Applicherei anche o soprattutto alla posizione assunta sulla vicenda Gregoretti da Matteo Renzi la “involontaria comicità” efficacemente avvertita da Paolo Armaroli nella gestione parlamentare della richiesta del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di lasciare processare per sequestro di persona l’”altro Matteo”, cioè l’ex ministro dell’Interno Salvini. Che nella scorsa estate, prima di innescare la crisi di governo, vietò per quattro giorni lo sbarco di 131 migranti dalla nave della Guardia Costiera Gregoretti, appunto, in attesa che venissero collocati, cioè distribuiti, nell’area europea.
Per una volta, in questa stagione alquanto turbolenta della maggioranza giallorossa, da lui stesso promossa in agosto e poi sottoposta a strappi e tensioni, prima sulla legge di bilancio e poi sul tema della prescrizione, Renzi si è fatto carico della sua compattezza partecipando disciplinatamente alla linea adottata dai partiti alleati contro Salvini. Lui e gli altri senatori della sua Italia Viva hanno votato con i grillini, il Pd e la sinistra dei “liberi e uguali” per il processo, pur dichiarando di “non vedere un reato” in quelli che ha definito “gli errori politici” compiuti dal leader leghista al Viminale.
Non vedere il sequestro di persona contestato dal tribunale catanese dei ministri né altri reati nella gestione della vicenda Gregoretti e, ciò nonostante, votare a favore del processo, come se fosse solo una passeggiata a Villa Borghese, è alquanto curioso, a dir poco. Eppure c’è un articolo non di giornale ma della Costituzione, il numero 96, che obbliga la magistratura a chiedere al Parlamento l’autorizzazione a procedere quando essa ravvisa un reato nell’azione di un ministro, facendo dei senatori e dei deputati, a seconda dei casi, altrettanti giudici, a tutti gli effetti. Lo ha inutilmente ricordato all’assemblea di Palazzo Madama, nel suo intervento a difesa di Salvini, l’ex ministra leghista ma soprattutto l’avvocato di meritatissimo grido Giulia Bongiorno.
Renzi non ha visto in quei quattro giorni di blocco della nave Gregoretti, sulla quale i 131 migranti non stavano certamente comodi ma erano pur sempre assistiti dopo essere stati soccorsi in acque maltesi, né un reato né le condizioni previste dalla Costituzione per mettere un presidente del Consiglio o un ministro al riparo da iniziative giudiziarie nella sua azione d governo.
Può darsi, per carità, che Salvini esageri quando si richiama retoricamente alla difesa della Patria e dei suoi confini, poco credibilmente minacciati da una nave militare italiana e da 131 migranti tenuti comunque sotto controllo; può darsi che egli esageri anche schierando in qualche modo i suoi bambini a propria difesa per solleticare l’emozione non tanto dei senatori quanto dei suoi elettori; ma mi pare francamente innegabile che nella richiesta di una distribuzione dei migranti in area europea, troppo a lungo e di frequente lasciati dagli altri paesi a carico solo dell’Italia per la sua scomoda posizione geografica, ci fosse il perseguimento di quel “preminente interesse pubblico” previsto dalla legge attuativa dell’articolo 96 della Costituzione per sostenere il comportamento di un ministro anche in violazione di qualche norma. Via, cerchiamo di essere seri, pur se la lotta politica riesce a diventare tragica anche quando non è più seria.
Forse consapevole della debolezza del suo ragionamento, il senatore Renzi ha cercato di cavarsela, diciamo così, con una battuta: quella di volere “accontentare” Salvini, viso il petto offerto dal leader leghista come imputato e “cavia” ai suoi avversari, e giudici. Ma qui il senatore di Scandicci è caduto in un’altra involontaria comicità, per restare nell’immagine di Armaroli.
Renzi ha praticamente applicato a Salvini, come se fosse una ritorsione a scoppio ritardato, la logica con la quale gli elettori, anche quelli leghisti, oltre che di casa propria, che era allora il Pd, reagirono nel 2016 alla sfida che da presidente del Consiglio e segretario del partito lui lanciò nella presunzione di vincere più facilmente il referendum cosiddetto confermativo sulla riforma costituzionale che portava la targa del suo governo. Egli disse, in particolare, che se avesse perduto quel referendum, si sarebbe ritirato dalla politica. Gli elettori gli risposero, nella misura del 60 contro il 40 per cento, bocciandogli la riforma e offrendogli l’occasione, appunto, del ritiro. Così lui ora ha fatto offrendo a Salvini l’occasione del processo, salvo ripensamenti del tribunale di Catania, dove teoricamente sarebbe ancora possibile evitare il rinvio a giudizio. Spiazzato dalla risposta degli elettori, Renzi nel 2016 pagò il suo debito solo in parte, rinunciando a Palazzo Chigi ma conservando il Nazareno, cioè la segreteria del Pd. Seguirono una scissione -quella di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni- e nelle elezioni del 2018 un’altra sconfitta, ancora più cocente, a beneficio dei grillini.
Pubblicato sul Dubbio
reati ministeriali dall’articolo 96 della Costituzione, o più in generale al primato della politica, ha tutta l’aria di essere il primo dei processi che aspettano il leader leghista ed ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Che per ora deve rispondere, salvo un improbabile ripensamento nel tribunale di Catania, cui il fascicolo è stato restituito, “solo” di avere tenuto sotto sequestro nella scorsa estate sulla nave militare Gregoretti 131 naufraghi soccorsi in acque maltesi e trattenuti a bordo per quattro giorni in acque siciliane, in attesa della loro distribuzione in area europea. Di cui l’Italia ha la sfortuna naturale di tenere i confini acquatici meridionali.
ministro e componente quindi di una maggioranza schierata a suo favore, Salvini ha già messo nel conto un altro rinvio a giudizio per la vicenda della nave Open Arms, la cui richiesta è pervenuta alla competente giunta senatoriale.
età e non sognava neppure di diventare un leader, e in politica si è presa l’abitudine di combattere gli avversari sul piano giudiziario se non si riesce a fermarlo sul piano elettorale, in Italia le cose andranno avanti così chissà per quanto tempo. E ciò anche perché i magistrati – a torto o a ragione, e nonostante la fiducia mostrata nei loro riguardi dallo stesso Salvini offrendosi come “cavia”- hanno mostrato di avere preso il gusto, oltre che l’abitudine, di fornire armi alla politica per fare questo brutto gioco.
perché “si stenta a vedere un reato” nei suoi semplici “errori politici”, o capiterà agli avversari. Che in caso di assoluzione potrebbero ritrovarsi un Salvini più forte di prima, già rappresentato sulla prima pagina dell’insospettabile Fatto Quotidiano “a culo parato”. E, in caso di condanna e inagibilità, di fronte ad un successore di Salvini più insidioso nella stessa area del centrodestra. Dove si sta allenando da qualche tempo la giovane Giorgia Meloni, come prima si è allenato il leader leghista mentre arretrava Silvio Berlusconi, anche lui condannato a frequentare uffici e aule dei tribunali.
e quant’altro in funzione antisalviniana nella scorsa estate, procuratori generali, il primo presidente della Cassazione, presidenti di Corte d’Appello, presidenti emeriti della Corte Costituzionale, avvocati e persino una parte del sindacato delle toghe pur schieratosi nei suoi vertici con Bonafede. Non mi sembra francamente poco, come non è sembrato poco sul Corriere della Sera ad Angelo Panebianco qualche giorno fa.
ispirazione morotea pure lui come Conte, non può ignorare che fu proprio al Senato, e per iniziativa del partito in qualche modo all’origine del Pd, che decollò nell’autunno del 1995 contro l’allora
guardasigilli Filippo Mancuso l’istituto della sfiducia “individuale”. Che, respingendo un ricorso successivo dello stesso Mancuso, la Corte Costituzionale sancì con un suo verdetto di legittimità, separando sul piano istituzionale la sorte di un ministro da quella del governo, allora presieduto da Lamberto Dini.
uguali, ma non del partito di Matteo Renzi, avrebbe ben poco a che fare, anzi nulla, con una proroga non si
sa poi di che. La stessa semplice sospensione della disciplina in vigore, di qualsiasi durata essa fosse, pur preferita dai renziani nell’offensiva contro Bonafede, sarebbe logicamente e formalmente estranea a una proroga. E’ materia più da vignette che da interventi seri, come ha dimostrato sul Corriere della Sera Emilio Giannelli declassando a “mille proroghe” con la bocca del guardasigilli la sua “riforma della Giustizia”.
su Repubblica, siamo entrati in questo lunedì come nel nuovo, ennesimo giorno della confusione, diciamo pure dell’intrigo. Che è quello, in corso mentre scrivo, dietro le facciate del palazzo di Montecitorio e dell’attiguo Palazzo Chigi per infilare non addirittura la riforma del processo penale, per fortuna, ma la piccola parte riguardante la prescrizione, nota ormai come “lodo Conte bis”, nel decreto legge “milleproroghe” all’esame della Camera: il primo treno, diciamo così, a disposizione del governo nel traffico parlamentare per saltarci sopra e depositarvi il suo pacco. E che pacco, non a torto definito da
un magistrato di provata esperienza, ora in pensione, come Carlo Nordio sul Messaggero “il peggior rimedio al processo senza fine”. Questo è il titolo del suo articolo, nel cui testo il compromesso intestato al presidente del Consiglio è considerato “un mostriciattolo peggiore del mostro” in vigore da più di un mese e contestato nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario.
per non ridurre la loro Italia Viva nell’”Italia vivacchia” rimproveratagli dal Giornale della famiglia Berlusconi, conserverebbero la propria capacità offensiva, e potenzialmente distruttrice della maggioranza, al Senato. Dove i numeri sono assai diversi dalla Camera.
michelangiolesca esplosione della fantasia di Roberto Benigni con quella erotica rilettura della Bibbia, tutto
sommato al modico prezzo di 300 mila euro, e la resistenza dell’ormai onnipresente e scapigliatello presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla tentazione di affacciarvisi per annunciare in quella sede, forse più appropriata di quella invece adoperata, di essere agnostico -lui che è professore di diritto e avvocato, sia pure solo civilista, cioè di affari- di fronte ai temi del garantismo e del giustizialismo.
promulgato l’anno scorso la prescrizione targata Bonafede, dal nome del ministro grillino della Giustizia, pur avendo avuto mille ragioni fornitegli persino dal Consiglio Superiore della Magistratura, di cui è presidente, per rinviarla alle Camere e chiedere quanto meno una “nuova deliberazione”, come dice l’articolo 74 della Costituzione. Sarebbe forse riuscito così a risparmiare a tutti, partiti e cittadini, governo e opposizione, magistrati e avvocati, il tramestio di questi mesi e giorni, non essendosi trovato il tempo o la voglia, o entrambi, di riformare in tempo il processo penale per garantirgli la ragionevole durata richiesta da un altro articolo della Costituzione, il 111.
euforica per avere messo nell’angolo l’ex presidente del Consiglio con l’ultima versione del cosiddetto lodo Conte sulla prescrizione. Che verrebbe stoppata, cioè cancellata, alla seconda sentenza di condanna, anziché alla prima senza distinzione fra condanna ed assoluzione, come il ministro della Giustizia è riuscito a mettere nel codice ai tempi della maggioranza gialloverde con decorrenza dal 1° gennaio di quest’anno. Essa è scattata nonostante nel frattempo non sia intervenuta la promessa riforma del processo penale per fissarne la durata nella misura “ragionevole” garantita dall’articolo 111 della Costituzione.
del governo, tentato dall’uscirne e al tempo stesso timoroso di esserne spinto fuori, come lo hanno dipinto in
sintonia titolisti e vignettisti del Fatto Quotidiano e del manifesto, il Renzi che ha baldanzosamente dichiarato al Corriere della Sera, con tanto di titolo in prima pagina, che lui resta contrario anche alla nuova edizione del lodo Conte. E ha sfidato gli alleati a “cacciarlo”,
piuttosto che concedergli la sospensione della norma in vigore – una sospensione fra un minimo di sei e un massino dodici mesi- per approvare davvero, non annunciare, una vera e non fumosa riforma del processo penale, a rischio peraltro di illegittimità costituzionale.
equivoci che si trascina da tempo sul palcoscenico della prescrizione a “frenare” non sia Renzi ma il presidente
del Consiglio Giuseppe Conte in persona, evidentemente preoccupato che la situazione gli sfugga di mano, visto il peso determinante dei renziani al Senato, e sfoci in una crisi nel bel mezzo della verifica da lui avviata per definire la famosa “agenda 2023”. Che avrebbe dovuto o dovrebbe ancora permettergli di restare a Palazzo Chigi fino all’esaurimento ordinario della legislatura, se non addirittura trasferendolo l’anno prima al Quirinale per subentrare a Sergio Mattarella. Cui pure alcuni attribuiscono, a torto o a ragione, benevolmente o maliziosamente, una certa sensibilità all’ipotesi di una rielezione in Parlamento alla scadenza del mandato settennale.
lo scissionista Renzi, a dire -come ha fatto alla Stampa parlando anche della riduzione dei seggi parlamentari in via di ratifica referendaria- che “alla ricerca del consenso il Parlamento sta disimparando a legiferare: si fanno le leggi e delle conseguenze ci si lava le mani”. “Per inseguire i voti -ha aggiunto Zanda- siamo caduti prigionieri dell’analfabetismo giuridico-parlamentare”.
la versione del Fatto Quotidiano. Essi non vogliono lasciare nel codice il blocco, o soppressione, della prescrizione a conclusione del primo o anche del secondo dei tre gradi di giudizio senza compensarlo con una vera, solida, garantita e approvata riforma del processo penale. Diversamente, anche con la prescrizione bloccata a parole all’emissione della seconda condanna, secondo il compromesso emerso dal vertice di ieri, il sistema rimarrebbe appeso al nulla sul baratro di quello che è stato efficacemente definito l’ergastolo processuale, alla faccia della “ragionevole durata” imposta dall’articolo 111 della Costituzione, non da un discorso di Renzi concordato, secondo la rappresentazione fattane da Bonafede, con Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e altri demoni ancora operativi nel mercato politico.
pagina. La maggioranza rimane avvolta nella nebbia del viaggio parlamentare del disegno di legge che dovesse uscire dal Consiglio dei Ministri senza il consenso dei renziani, determinanti al Senato per la sopravvivenza del governo. Il treno giallorosso non corre certo alla velocità della “Frecciarossa” sinistramente approdata sulle prime pagine dei giornali, ma non per questo non rischia anch’esso di deragliare sullo scambio della prescrizione inserito nella cosiddetta legge spazzacorrotti. Che fu approvata -non dimentichiamolo- da un governo e da una maggioranza gialloverde, composta cioè dai grillini e dai leghisti. I quali ultimi si erano illusi di poter imporre in tempo utile la riforma del processo penale, vanificando peraltro con la crisi d’agosto dell’anno scorso le già scarse e residue possibilità di farcela.