Francesco Tullio Altan con la vignetta omonima di prima pagina su Repubblica, in cui espone le “idee
chiare” del suo personaggio facendogli dire “sono un tot garantista, e un quid giustizialista”, deve essersi ispirato al senatore grillino, nonché avvocato, Mario Michele Giarrusso. Il quale, uscito dalla competente giunta parlamentare dopo avere votato con altri cinque colleghi di gruppo e dieci fra leghisti, forzisti e fratelli d’Italia contro il processo al ministro dell’Interno Matteo Salvini per sequestro aggravato di persona, e altro ancora, ha opposto il segno delle manette agli esponenti del Pd che lo contestavano.
Quel segno delle manette, specie se collegato ad uno analogo indirizzato qualche giorno fa nell’aula di Montecitorio da un deputato grillino ai parlamentari del Pd che protestavano contro la proposta di legge costituzionale che vorrebbe consentire il referendum propositivo anche per fare o modificare leggi penali, non è francamente confortante, e tanto meno lodevole. Ma con altrettanta franchezza debbo dire -pur ripetendo una infelice battuta sfuggita a suo tempo in televisione a Giulio Andreotti commentando addirittura l’uccisione del povero avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore nel 1979 della banca di Michele Sindona- che i piddini un po’ se la sono cercata quella brutta reazione sotto i portici e nel cortile di Sant’Ivo alla Sapienza, all’uscita dall’aula della giunta del Senato dove essi avevano fatto quadrato, perdendo, attorno al cosiddetto tribunale dei ministri di Catania. Che non è poi un tribunale, come forse pensa la gente comune, trattandosi solo di tre giudici tratti a sorte che svolgono collegialmente le funzioni del giudice delle indagini preliminari, o dell’udienza preliminare.
Questi tre giudici si limitano a rinviare a giudizio un ministro indagato, poi condannato o assolto però da altri giudici, sempre ordinari, se il Parlamento dovesse concedere l’autorizzazione al processo non ravvisando nella condotta dell’uomo di governo “l’esimente”, come l’ha definita con insospettabile competenza in un salotto televisivo il consigliere superiore della magistratura Piercamillo Davigo, del perseguimento di un superiore interesse pubblico,
tutelato da una legge costituzionale di attuazione dell’articolo 96 della stessa Costituzione. E nel caso di Salvini questo interesse, consistente nella difesa dei confini e nel coinvolgimento di altri paesi europei nell’accoglienza ai migranti, c’è stato di sicuro, peraltro certificato dal programma del governo investito regolarmente della fiducia parlamentare e da attestazioni scritte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, del vice presidente Luigi Di Maio e del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, tutti grillini, diversamente da Salvini che è il leader della Lega.
I piddini, una volta tanto uniti pur nelle divisioni abituali ma accentuate dalla campagna congressuale in corso nel loro partito, sono caduti nella tentazione di cavalcare contro l’avversario di turno una vicenda giudiziaria che lo riguarda. Ed hanno perciò reclamato il processo, ed anche auspicato la condanna sposando in pieno, o quasi, un’accusa peraltro formulata dai tre giudici di Catania in difformità dall’ufficio preposto alla stessa accusa, cioè la Procura della Repubblica. Che aveva chiesto l’archiviazione del procedimento non ravvisando reati perseguibili nella condotta del ministro dell’Interno, tesa non a sequestrare nella scorsa estate i 177 migranti soccorsi in mare dal pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera italiana, ma a ritardarne lo sbarco -come correttamente riferito nell’informativa su cui si è svolto un referendum digitale fra gli attivisti grillini- sino al momento della loro distribuzione fra più paesi.
La linea assunta questa volta dal Pd ha peraltro contraddetto l’impegno più volte preso dai più alti esponenti di quel partito, specie se alla guida del governo, come nel caso di Matteo Renzi dal 2014 al 2016, di restituire alla politica “il primato” a lungo compromesso da un rapporto distorto, diciamo pure sottomesso, con la magistratura. Di cui per più di vent’anni si sono scambiati i semplici avvisi di garanzia per prenotazioni di condanne, reclamando e praticando il rito delle dimissioni degli uomini di governo o dei semplici parlamentari interessati, molti dei quali peraltro destinati a non essere poi neppure rinviati a giudizio. E a volte non sono bastate neppure le dimissioni, essendo stati concessi anche gli arresti degli sventurati.
Renzi si è peraltro trovato nella curiosa, spiacevole situazione di sostenere il processo a Salvini e di confidare al tempo stesso nella giustizia protestando contro gli arresti domiciliari appena
comminati ai suoi genitori con procedure e tempi a dir poco anomali. Non saprei come altro definire arresti necessariamente motivati con l’urgenza di non far scappare gli indagati, o di non far distruggere o manomettere le prove, o di far ripetere il reato contestato, ma rimasti per settimane all’esame del giudice competente, e neppure eseguiti immediatamente dopo la firma. Si è cos’ verificato lo spettacolo, che ha giustamente sorpreso Matteo Renzi, delle cronache sovrapposte dell’arresto dei suoi genitori e del verdetto digitale dei grillini, divisi fra il 59 per cento di favorevli a Salvini e il 41 per cento di contrari.
Ne è nata una fiera, francamente, di maschere: come quella di Grillo all’uscita di sicurezza dal teatro
romano dove il comico era stato contestato dal suo pubblico, pur avendo cercato di sostenere dalla sua posizione di “elevato”, “garante” e quant’altro la causa dei soccombenti al computer ed avere definito “bellissime” le cose scritte contro Salvini e i grillini a lui favorevoli dal presente direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio.
Quest’ultimo, dal canto suo, ha subito sfruttato
la cronaca, diciamo così, per irridere a Di Maio sulla prima pagina del suo giornale e per storpiare il nome a Salvini, riscrivendolo all’anagrafe come Salvato, non bastando più il Salvimaio affibbiatogli da mesi per i suoi rapporti con l’omologo grillino al governo. Che, secondo Travaglio, gli avrebbe spianato la strada di primo attore, in tutti i sensi, come una prateria. E ciò anche a costo del suicidio politico del movimento delle 5 stelle.
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persone- di quanti avrebbero potuto perché iscritti, o qualcosa del genere, alla cosiddetta piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. Anche sotto questo aspetto, vista l’affluenza ormai abituale degli elettori alle urne, il movimento grillino ha fatto un passo avanti sulla strada della normalità, e uno indietro rispetto all’anomalia. O alla “diversità” orgogliosamente rivendicata da Grillo.
che come la vittoria addirittura di Barabba evocata con rabbia e sarcasmo sulla prima pagina del Fatto Quotidiano. Che è un po’ il grande sconfitto di questa consultazione on line, visto l’impegno messo nel raccomandare al suo pubblico l’autorizzazione al processo.
Sulla cui indisponibilità alle elezioni anticipate, vera o presunta che sia dopo la partenza del governo Conte, potrebbero essere stati indotti a scommettere in caso di crisi i piddini aperti a quell’intesa già dopo il 4 marzo del 2018, ma bloccati dal veto posto da Matteo Renzi nel salotto televisivo di Fabio Fazio, poche ore prima della riunione della direzione del partito convocata per decidere in materia. Si era appena conclusa, come si ricorderà, un’esplorazione in quel verso affidata dal capo dello Stato al presidente grillino della Camera, Roberto Fico. Che aveva lasciato quanto meno socchiusa la porta ad una trattativa più concreta, o meno generica, di quella che a torto o a ragione gli era stata attribuita nello svolgimento della missione affidatagli da Sergio Mattarella.
lo studio televisivo di un Massimo Giletti particolarmente ben disposto nella sua Arena, che è o non è a seconda delle circostanze, il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini ha voluto mandare un messaggio rasserenante agli alleati di governo: almeno a quelli più inquieti per il referendum digitale che nel loro movimento a cinque stelle, adottate dal Giornale come simbolo delle “brigate Rousseau”, hanno dovuto indire, o subire, sul processo per l’affare Diciotti. Che, se autorizzato poi dal Senato con la prescritta maggioranza assoluta dei voti, vedrebbe Salvini imputato di sequestro aggravato di persona, pur significativamente tradotto con la nota informativa ai votanti on line in “ritardato sbarco” dei migranti. Essi in effetti nella scorsa estate erano stati soccorsi doverosamente in mare dal pattugliatore della Guardia Costiera italiana Diciotti, appunto, ma trattenuti a bordo per alcuni giorni
nel porto di Catania mentre il governo trattava la loro distribuzione fra più paesi o enti disposti ad accoglierli. E questo fu il risultato dell’operazione, conforme alla linea adottata sin dall’origine con tanto di fiducia parlamentare dal governo gialloverde in tema di immigrazione: un risultato indubbio, anche se poi parzialmente vanificato di fatto in quella occasione dai vescovi italiani per le fughe verificatesi dai centri dove i loro ospiti erano stati sistemati, nei pressi di Roma.
nel non detto, ma presunto da Salvini. Il quale, a conti fatti, si è convinto che -salvo incidenti- nella votazione conclusiva nell’aula di Palazzo Madama, dopo il passaggio imminente nella giunta delle cosiddette immunità, i grillini favorevoli al processo contro di lui, non tutti, saranno meno degli oppositori di centrodestra, ma suoi alleati a livello amministrativo e locale, contrari all’autorizzazione a procedere chiesta dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania. E in tal caso non sarebbe certamente il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, ancora capo del movimento delle 5 stelle, per quanto ammaccato dai risultati delle recenti elezioni regionali abruzzesi, o proprio per questo, a reclamare o promuovere la crisi di governo per il processo eventualmente negato al suo omologo leghista.
stelle con un gioco di sì e di no paragonabile ad un equivoco soccorso a Salvini. Essi infatti se gli votassero no lo salverebbero, e viceversa col sì. Il pubblico digitale è stato chiamato, in particolare, a pronunciarsi sul sì o sul no alla possibilità che Salvini abbia tutelato un interesse superiore ritardando, ripeto, e neppure impedendo lo sbarco dei 177 migranti dalla nave Diciotti. Il sì equivarrebbe in effetti al no al processo, e viceversa.
inquilino della Casa Bianca va riconosciuta l’attenuante, nella sua follia o stravaganza a dir poco politica, di essersi mosso in casa, diciamo così, senza ispirarsi addirittura all’antica Grande Muraglia cinese, promossa nel 1967 dall’Unesco a patrimonio dell’umanità e nel 2007 a una delle sette meraviglie del mondo. E noi ancora ce la prendiamo con la bonanima di Nikita Kruscev, o come diavolo si scrive, per il muro di Berlino fatto costruire nel 1961, parzialmente picconato dal popolo nel 1989 e demolito del tutto nel 1991.
dell’Interno Salvini ma anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’altro vice presidente Luigi Di Maio e il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, grillini anziché leghisti, avrebbero tenuto per qualche giorno sotto sequestro nella scorsa estate ben 177 migranti, pur dopo averli fatti soccorrere in mare salvandoli dalla morte.
anche questa volta dalla richiesta di archiviazione da parte della Procura della Repubblica, chiederà l’autorizzazione al processo contro Conte, Di Maio e Toninelli, cioè praticamente contro il governo? E perché mai chi avrà già votato contro il processo a Salvini dovrà poi votare per il processo agli altri tre? Dov’è la logica di questo discorso? E’ solo la logica del partito preso, a favore del diritto della magistratura di emettere una sentenza, nonostante la Costituzione questo diritto non glielo riconosca come scontato e assoluto per via di quell’articolo 96 e della legge costituzionale di attuazione che non piacciono a Travaglio, e alla sua scuola di diritto e d’informazione.
scoperto al governo che la realtà è diversa dalla fantasia. Ciò ha procurato al vice presidente grillino del Consiglio ramanzine e altro ancora nella redazione del Fatto Quotidiano. Di cui pertanto staremo a vedere, nella imminente consultazione digitale, il grado di credibilità o autorevolezza nel rapporto con la più o meno mitica base del movimento delle 5 stelle. Esse potrebbero ben diventare sei, con la faccia di Travaglio, se a prevalere nei computer fosse la scuola politica e persino dottrinaria del giornale che lui dirige.
pezza allo sbrego diplomatico procurandosi con i dovuti modi l’invito ad una visita riparatrice all’Eliseo, Di Maio ha scolorito anche la foto del suo incontro col fabbro e amici. E se n’è fatta scattare un’altra, a tinte azzurre, con interlocutori europei meno scomodi o compromettenti. Non vi è neppure l’ombra o una scarpa, nella nuova immagine, di Alessandro Di Battista.
fare che contestare, nella discussione sulla riforma dell’articolo 71 della Costituzione, il ricorso al referendum propositivo anche per le leggi penali. Che sarebbe un po’ come legittimare quella specie di referendum col quale Pilato, lavandosi le mani nel processo più famoso e infausto nella storia dell’umanità, lasciò decidere alla folla se mandare sulla croce Gesù o Barabba. E toccò a Gesù.
condannati, per finanziamento illegale dei partiti, corruzione, concussione e tutti gli altri reati che i magistrati solevano contestare nell’uragano giudiziario della cosiddetta Tangentopoli. Fu uno spettacolo riproposto, sempre alla Camera, e prima ancora di D’Ambrosio, pur senza ricorrere al cappio, dal grillino Alessandro Di Battista nel 2013 e l’anno dopo dal suo compagno di partito Manlio Di Stefano, oggi felicemente -per lui- sottosegretario agli Esteri. E non dico altro se non che l’attuale alleanza di governo fra leghisti e grillini, pur fra i tanti e crescenti contrasti nella maggioranza, dalla Tav alle autonomie differenziate, dalla politica estera ora anche alla vertenza del latte approdata con i pastori sardi al Viminale, conferma un po’ il vecchio proverbio secondo cui Dio li fa e poi li accoppia.
e Corriere della Sera– che non cadrà e che “il canto del cigno” è solo quello di chi lo ha attaccato e insultato a Strasburgo. Di Maio, forse deciso a riorganizzare il proprio movimento avvicinandolo al
modello di un partito, se riuscirà a convincere Davide Casaleggio e il “garante”, “l’elevato” e quant’altro Beppe Grillo, ha assicurato che finchè lui resterà in carica non ci sarà crisi di governo. Il che, in verità, è una pura ovvietà perché una sua caduta e la crisi sarebbero comunque le due facce di una stessa medaglia.
definirsi, è appena tornato in libreria per descrivere, annunciare, promettere già nel titolo del volume “un’altra strada”. Ma quel diavolo, quell’impertinente di Salvini, peraltro senatore pure lui, lo ha proceduto riproponendo il suo disinvolto uso ed esercizio della serenità, in vista probabilmente delle elezioni europee di fine maggio. Che temo, per il governo, difficilmente archiviabili come quelle abruzzesi di domenica scorsa.
presidente, si sentì spiazzato dalle voci di interventi dello stesso La Malfa, in riunioni riservate di partito, che auspicavano un superamento di quel che rimaneva del centro-sinistra per associare alla maggioranza i comunisti. Il cui segretario Enrico Berlinguer aveva proposto il cosiddetto compromesso storico con la Dc, convinto che un governo delle sinistre in Italia avrebbe fatto la fine del governo del socialista Alliende in Cile, eliminato nel sangue dai generali.
da sposare il paragone fatto su Repubblica da Eugenio Scalfari fra il leader socialista e il “bandito” medievale Ghino di Tacco. Che nella sua Rocca di Radicofani taglieggiava tutte le carovane dei pellegrini dirette o provenienti da Roma.
denominato Alde. Grazie al cui appoggio l’italiano Antonio Tajani, candidato dal Partito Popolare Europeo, ha potuto succedere a un socialista al vertice dell’Europarlamento. Che da qualche tempo gli garantisce anche maggiore visibilità come numero due di Silvio Berlusconi al vertice di Forza Italia, all’opposizione del governo Conte ma in qualche modo corresponsabile della sua formazione, avendo a suo tempo autorizzato l’alleato Salvini a parteciparvi per scongiurare elezioni anticipate subito dopo quelle ordinarie del 4 marzo dell’anno scorso.
diciamo così, ricevendone parole e gesti di solidarietà e comprensione. Da Alessandra Mussolini si è guadagnato, per solidarietà, anche un bel bacio, pur privo della riconoscenza di quello che la signora diede in pubblico a Silvio Berlusconi nella campagna elettorale che la portò a Strasburgo.