sul Dubbio

Una pioggia (meritata) di critiche e invettive al percorso della legge di bilancio

Purtroppo per Giorgia Meloni, avventuratasi qualche giorno fa a Roma a compiacersi in piazza del lavoro facilitatole gli alleati, c’è del vero in tutti i titoli critici dei giornali di oggi su percorso della manovra finanziaria “bloccata” alla Camera, secondo la versione un pò evangelica di Avvenire, il giornale dei vescovi italiani. Che debbono aggiungere -temo- alle loro preghiere anche quelle per la prima legge di bilancio del governo di centrodestra, anzi di destra-centro, in carica da una sessantina di giorni.

C’è del vero addirittura nel “Casino totale” gridato dal Fatto Quotidiano e nel fotomontaggio che l’accompagna sbeffeggiando, con la Meloni, il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il suo leader di partito Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Il quale dall’esterno del governo, non essendo riuscito a farne parte personalmente, per quanto ritenesse di meritarselo per avere rischiato di morire durante la campagna elettorale, ha dato il suo contributo alla negativa rappresentazione del cammino della manovra. Da cui la presidente del Consiglio ha dovuto ordinare di escludere quello “scudo penale” agli evasori reclamato appunto dal Cavaliere. E impugnato dal Pd come un’arma impropria contro la legge di bilancio, sino a boicottarne davvero il passaggio entro la scadenza improrogabile della fine dell’anno. 

Ora che la rinuncia del governo a quella misura ha tolto dalla strada della manovra un macigno grosso come um grattacielo, Alessandro Sallusti può pure consolarsi su Libero all’idea, sventolata nel titolo del suo editoriale, che sarà solo “la sinistra” a trovarsi “in esercizio provvisorio” anche l’anno prossimo, oltre che nello scorcio di questo 2022 per la clamorosa sconfitta elettorale di tre mesi fa. Ma lo stesso Sallusti ha dovuto riconoscere nel suo commento dal titolo inutilmente tronfio che nella legge di bilancio all’esame del Parlamento, con le trappole già pronte dei soliti voti di fiducia, “i provvedimenti entrano ed escono in modo un pò confuso semplicemente perché non su tutto c’è accordo dentro la maggioranza”. I cui “soci si marcano a vista per impedire che qualcuno tragga vantaggio a scapito degli altri”. 

Come si fa poi, con queste premesse, chiamiamole così, a prendersela con Marco Travaglio per il suo già citato “casino totale”, e fotomontaggio di accompagnamento? O solo con la “volata nel caos” indicata nel titolo di apertura della prima pagina del Corriere della Sera, o con la “rissa nel governo”  denunciata dalla Stampa? No, non può lamentarsi nessuno nel governo e nella maggioranza.  

Lo stesso vale naturalmente per l’”alta tensione” annunciata dalla periferica Gazzetta del Mezzogiorno e per quel “governo di pasticcioni” sbandierato come in un corteo di protesta dal Riformista di Piero Sansonetti. Che un pò irride, in fondo, anche al merito vantato dalla Meloni e dagli alleati di avere fatto partorire questo esecutivo direttamente da mamma Italia nelle urne elettorali del 25 settembre. La retorica, si sa, è sempre un’arma a doppio taglio, anche quando la si mangia  col panettone, il pandoro, i cioccolatini e tutti gli altri ingredienti natalizi.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il tetto europeo al prezzo del gas fa cantare vittoria alla Meloni e l’avvicina ancora di più a Draghi

A dispetto della “grande vittoria” vantata da “una Meloni travestita da Draghi”, come ha titolato Il Foglio, per il tetto al prezzo del gas finalmente fissato dall’Europa in 180 euro a megavattora dal 15 febbraio prossimo, Può darsi che abbiano ragione, per carità, quanti dubitano dei risultati di una decisione che sarebbe stata presa troppo tardi e comunque male. Ben al di sopra -ha osservato qualcuno- dei 20 euro originariamente immaginati per il tetto, anche se al di sotto degli oltre 200 cui ad un certo punto si era pensato si dovesse arrivare. 

“E’ una fregatura”, ha gridato La Verità, che pure è di un’area non ostile a quella del governo e ritiene che la Russia continuerà a farci pagare care le nostre bollette usando il mercato energetico per finanziare la guerra all’Ucraina. Eppure “Putin protesta”, ha titolato La Nazione riferendo delle reazioni al Cremlino. Dove ritengono che è l’Europa a “distorcere il mercato” e non loro, i russi, ad averlo già abbondantemente piegato alle loro speculazioni. 

Non resta, a questo punto, che aspettare incrociando naturalmente le dita e sperando che a sbagliare siano i critici e, più in generale, i pessimisti. Certa è comunque, oltre alla reazione negativa di Putin e alle sue solite minacce di farcela pagare cara, come se disponesse del monopolio delle fornite di gas, petrolio e quant’altro, la prova che ha dato l’Europa della sua capacità di decidere, pur tra i lacci e lacciuoli che ne ritardano generalmente gli interventi. 

E’ peraltro significativo che questa  capacità di decisione sia stata dimostrata in un momento particolarmente difficile, a dir poco, per l’Unione a causa del discredito procurato al Parlamento europeo dallo scandalo chiamato Qatargate, fra arresti e sequestri di sacchi e valigie di banconote destinate alla corruzione. Un discredito da cui magari Putin aveva pensato di trarre vantaggi pur non avendo in questa occasione speso un rublo per contribuirvi, salvo sorprese naturalmente. Che non sono mai da escludere in questo campo minatissimo, vista anche la capacità già mostrata dai russi di volere e sapere muoversi su certi percorsi. 

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Chi di manette ferisce, prima o dopo di manette finisce di perire

La Tangentopoli di trent’anni fa, costata la vita alla prima Repubblica italiana e a un bel  pò di suoi protagonisti, attori e comparse, e il Qatargate di questi giorni, che sta terremotando addirittura l’Europa, o almeno il suo Parlamento, hanno in comune una certa anagrafe politica, più di comodo che reale. 

Era socialista Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio colto in flagranza di reato il 17 febbraio 1992 mentre incassava sette miserabili milioni di lire come parte di una tangente imposta a chi gestiva il servizio delle pulizie. E socialista continuò -un pò per pigrizia mediatica ma ancor di più per malizia, in particolare, della sinistra di provenienza comunista- ad essere considerato il colore o la matrice politica della corruzione vista, a torto o a ragione, in ogni passaggio di danaro scoperto a vantaggio dei partiti e loro derivati, correntizi o solo personali. 

In verità, al fenomeno delle tangenti risultarono interessati un pò tutti i partiti con la sola eccezione del Movimento Sociale e di Democrazia Proletaria appena confermata da un sostituto procuratore della Repubblica di quei tempi a Milano: Gherardo Colombo, dichiaratosi quindi per niente stupito del Qatargate di questa fine d’anno. Ma, per quanto praticato dal quasi intero arco politico italiano, e in dimensioni proporzionali alla consistenza dei vari partiti, il protagonista o dominus delle tangenti continuò ad essere considerato il Psi: in particolare, il Psi del fastidioso Bettino Craxi. Gli altri sembravano entrati e rimasti nel malaffare solo in quanto alleati dei socialisti, magari solo a livello locale, come quando capitavano sotto indagine dei comunisti. Sembrava anzi che questi ultimi fossero stati indotti in tentazione -come ancora recitava allora la preghiera del Pater noster- dal diavolo impersonato dal Psi del garofano.

Caddero in quella tentazione, per esempio,  i comunisti “miglioristi” di Milano secondo la rappresentazione fattane a Roma dal Pci nel frattempo diventato Pds e guidato da Achille Occhetto. In realtà, anche la sede nazionale del partito comunista si trovò coinvolta nelle indagini, con una stanza inutilmente sigillata alle Botteghe Oscure: inutilmente perché nessuno seppe o volle mai scoprire a chi la buonanima di Raul Gardini avesse fatto visita un bel giorno con una borsa gonfia di soldi.

Anche il Qatergate dei nostri giorni, con le sue propaggini marocchine, è disgraziatamente targato socialista, almeno sinora, per la denominazione del gruppo europeo di appartenenza di parlamentari o ex parlamentari sotto accusa, a cominciare naturalmente dall’italiano Pier Antonio Panzeri. Nelle cui abitazioni o affini sono stati trovati e sequestrati sacchi di banconote di euro a contare le quali gli inquirenti hanno impiegato giorni, tante erano, per quanto contenute in una somma complessiva sinora valutata in poco più di un milione e mezzo, pari a tre miliardi delle vecchie lire italiane. 

Di un eurodeputato italiano ancora in carica, Andrea Cozzolino, il Pd ancora guidato da Enrico Letta si è affrettato a decidere e annunciare la sospensione, in attesa dell’esito delle indagini, per quanto non risultino neppure iniziate a carico dell’interessato, essendovi sinora interessato solo l’assistente. E pensare che il Pd nato nel 2007 con la fusione dei resti del Pci e della sinistra democristiana, più qualche cespuglio verde e liberale, esitò a lungo a riconoscersi e a partecipare attivamente al Partito Socialista Europeo, e all’omologo gruppo dell’Europarlamento, un pò per un’antica diffidenza, a dir poco, dei comunisti verso i socialisti, a lungo considerati  e trattati come opportunisti, traditori e simili, e un pò per rispetto della componente proveniente dalla Dc. Nella quale molti   avevano in partenza accettato di non morire democristiani ma non avevano neppure tanta voglia di diventare e tanto meno morire socialisti. 

Eppure fu proprio da quella componente che arrivò nel 2014 lo sblocco della trasformazione identitaria con una decisione di Matteo Renzi, ancora fresco di elezione a segretario del Pd. L’adesione al Partito Socialista Europeo che non avevano avuto il coraggio di promuovere Walter Veltroni e Pier Luigi Bersani, di provenienza comunista, fu dunque decisa e concretizzata dal post democristiano Renzi. Che, nel frattempo uscito pure lui dal Pd sbattendo la porta, come due dei suoi predecessori, si starà magari fregando le mani per i guai in cui si trovano oggi a causa sua i dirigenti del Nazareno per la collocazione socialista del loro partito nel Parlamento europeo. 

D’altronde, siamo sinceri, quanto poteva ancora durare la commedia dei post-comunisti italiani impegnati a chiamarsi socialisti solo all’estero? Una commedia scritta e recitata per trattare a loro vantaggio la Tangentopoli italiana di 30 anni fa. Certe cose si pagano, prima o dopo: troppo tardi magari per chi vi è persino morto, e non può far sentire dall’aldilà la sua sarcastica risata, ma in tempo per chi è riuscito a sopravvivere. E potrebbe oggi tirare un sospiro di sollievo e, insieme, di risentimento pensando ad una rivincita della storia.

Pubblicato sul Dubbio

Castagnetti denuncia “rischi” di fine e di scissione del Pd in caso di “trasformazione genetica”

Distratti non so se più dal Qatargate o dal campionato mondiale di calcio, che proprio in Qatar si è concluso con la vittoria dell’Argentina sulla Francia in un’avvincente finalissima, ai rigori, attori e anche osservatori del laborioso percorso congressuale del Pd hanno dato l’impressione di sottovalutare un’importante intervista della Stampa a Pierluigi Castagnetti pubblicata ieri. 

Generalmente restio a parlare anche a causa dei suoi noti e stretti rapporti col presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che spesso induce a pensare, a torto o a ragione, che egli ne rifletta pensieri e umori, Castagnetti mi è parso stavolta sbottare parlando appunto del congresso del Pd. Alla cui fondazione partecipò nel 2007 con la “Margherita” di Francesco Rutelli, che comprendeva a sua volta il Partito Popolare nel quale si era trasformata, o al quale era in qualche modo tornata la Democrazia Cristiana a cavallo fra il 1993 e il 1994, nel passaggio cioè dalla prima alla seconda Repubblica fra i marosi di Tangentopoli. 

Ad una domanda sul lavoro della commissione di una novantina di esponenti interni ed esterni incaricata di “scrivere la Costituzione del nuovo Pd” Castagnetti ha risposto opponendo un secco “rifiuto di definire fase costituente” quella in corso nel partito guidato da Enrico Letta dichiaratamente indisponibile a ricandidarsi alla segreteria. “Non è nelle  disponibilità di 87 persone, alcune delle quali neppure elettori del Pd, cambiare la natura del partito con questa disinvoltura e senza uno specifico mandato congressuale”, ha detto l’intervistato. “Anche perché -ha aggiunto- se si cambia natura, non c’è più il Pd, c’è un’altra cosa, con tutti i rischi del caso”. 

A quelli che si sono già candidati alla successione ad Enrico Letta e a quelli che potranno e vorranno farlo sino a gennaio, in vista delle primarie di febbraio, Castagnetti ha detto che “se si ha in mente di fare un partito radicale di massa, si deve sapere che la maggioranza degli elettori cattolici, ma anche della sinistra storica, faticherebbero a votare ancora Pd”. Ed ha ricordato che “Pietro Scoppola e Alfredo Reichlin, i padri fondatori del Pd, scrissero: dobbiamo intrecciare le nostre radici per dare vita ad una cultura nuova, capace di evolversi con l’evoluzione dell’antropologia del corpo elettorale, senza inseguire ma volendo capire”.

“Se un lontano elettore comunista o democristiano che aveva votato Pd ha deciso di votare per Meloni o per Salvini- ha spiegato  e chiesto Castagnetti- ci interessa capire perché?”. “Ovviamente -ha avvertito o precisato il vecchio e più stretto collaboratore del compianto Mino Martinazzoli- non dobbiamo regredire a soggetti politici di 30 anni fa: era un altro mondo”. 

Nonostante questa precisazione, l’intervistatore ha voluto chiedere a Castagnetti se “presto potrebbe rinascere il Ppi”, cioè il partito popolare”. “No”, ha risposto Castagnetti con tono, diciamo così, perentorio che però si attenua con questa prosecuzione della risposta: “Sono ancora formalmente il “capo” di un partito che non si presenta da quasi 20 anni alle elezioni e che non intende farlo. A meno che non ci sia una trasformazione genetica del Pd. Ma ci batteremo per evitarla”. 

Qui finisce l’intervista di Castagnetti, alla quale manca, secondo me, un’altra davvero conclusiva domanda: “E se non riuscirete ad evitarla”, questa maledetta trasformazione genetica?  Evidentemente “non ci sarebbe più il Pd, ma un’altra cosa, con tutti i rischi del caso”, per ripetere le parole usate dallo stesso Castagnetti in un altro passaggio dell’intervista già citato. E fra “i rischi del caso” ci sarebbero una scissione e insieme un ritorno in campo elettorale del Partito Popolare di cui c’è già “formalmente il capo”, guarda caso:  sempre parole dello stesso Castagnetti nella medesima intervista. 

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La Meloni, beata lei, si compiace del lavoro facilitatole dagli alleati

“Gli alleati mi hanno reso il lavoro molto facile”, ha detto Giorgia Meloni concludendo la festa del decimo compleanno del suo partito. “Una dolce carezza”, ha definito quella della presidente del Consiglio a Silvio Berlusconi e a Matteo Salvini il Quotidiano del Sud. “Porca miseria”, è invece sbottato il manifesto con un titolo sovrapposto ad una immagine di danneggiati, secondo il quotidiano ancora dichiaratamente e orgogliosamente comunista, dalla legge di bilancio, o manovra finanziaria, che la Meloni si è vantata di avere varato, grazie all’aiuto degli alleati, in soli “dieci giorni” di lavoro preparatorio nei dicasteri interessati e in “un’ora” di Consiglio dei Ministri. 

In verità, a quei dieci giorni e a quell’ora vantati -ripeto- dalla presidente del Consiglio davanti al suo “popolo” festante nell’omonima piazza romana ne andrebbero aggiunti altri, perché il percorso parlamentare della legge di bilancio non è ancora finito. Ed è stato denso non tanto di scontro o confronto con le opposizioni quanto di scontro o confronto fra esponenti e componenti del governo e della maggioranza per la definizione delle modifiche necessarie ai vari alleati per piantare le loro bandierine e sventolarle nei comizi. Così hanno fatto ieri, per esempio, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini parlando anch’essi, collegati da lontano, al raduno romano dei loro alleati: Berlusconi, peraltro, dopo essersi già rivolto al “popolo” di centrodestra di Milano a favore della candidatura di Attilio Fontana per la conferma a presidente della regione Lombardia, e Salvini prima di proseguire il suo programma di comizi e di incontri con i leghisti del nord.  

Berlusconi, per quanto abbia cercato di contenersi ed abbia evitato di ripetere nel suo collegamento con Roma la delusione espressa a Milano per l’inadeguatezza del “ruolo” riconosciutogli nella formazione del governo dopo avere rischiato addirittura di “morire” in campagna elettorale per una brutta caduta; Berlusconi, dicevo, ha finito ad un certo punto per spazientire il pubblico della Capitale procurandosi interruzioni e fischi impietosamente registrati in prima pagina dal Corriere della Sera. Che hanno imbarazzato a tal punto la presidente del Consiglio da indurla poi a lamentarsi pubblicamente, sia pure in tono ironico, della “indisciplina” dei suoi fans, come ha sottolineato in un titolo la Repubblica. 

Berlusconi avrà probabilmente gradito. Sennò, conoscendolo, non si lascerà scappare la prima occasione a portata di lingua per manifestare la sua perdurante delusione e ispirare, magari, un’altra “cattiveria” sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, dopo quella di oggi. Che dice, testualmente, sfruttando la recente gaffe dell’ex presidente del Consiglio su quella vagonata di “troie” promesse ai giocatori del Monza in caso di vittoria sulla Juventus o sul Milan, più ancora su entrambe: “Berlusconi: “Ho rischiato di morire in campagna elettorale, meritavo un ruolo in questo governo”. L’autista di pullman era già preso”.

Scherzi a parte, o continuando, come preferite, Giorgia Meloni è stata tanto generosa con gli alleati che le avrebbero facilitato il lavoro nei suoi primi 56 giorni di governo quanto ingenerosa con le opposizioni. Che, anziché essere attaccate per gli attacchi rivoltele sulla manovra e per le proteste di piazza programmate o già svolte, come quella di ieri del Pd, sempre a Roma, bollata  peraltro dal Fatto come un “superflop”, avrebbero forse meritato un ringraziamento per il loro stato sostanzialmente comatoso. A causa del quale rischia di avverarsi l’augurio fatto da Salvini a Meloni di durare a Palazzo Chigi non solo per tutta questa legislatura ma anche per la prossima. Dieci anni sono il doppio di cinque, avrebbe detto il compianto Riccardo Pazzaglia alla bellissima notte televisiva che fu di Renzo Arbore. 

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Il grande pasticcio (italiano) del meccanismo europeo di stabilità

Il trucco c’è ma si vede. E non è gratificante per il governo non a torto pizzicato sulla prima pagina di Repubblica da un titolo che ne lamenta le divisioni e lo contrappone al presidente della Repubblica Sergio Mattarella: un governo peraltro all’inizio di un percorso che vorrebbe essere lungo cinque anni, quanto la durata della legislatura uscita dalle urne del 25 settembre, e soprattutto innovativo, secondo le promesse del presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E’ il trucco del Mes, acronimo di quello che in Italia chiamiamo Meccanismo europeo di stabilità ma che a Lussemburgo, dove ha sede, si chiama Euroepean stability meccanism, riassunto nell’acronimo Esm, istituito dieci anni fa con 700 miliardi di euro, di cui 125 di parte italiana, per  soccorrere i paesi dell’Unione in difficoltà. Non a caso si chiamava una volta Fondo salva-Stati, modificato dopo le polemiche scoppiate sui criteri con i quali venne applicato per fronteggiare la crisi greca. 

Su questo benedetto o maledetto “istituto finanziario”, come lo chiamano gli esperti, erano rimasti solo in due in Europa ad eccepire resistendo alla ratifica: la Germania e l’Italia. In Germania  furono sollevate eccezioni di incostituzionalità sovranista, diciamo così, che hanno comportato la pronuncia finalmente arrivata dall’Alta Corte, che non ha ravvisato gli impedimenti o inconvenienti temuti, Manca a questo punto solo l’assenso italiano. 

Sollecitato dai soci europei, il governo Meloni non ha ritenuto di potersi pronunciare perché due dei partiti che lo compongono -quello della stessa Meloni, schieratosi contro quando era all’opposizione, e la Lega quando faceva parte del primo governo di Giuseppe Conte, con i grillini- sono rimasti fermi alla contrarietà avvertita per i troppi vincoli, controlli e costi derivanti dall’accesso agli aiuti. 

Ci rimettiamo al Parlamento, hanno concordemente e sostanzialmente detto la presidente del Consiglio e il ministro (leghista) dell’Economia, che di suo ha aggiunto la raccomandazione per un dibattito “ampio e approfondito”. Che ormai potrà avvenire solo nel prossimo anno, essendo il tempo rimasto di questo 2022 occupato dall’esame del bilancio dello Stato. 

Il trucco, di cui dicevo all’inizio, sta nel fatto che gli interessati si aspettano un voto positivo espresso dai gruppi parlamentari alle cui spalle stanno partiti che in sede di governo non ritengono di potersi e doversi pronunciare in questo senso. 

D’altronde sarebbe anche politicamente e numericamente impossibile, specie al Senato, adottare una posizione favorevole con una maggioranza diversa da quella del governo di centrodestra, o destra-centro. La cui posizione pertanto è, a dir poco, bizantina: non certo all’altezza dell’orgoglio col quale a Roma si stanno concludendo i festeggiamenti dei “fratelli d’Italia” per il decimo compleanno della loro formazione politica, decollata con risultati o valutazioni elettorali da prefisso telefonico e in testa dal 25 settembre scorso alla classifica dei partiti italiani.

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