Come con i conti in tasca, si può provare, vivaddio, a fare i conti in testa a Matteo Renzi, senza insultarlo e chiamare necessariamente l’ambulanza, per la vertenza che ha aperto nel governo
e nella maggioranza giallorossa. E che si è sviluppata ieri con una serie di proposte in una conferenza stampa rivelatasi utile al promotore anche per non partecipare nell’aula del Senato alla votazione di fiducia sul tema sempre controverso delle intercettazioni.
Specie dopo l’iniziativa presa dallo stesso Renzi di chiedere un appuntamento chiarificatore
a Giuseppe Conte, che glielo ha promesso per la prossima settimana, di ritorno dai suoi impegni internazionali, si può ben convenire col professore Alessandro Campi. Che, in un editoriale del Messaggero e altri giornali di Francesco Gaetano Caltagirone, come Polonio con Amleto ha trovato “del metodo nella follia” dell’ex presidente del Consiglio ed ora leader di Italia Viva.
La follia deriverebbe dal fatto che Renzi con le sue iniziative, i suoi messaggi, i voti dei suoi nelle commissioni parlamentari con le opposizioni sui temi, in particolare, della giustizia e con le sue minacce di sfiducia
individuale al Senato, dove i numeri della maggioranza sono assai precari, contro il guardasigilli e capo della delegazione delle 5 Stelle nell’esecutivo Alfonso Bonafede, ha messo quanto meno in pericolo “il governo che proprio lui ha fatto nascere” nella scorsa estate, ha osservato Campi. Che ricorda bene l’improvvisa rinuncia di Renzi a godersi mangiando pop corn, come al cinema o allo stadio, i rapporti in crisi fra grillini e leghisti per proporre all’esitante o contrario segretario dell’ancòra suo partito Nicola Zingaretti di sostituirsi al Carroccio e di fare un nuovo governo, per giunta a direzione invariata di Conte.
Ciò che Campi e molti altri con lui mostrano di avere dimenticato, o quanto meno sottovalutato, è che Renzi propose il nuovo governo con una prospettiva non superiore ai nove mesi, pressappoco: il tempo necessario per evitare elezioni anticipate in quel momento di sicuro successo per il centrodestra a trazione salviniana, approvare la legge di bilancio senza aumentare l’Iva e vedere poi come proseguire verso il traguardo della fine ordinaria della legislatura, scavalcando anche la scadenza del mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, nel 2012. Quasi per garantirsi questo percorso e mettersi in mano la chiave della maggioranza, almeno al Senato, egli si affrettò a uscire dal Pd, a mettersi in proprio con un nuovo partito e a rendere quindi più frastagliata la maggioranza giallorossa. Conte, pur sorpreso in privato e in pubblico, stette al gioco rimanendo al suo posto, non riaprendo certo la crisi appena chiusa così faticosamente e acrobaticamente.
Fu poi il Pd, sempre col suo segretario Zingaretti, a cambiare, o cercare di cambiare, le prospettive o lo scenario del nuovo governo indicando come destinazione la fine ordinaria della legislatura e proponendo l’alleanza con i grillini in modo così strategico, in funzione di un “nuovo bipolarismo” rispetto al centrodestra, da diffonderla anche in sede locale. Il progetto fu sperimentato subito, ma in modo fallimentare, con il voto regionale in Umbria, passata al centrodestra con un bel distacco.
Renzi con questo tipo di prospettiva e di scenario non si è mai -dico mai- voluto riconoscere, sino a ribadire nei giorni scorsi di non voler “morire grillino”, come una volta si diceva a sinistra dei democristiani, fra i quali lui era di casa, sia pure con i calzoni corti, o quasi.
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del senatore di Scandicci con Bruno Vespa a Porta a Porta, non sono bastate né “l’emergenza” economica improvvisamente annunciata o scoperta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, né la conseguente “cura da cavallo” cui il governo dovrebbe ricorrere, né la difesa che del suo ormai avversario ha fatto lo stesso Conte dal tentativo di una giornalista di liquidarlo come “quello”. Renzi -l’ha interrotta Conte- “non è quello là, ma il leader
di Italia Viva e una parte della maggioranza”, per quanto Goffredo Bettini sia appena tornato a incitare i compagni del Pd, in una intervista al Corriere della Sera, a liberarsene per sostituirlo con i cosiddetti “responsabili” dell’opposizione disposti a salvare la legislatura nuovamente minacciata da elezioni più o meno anticipate.
giustizia e della prescrizione abolita con l’esaurimento del primo grado di giudizio dal guardasigilli grillino Alfonso Bonafede. Di cui si è riservato di promuovere la sfiducia individuale al Senato, vista la sua ostinazione a non sospendere la decantata nuova disciplina della prescrizione prima di una vera e sicura riforma del processo penale per garantirne “la ragionevole durata” imposta dalla Costituzione.
a tutti, ma proprio a tutti, comprese le attuali opposizioni, un governo che si proponga un’altra riforma costituzionale per l’elezione diretta del presidente del Consiglio con le modalità dei sindaci, essendo l’inquilino di Palazzo Chigi “il sindaco d’Italia”. Roba “di destra”, ha
subito commentato il segretario del Pd Zingaretti dopo avere liquidato allegramente come “chiacchiericcio” quello di Renzi, degno da “ambulanza”, secondo la rappresentazione
del Fatto Quotidiano, analoga ancora una volta a quella del giornale di destra La Verità col titolo su tutta la prima pagina “La bomba a salve del Bomba”.
nel palazzo attiguo a quello principale del Senato, su “Accordi di libertà”. Tali sono stati definiti nel titolo del convegno le intese realizzate nel 1984 dall’allora presidente del Consiglio con la Chiesa Cattolica -modificando il Concordato mussoliniano del 1929- e altre confessioni religiose, in particolare quelle valdese ed ebraica.
voluta dalla figlia senatrice Stefania e ora presieduta dall’ex senatrice Margherita Boniver, ha definito “gli accordi di libertà” del compianto leader socialista il lascito più significativo, più importante della cosiddetta prima Repubblica.
scattare in Franceschini il rifiuto di concorrere in qualche modo alla liquidazione della sua linea come di una banale, ennesima avventura dai quattro cantoni in un Paese peraltro “in apnea”, secondo l’editoriale di Repubblica.
il capogruppo al Senato Gianluca Perilli dichiarando al Foglio che mai e poi mai transfughi di Forza Italia potrebbero essere considerati parte effettiva della maggioranza, partecipi di riunioni, cariche e quant’altro.
critiche, sul Foglio e sul Messaggero, del capogruppo al Senato Andrea Marcucci, rimasto amico di Renzi pur non avendolo seguito nella scissione del partito- l’ex parlamentare Goffredo Bettini, gran consigliere di Zingaretti, come a suo tempo di Walter Veltroni.
e di origini aristocratiche marchigiane, Bettini è persino amichevolmente chiamato da qualche compagno, per note frequentazioni e simpatie asiatiche, e per la sua mole fisica, “il santone”, o “il Budda de ‘no antri”. Da cui Conte rischia, senza neppure accorgersene, di essere travolto o soffocato in un abbraccio sia pure a distanza.
scontata nel caso di Mattarella. Al quale lo scrupoloso quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda ha appena attribuito un certo scetticismo sulla tregua intravista da altri, e quanto meno la tentazione di pensare, in caso di crisi, ad un “governo elettorale” pluristagionale, visto che non si potrebbe votare per varie ragioni prima dell’autunno.
antagonista in seconda, dopo Matteo Salvini, che sarebbe appunto Renzi: “il giovane che voleva farsi re”, come lo ha definito sulla sua Repubblica di carta il fondatore Eugenio Scalfari. Il quale, alla fine di un editoriale in cui si è consolato, ormai come al solito, pensando e scrivendo del “rivoluzionario” Papa Francesco, ha liquidato l’ex presidente del Consiglio come “impresentabile”.
becco sulla prescrizione”, ha gridato il reggente del Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, unendosi al sostegno gridato sul palco dall’ex capo Luigi Di Maio al nuovo capo della delegazione al governo e ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Che naturalmente ha gradito l’incoraggiamento, convinto com’è che la “sua” prescrizione, abolita dal 1° gennaio con l’epilogo del primo dei tre gradi di giudizio, vada messa sullo stesso piano di tutti gli altri “privilegi” da “casta” combattuti dai pentastellati: dalle pensioni cosiddette d’oro ai vitalizi degli ex parlamentari, prima della sforbiciata praticata un anno fa e sotto ricorso nelle commissioni della giurisdizione interna alle Camere. Oltre a galvanizzare i militanti, il raduno dei grillini nella piazza romana a due passi da Palazzo Venezia e dal fatico balcone sotto il quale Mussolini riusciva a radunare molta più gente, strappando applausi festanti anche alle sue sciagurate dichiarazioni di guerra a mezzo mondo, ha rincuorato sul Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio. “C’è vita nei 5stelle”, ha titolato il giornale sicuramente più letto fra i grillini. Ai quali, visto che si trovava, Travaglio ha regalato anche
una vignetta, che penso si commenti da sè, contro i due Mattei, Renzi e Salvini, responsabili evidentemente di togliere il sonno anche a lui.
annunciando con un
titolo che “Renzi frena, Conte no” e mettendo in una vignetta di Altan il pugnale in mano a un Renzi, sempre lui, che offre agli italiani la solita “serenità”, come quella garantita a cavallo tra il 2013 e il 2014 all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta mentre egli si apprestava come nuovo segretario del Pd a licenziarlo e a prenderne il posto.
opposti ma umoralmente convergenti come Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio e La Verità di Maurizio Belpietro. “Poltrona Viva”, al posto della sua Italia Viva, ha titolato Il Fatto Quotidiano legando con una fune Renzi sulla sedia per partecipare alla spartizione prossima di una lunga serie di nomine
in quello che una volta si chiamava sottogoverno. “L’unica crisi di Renzi è da fame di poltrone”, ha tirato giù pesante da destra Belpietro, che sospetto non abbia mai perdonato né voglia perdonare al senatore di Scandicci di avergli fatto perdere la direzione del quotidiano Libero ai tempi in cui guidava il governo e si accingeva alla sfortunata campagna referendaria su un’ambiziosa riforma costituzionale appena varata con la solita baldanza.
della giustizia per il Pd Walter Verini, dopo l’ex guardasigilli e ora vice segretario del partito Andrea Orlando. Egli ha peraltro annunciato con aria quasi trionfale l’imminente nomina di una commissione, concessa dal ministro della Giustizia in carica, per “monitorare” in tre mesi l’applicazione della prescrizione entrata in vigore il 1° gennaio scorso: quella che cessa con l’epilogo del primo dei tre gradi di giudizio. Ciò significa che il bambino, diciamo così, è nato vivo e viene osservato, in attesa che si riformi davvero il processo penale per dargli tempi certi e “ragionevoli”, come chiede la Costituzione. Tutto insomma è a posto, e nulla in ordine.
la fidata e fedele Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato, cioè alla seconda carica dello Stato dopo il presidente della Repubblica. Ma, più ancora che di questo, Berlusconi fu grato a Salvini di risparmiargli le elezioni anticipate, che il Cavaliere per ragioni propagandistiche reclamava non volendole in realtà per la speranza, non dichiarata naturalmente, di vedere Salvini in difficoltà con i grillini e di guadagnare il tempo necessario per rimontare il modesto svantaggio registrato nelle urne dell’8 marzo 2018: un vantaggio destinato invece ad aumentare -eccome- in tutti i successivi turni elettorali, di tipo europeo e regionale.
di elezioni anticipate da vincere di un soffio. E adesso, dopo essersi goduto, mangiando pop-corn, lo spettacolo del Movimento 5 Stelle logorato politicamente ed elettoralmente dai leghisti, egli si gode dagli spalti della maggioranza lo spettacolo dello stesso movimento e del suo ex Pd che, volenti o nolenti, spesso per effetto proprio delle sue iniziative, dai temi economici a quelli della giustizia, sono impegnati in una reciproca gara, insieme, di logoramento e di mutua assistenza al ribasso.
per adesso limitati a scherzare -come ha fatto Stefano Rolli sul Secolo XIX- con Renzi che scopre il gusto del “mojto” con Salvini, accomunati come sono dai grattacapi che riescono a procurano a Conte. Credo che Mattarella non sia rimasto molto rinfrancato dalla telefonata col presidente del Consiglio di cui è stata data notizia per sottolineare le preoccupazioni, non certo infondate, del capo dello Stato.