La lista del contenzioso nel governo gialloverde, già alle prese in questi giorni con l’aggiornamento del bilancio, per
cercare di fermare la procedura europea di infrazione per debito eccessivo, coll’approdo in Parlamento delle cosiddette autonomie differenziate, per non provocare la crisi ad opera dei leghisti, con la revoca delle concessioni autostradali ai Benetton, minacciata da un anno dai grillini per reazione al crollo del ponte Morandi a Genova ma bloccata dal timore di costosissime penali, e dall’intervenuto interesse degli stessi Benetton ad un progetto pentastellato di salvataggio dell’Alitalia, e con altro ancora; la lista del contenzioso, dicevo, si è improvvisamente allungata col ritorno sulla scena della cosiddetta Tav. O della versione maschile -il Tav- preferita dagli espertissimi del Fatto Quotidiano nella campagna che conducono per impedirne la realizzazione.
All’improvviso il pubblico grillino che ha continuato, sia pure a ranghi molto ridotti rispetto a un anno fa, a votare per le cinque stelle il 26 maggio scorso si è accorto che il progetto del trasporto ferroviario delle merci ad alta velocità da Lione a Torino, non è stato per niente bloccato, come i dirigenti del Movimento delle 5 Stelle avevano fatto loro credere nella campagna elettorale per le europee e le amministrative di primavera. Il progetto
va avanti, per giunta con lo stanziamento di nuovi fondi da parte dell’Unione Europea condizionato alle tappe cui stanno provvedendo i bandi d’appalto appena annunciati dal Consorzio internazionale Telt. Il cui consiglio d’amministrazione si è riunito a Parigi non in clandestinità. E neppure all’insaputa -è stato precisato- della “struttura” più o meno commissariale che si occupa della vicenda a Palazzo Chigi, almeno da quando i grillini si sino rimessi, o hanno mostrato di rimettersi, alle valutazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte anche come avvocato.
Al ritorno di questo problema sulla scena si sono fatti risentire anche i sostenitori delle soluzioni minimali o alternative, come i treni senza galleria, arrampicati sulle montagne, che Salvini ha liquidato sostanzialmente come giocattoli avvertendo che a lui, e al suo partito, specie dopo i risultati elettorali del 26 maggio, compresi quelli per il rinnovo del Consiglio regionale del Piemonte, piacciono i treni che corrono davvero, non sopra ma sotto, o dentro le montagne. E pazienza se il suo omologo grillino a Palazzo Chigi come vice presidente del Consiglio, Luigi Di Maio, già alle prese con problemi di sopravvivenza politica all’interno del proprio movimento, ha reagito dichiarandosi assediato dal voracissimo “partito del cemento”, non contento evidentemente di avere appena vinto anche la partita del conferimento
delle olimpiadi invernali del 2026 a Milano e a Cortina. Di cui al Fatto Quotidiano -e dove sennò?- hanno già cominciato ad elencare i possibili “predatori”, varianti evidentememte dei “prenditori”, a loro volta varianti degli imprenditori. Tutto da quelle parti si tiene: concetti, parole e invettive.
In attesa, naturalmente paziente, come vogliono le regole della natura e della politica, almeno di quella italiana, di arrivare all’alta velocità nel trasporto ferroviario delle merci tra la Francia e l’Italia, possiamo ben goderci l’alta velocità alla quale viaggiano le bugie cui sono costretti a ricorrere sotto le 5 stelle per convincere quel che rimane del loro elettorato a non abbandonarli. E a sognare, invece, quel ritorno alle “origini” compromesse dalla burocratizzazione
ministeriale di Luigi Di Maio e amici, secondo l’analisi orgogliosamente “scorretta” di Alessandro Di Battista condivisa, ma esposta più filosoficamente, diciamo così, dal presidente della Camera Roberto Fico in una intervista pubblicata da Repubblica con l’aria di uno scoop eccezionale.
Ripreso da http://www.startmag.it e policymakermag.it
dovuto consigliare lo spirito sia pure parzialmente maggioritario voluto dagli italiani col referendum di cinque anni prima, D’Alema concesse la grazia, diciamo così, a tutti i colleghi giornalisti con la rinuncia alle querele pendenti. Ma, diavolo di un uomo, ci ricascò alla prima occasione
denunciando Giorgio Forattini per una vignetta che lo rappresentava impegnato a sbianchettare una lista di spie italiane, vere o presunte, degli scomparsi servizi segreti sovietici. E furono soldi che il vignettista avrebbe dovuto sborsare vendendosi qualche casa se a pagare non fosse intervenuto l’editore con una generosità spontanea come i contributi di solidarietà imposti per legge.
ha appena proposto sul Foglio una specie di manifesto della sinistra riformista che, secondo lui, sarebbe oggi rappresentata soprattutto dai sindaci che nelle
ultime elezioni amministrative hanno dimostrato capacità di resistere alla deriva populista e di destra. E pensare che D’Alema una volta liquidò come “cacicchi” i sindaci cresciuti di peso con l’elezione diretta, tanto da sentirsi più forti dei partiti in cui militavano. Analogie col “manifesto” di Minniti le ho un po’ trovate, specie sul tema della sicurezza, nella bella intervista di Claudio Petruccioli a Carlo Fusi.