Matteo Salvini stressa il governo. Giuseppe Conte col fiato sospeso

              Di certo, questo governo gialloverde non si annoia, né annoia chi ne scrive. Non ha grandi risorse economiche, come si è appena deciso a riconoscere rimodulando la manovra finanziaria – che pure fu festeggiata come una sfida all’Europa dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi- ma ha grandissime risorse di fantasia, di sorprese, di colpi di teatro.

           Basterà citare quanto è  accaduto al  buon Giuseppe Conte, appena restituito a tutti gli onori della carica di presidente del Consiglio dai suoi due vice con la “procura” –“non la delega”, ha precisato lo stesso Conte- a trattare con la Commissione europea le rinunce necessarie ad evitare, o cercare di evitare, la costosa procedura d’infrazione per debito eccessivo.

           Trattenuto a “colloquio” da Annalisa Cuzzocrea, di Repubblica, nel suo ufficio di governo “sotto lo sguardo -ha raccontato la giornalista- della Madonna della Seggiola di Raffaele Sanzio”, il capo del governo si è vantato del cambio di marcia e di tono strappato ai suoi due vice, e già tradottosi secondo lui in una trentina di punti in meno di spread nei mercati finanziari. “Avete visto com’è cambiato il linguaggio?”, ha chiesto Conte alla sua interlocutrice coinvolgendo nella domanda anche gli assenti: dal direttore del giornale ai lettori.

           Quasi contemporaneamente, pur non parlando -una volta tanto- di Europa e dei suoi commissari,  il vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini mandava pubblicamente a quel Paese il capo della Procura di Torino, Armando Spataro, sollecitandolo ad andare in pensione e finalmente a riposarsi. Non proprio il massimo, di linguaggio e altro, per un uomo di governo alle prese con un magistrato, pur in presenza di un rapporto logorato -bisogna riconoscerlo- per responsabilità di entrambi.

           Già distintosi nei mesi scorsi per giudizi critici espressi pubblicamente sul conto di Salvini nella gestione del fenomeno dell’immigrazione, Spataro lo aveva appena redarguito, sempre pubblicamente, per la gestione di una vicenda stavolta riguardante direttamente il proprio lavoro di capo della Procura torinese.

           Il ministro dell’Interno, informato dal capo della Polizia di prima mattina di un’operazione giudiziaria nel capoluogo piemontese per mafia e droga col coinvolgimento di immigrati nigeriani, si era affrettato a darne personalmente l’annuncio al pubblico. Ma, lungi dall’essere conclusa, l’operazione giudiziaria era ancora in corso, col rischio e persino  l’effetto di essere danneggiata dagli elogi del ministro, invitato perciò da Spataro non in modo riservato, come sarebbe stato forse più corretto, ma pubblico a non ripetere in futuro lo stesso errore.

             In ogni caso, l’ultima parola che Salvini ha voluto darsi o mantenere nello scontro col magistrato, riferendosi alla vicina conclusione della sua carriera, lo rendono francamente indifendibile. E giustificano le reazioni che ha provocato sia in sede giudiziaria sia in sede politica, pur col tentativo del ministro grillino della Giustizia di contenere l’incidente in un “corto circuito informativo”. Esso si sarebbe prodotto con la convinzione maturata da Salvini che l’operazione comunicatagli dal capo della Polizia fosse conclusa, e non ancora in corso, essendo in effetti risultate poi sbagliati alcuni particolari annunciati dal ministro.

           Sono immaginabili le dita intrecciate di Conte all’idea che lo stesso Salvini e l’altro vice presidente del Consiglio non resistano alla tentazione di parlare in pubblico delle trattative che lui sta conducendo con l’Unione Europea sulla manovra, nel frattempo operata a cuore aperto in Parlamento con un intreccio di emendamenti, votazioni, annunci di ricorsi alla fiducia, rapporti e quant’altro : altra cosa molto curiosa, diciamo così.

 

 

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I primi, e si spera non ultimi, cent’anni della stampa parlamentare

              L’associazione della stampa parlamentare festeggia i suoi cent’anni di vita, a pochi giorni di distanza dal centenario dell’aula della Camera. Si spera francamente che non siano i primi e pure gli ultimi, peraltro già interrotti una volta da un regime, quello fascista naturalmente, che ridusse a brandelli tutta la stampa, e non solo quella parlamentare, dopo avere profanato l’aula di Montecitorio ancora fresca, si può dire, dell’arte di Ernesto Basile.

             La profanazione avvenne con l’olio di ricino della presentazione del primo governo di Benito Mussolini. Il quale, con un passato ahimè anche di giornalista, si presentò in quello che era stato progettato come il tempio della democrazia parlando di “aula sorda e grigia”, da lui risparmiata all’ultimo momento, ma per poco, al destino di “bivacco di manipoli”.

            Non voglio, per carità, paragonare minimamente questo declinante 2018 al 1922 di quello sciagurato discorso di un presidente del Consiglio in cui c’era già tutto il seme di ciò che sarebbe poi accaduto. Ma si respira oggi una brutta aria di sospetto, di insofferenza e persino d’intimidazione che sarebbe un grave errore sottovalutare.

           Anche negli anni della cosiddetta prima Repubblica i rapporti fra la stampa e la politica hanno vissuto momenti di difficoltà. Non parliamo poi di quelli fra la stampa e la magistratura. Non dimenticherò mai quei “pennivendoli miserabbili”, con due b, gridati da Ugo La Malfa su una tribuna congressuale del suo partito contro i giornalisti di cui chiaramente non aveva gradito cronache e commenti. Eppure, ripeto, era Ugo La Malfa: lo stesso che poi, in un Transatlantico tramortito dalla notizia del sequestro di Aldo Moro e della strage della sua scorta, il 16 marzo 1978, reclamò con la rabbia di cui solo lui era capace il ripristino della pena di morte contro i terroristi.

          Ma la stampa ora riceve insolenze e minacce da esponenti di ben diversa consistenza, che la vorrebbero  supina alle loro attese, alle loro visioni, ai loro interessi politici. E parlano della voglia di “mangiare i giornalisti per il gusto di poterli poi vomitare”, come gridò una volta a un pubblico divertito, anziché scandalizzato, Beppe Grillo. Da cui non mi risulta che poi siano venute parole di scuse, neppure sarcastiche.

         Sul blog delle  cinque stelle, il blog cioè del movimento grillino, si legge in questi giorni una specie di lezione di giornalismo, pur impartita con le più larghe assicurazioni della volontà del maggiore dei due partiti al governo di garantire la libertà d’informazione, d’opinione e quant’altro. “La stampa, i giornalisti -si legge in questa lezione- dimostrino di essere rigorosi e preparati a fare le pulci al potere e a chi guida il Paese. Questo è il suo compito e perciò deve farlo sempre. E non solo col Movimento 5 Stelle”.

         Non vorrei che su questa strada si arrivasse al “bollino etico” anche per i giornalisti, come ad un altro esponente grillino è venuto di proporre per gli avvocati.

         Ma chi giudica del rigore, della preparazione, dell’onestà e della imparzialità dei giornalisti, per quanto l’imparzialità sia di per sé un concetto molto relativo. I lettori, si presume, oltre ai magistrati, cui si rivolgono i politici e gli stessi magistrati quando si ritengono ingiustamente trattati dai giornalisti. Riesce francamente difficile confondere con lettori disinteressati, e neppure con i magistrati, l’autore della lezione sul blog delle stelle. Che è il senatore grillino Vito Crimi: non però un parlamentare fra i tanti, bensì il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria. E’ un uomo, volente o nolente, in conflitto politico d’interesse quando si mette a giudicare i giornalisti. E predispone, magari, provvedimenti destinati a interferire con il loro lavoro.

          Un uomo con quelle delicatissime funzioni di governo, per quanto abbia studiato matematica all’università e abbia fatto l’assistente giudiziario alla Corte d’Appello di Brescia, come si legge nella sua biografia, non può mettersi a impartire lezioni a stampa e giornalisti partecipando con i suoi colleghi di partito alla campagna #iononcicasco.  

         Va bene che questo è un governo dichiaratamente del cambiamento, ma non è per niente detto che esso sia il detentore della verità, che purtroppo -lo riconosco- anche noi giornalisti serviamo male quando abbiamo la presunzione di farne addirittura una testata, con la presunzione quindi della infallibilità, pari nel suo carattere arbitrario solo a quella del censore.

          Crimi -sia detto per inciso- ha voluto partecipare alla festa del centenario della stampa parlamentare. Ed ha preso anche la parola, dopo il “saluto” del presidente della Camera e suo collega di partito Roberto Fico, per difendere la propria posizione critica all’ombra di una storica che aveva attribuito alla stampa un ruolo politico, per cui i giornalisti dovrebbero anche accettare di subirne le conseguenze. La sua è stata una partecipazione che non so, francamente, se definire più disinvolta o coraggiosa, anche perché espressa pure “a nome del governo”.

Quei due in barca, Conte e Juncker, non sono messi molto bene

               Si, è proprio lui, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, inconfondibile con quel ciuffo e quel naso, l’uomo impegnato a remare col presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker sulla stessa barca, o barchino, nella vignetta della prima pagina del Corriere della Sera. Che è stata ispirata ad Emilio Giannelli dall’incrocio delle notizie politiche giunte dal vertice mondiale in Argentina, di cui Conte e Juncker hanno profittato per trattare sui controversi conti italiani bocciati a Bruxelles, e dai due vice presidenti del Consiglio in Italia, Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

               Questi ultimi hanno indicato appunto in Conte tanto paradossalmente quanto generosamente, ma anche perfidamente, come vedremo, “il garante ideale per la nostra interlocuzione con l’Europa”. Anzi, l’uomo che “sta spiegando in modo encomiabile la dirompente portata delle scelte per il cambiamento” fatte dal governo gialloverde con la manovra finanziaria e la legge di bilancio del 2019 all’esame del Parlamento. Ma che hanno messo l’Italia sull’orlo di una costosa procedura comunitaria d’infrazione per debito eccessivo.

              La dichiarazione congiunta dei due vice presidenti, e capi politici dei rispettivi partiti che compongonoImvestitura.jpg l’esecutivo, tradotta da alcuni giornali in una “investitura” di Conte, è paradossale, o paradossalmente ovvia, per l’evidente primazia istituzionale conferita al capo del governo dalla sua stessa carica e dall’articolo 95 della Costituzione. Che gli conferisce il dovere, oltre che il diritto, su cui peraltro ha scommesso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nominandolo, di “dirigere la politica generale del Governo” e di esserne “responsabile”. Per cui egli “mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”, comprese quelle dei suoi due vice, titolari peraltro di dicasteri importanti come quelli dello Sviluppo Economico, del Lavoro e dell’Interno.

             Il carattere quasi sorprendentemente generoso di quella dichiarazione congiunta sta nel fatto che nei suoi primi sei mesi di vita il governo gialloverde si è distinto per una certa avarizia, o diffidenza, dei due vice presidenti nei riguardi del loro superiore sul piano istituzionale. Più che aiutarlo, confortarlo o incoraggiarlo, Di Maio e Salvini hanno spesso tirato la giacca a Conte. Lo hanno altrettanto spesso preceduto o corretto, a volte persino smentito. Essi lo hanno, diciamo pure, scavalcato puntando sulla propria forza politica, ed anche sulla buona educazione di Conte, apparso spesso sin troppo condiscendente verso le loro maniere. Che è una cosa -mi risulta- non sempre compresa e tanto meno apprezzata al Quirinale.

           Il carattere perverso di quella dichiarazione congiunta di Di Maio e Salvini o -ripeto- “investitura”, sta nella sfiducia o nella ulteriore distanza che ne deriva quasi automaticamente dal ministro dell’Economia Giovanni Tria. Che a torto o a ragione, ma forse più a ragione Tria.jpgche a torto, nonostante le incertezze e persino gli sbandamenti colti a tratti nella gestione della manovra finanziaria, fino a subire lo sfondamento del deficit al 2,4 per cento bocciato poi a Bruxelles, è apparso negli ultimi tempi più propenso di tutti a correggere numeri e numerini, come li chiama Di Maio: tanto propenso, da essersi procurato di recente nell’aula del Senato l’apprezzamento e il voto favorevole dell’ex presidente del Consiglio Mario Monti. Il nome del quale è una garanzia, diciamo così, gradita o sgradita che sia, in materia di severità, rigore e quant’altro.

             L’effetto di tutte queste spinte e ragioni contraddittorie della “investitura” appena conferita a Conte dai due vice si vede in quel remo che Giannelli ha messo nelle mani del presidente del Consiglio, e che va nella direzione e forza opposta al remo imbracciato da Juncker. I due sono sulla stessa barca, d’accordo, per ripetere ciò che Conte ha detto cercando di seminare fiducia e ottimismo perché nessuno dei due dovrebbe avere interesse a rovesciarla, ma se riusciranno a muoverla, e in quale direzione, viste le diverse e persino opposte investiture ricevute, nessuno può onestamente dirlo o solo prevederlo.

 

 

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Grillo si distrae con la plastica dalla scomoda crisi del suo movimento

              Le difficoltà politiche in cui si trovano i grillini al sesto mese di governo gialloverde – nonostante o anche a causa del tentativo della sua ala di sinistra, capeggiata dal presidente della Camera Roberto Fico, di  sottrarsi alla morsa leghista cui essa attribuisce la crisi del movimento delle cinque stelle- si avvertono chiaramente affacciandosi al blog del comico genovese. Che è ormai “personale”, si sa, ma è pur sempre un punto di riferimento, perché Beppe Grillo non ha smesso di essere l’anima di quel partito: “il padre di tutti noi”, lo ha chiamato nell’ultimo raduno al Circo Massimo il capo formale del movimento, vice presidente del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro, Luigi Di Maio. Un padre che come quello anagrafico, con  le sue pratiche di lavoro nero e abusi edilizi almeno parzialmente ammesse, gli crea ogni tanto problemi con sparate a stento, molto a stento confinate poi nel repertorio teatrale, ma pur sempre un padre, appunto. Anzi, “l’elevato”, come lo stesso Grillo si autodefinisce anche quando chiama i suoi al telefono e li strapazza a dovere. Mi dicono che ciò accada di frequente.

             Ebbene, a dispetto dei rapporti con la Lega così drammaticamente avvertiti e denunciati con le sue sortite pubbliche dal presidente della Camera, che si morde le mani per non avere potuto votare contro la conversione del decreto legge su sicurezza e immigrazione intestato al ministro dell’Interno Matteo Salvini; a dispetto dei “numerini” sui quali Di Maio ha dovuto ripiegare, parlando della manovra finanziaria contestata dalla Commissione Europea, per spiegare che dovranno forse essere sacrificati agli “interessi dei cittadini”, che fanno pure rima; a dispetto delle tessere del cosiddetto reddito di cittadinanza che entrano ed escono, nella immaginazione dello stesso Di Maio, dalle tipografie delle Poste Italiane; a dispetto del voto favorevole che i pentastellati hanno dovuto ricevere al Senato da Mario Monti sulla strada di un ripensamento finanziario per non rompere davvero con l’Europa; a dispetto ancora delle proteste levatesi nel movimento contro il sostanziale ritiro che Salvini ha  imposto al governo dal fronte del “Global Compact”, come viene chiamato il “preziozo” -l’ha definito Mattarella- documento dell’Onu sull’immigrazione; a dispetto, dicevo, di tutto questo e di altro ancora, Beppe Grillo ha segnalato come l’evento maggiore, più preoccupante o più significativo, della quarantaduesima settimana appena conclusa del suo glob  il fatto che “più della metà dei rifiuti di plastica nell’oceano proviene da soli cinque paesi asiatici”. “La situazione è drammatica”, ha commentato l’insonne -per restare all’”Insomnia” dei suoi spettacoli- che però ha deciso di dormire sulle vicende della sua creatura politica. E di occuparsi piuttosto degli appuntamenti che ha a teatro, non gratuiti ma con tanto di biglietto, col pubblico di  Montecatini il 7 dicembre,  di Pescara il 14, di  San Benedetto del Tronto il 15 e di Rende, in Calabria, il 21.

                   Neppure sul blog, quello ufficiale, delle stelle, e non solo delle cinque del movimento grillino, si trova granché a proposito dei problemi politici che investono, tormentano e Il blog delle stelle.jpgdividono la rappresentanza più numerosa degli elettori alla Camera e al Senato. C’è la solita foto del “capo” Di Maio fra il pubblico  che lo saluta più o meno festosamente, ma poco di più, fra cui la solita ossessione per i giornali che criticano il movimento allo scopo di “delegittimarlo”, per cui “non bisogna cascarci”. #noncicasco, è infatti la parola d’ordine digitale che ogni militante, elettore e quant’altro del movimento deve ripetere, evitando per ora -si spera- di assaltare le edicole e di bruciarne il contenuto.

                   Piuttosto, è il caso che i più motivati nel sostegno delle cause grilline corrano a dare una mano nel Il balcone di Di Maio.jpgcantiere allestito a Palazzo Chigi, e impietosamente rivelato con foto da Libero, per rinforzare il balcone su cui Di Maio festeggiò poco prudentemente lo sforamento del deficit, sino al 2,4 per cento, appena imposto al riluttante ministro dell’Economia Giovanni Tria. Il quale fu trattenuto a stento dalle dimissioni dal presidente della Repubblica, preoccupato che una crisi di governo procurasse ancora più danni.  Mai festa si è forse rivelata così intempestiva, e perniciosa, a tutti gli effetti: dai mercati finanziari allo stesso balcone della Presidenza del Consiglio.

 

Assedio istituzionale a Matteo Salvini. Si complica la situazione politica

                 E’ scattato contro Matteo Salvini, quotidianamente a cavallo della sua notorietà umana e politica, e dei sondaggi elettorali che lo danno in crescita rispetto ai suoi vecchi e nuovi alleati di governo, un assedio che non è esagerato definire istituzionale, viste le provenienze degli attacchi, diretti o allusivi, che gli sono stati rivolti nelle ultime 24 ore. E curiosamente in coincidenza, o subito dopo un’intervista al Corriere della Sera in cui un’altra figura quasi istituzionale, ormai, come il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti gli ha dato dell’insegnante di “diseducazione civica” agli italiani. Che di simili lezioni, a dire il vero, già ne ricevono da altri, e da un certo tempo.

              Anche al democristiano Mario Scelba, ministro dell’Interno come Salvini, capitò negli ormai lontani anni Cinquanta, e forse anche qualcosa di più, di essere strapazzato come insegnante di educazione civica per avere definito “culturame” tutto ciò che si scriveva e si diceva sotto il profilo intellettuale contro il polso fermo col quale egli faceva difendere, e perciò garantiva, l’ordine pubblico nelle piazze e dintorni.

             Per tornare ai nostri  giorni, o alle nostre ore, dopo l’antipasto di Monti, pur reduce da un voto a sorpresa, nell’aula del Senato, a favore del governo sul terreno scivolosissimo dei rapporti con Fico.jpgl’Europa, vista la severità con la quale l’ex presidente del Consiglio giudica chi si trova a confliggervi, è arrivato sulla tavola di Renzi  il primo piatto del presidente della Camera Roberto Fico. Che, in deroga alla neutralità del proprio ruolo, per quanto già disattesa da qualche suo predecessore ai tempi dei governi sia di centrosinistra sia di centrodestra, ha voluto confermare – e sottolineare quindi ancor più di quanto non avessero fatto i cronisti parlamentari-  la sua non casuale assenza dallo scranno più alto di Montecitorio nella seduta in cui è stata approvata la conversione del decreto legge su immigrazione e sicurezza: un po’ il fiore all’occhiello del vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno.  E un po’ anche dello stesso presidente del Consiglio Giuseppe Conte, grillino come Fico, che ha affiancato Salvini nella foto festeggiante l’approvazione della legge, procurandosi per questo da Massimo Giannini, su Repubblica, la qualifica di uomo sandwich.

              La battuta con la quale Salvini ha cercato di liquidare la sortita -non la prima- di Fico contro di lui, esprimendo il dubbio che il presidente della Camera avesse letto davvero il provvedimento, ha ottenuto l’effetto opposto a quello desiderato. Fico infatti ha precisato di averne letto ben bene il testo, e di avere proprio per questo voluto evitare solo di assistere, pur senza votare, alla sua approvazione.

              Il secondo piatto, ma  forse anche la frutta, il dolce, il gelato e il digestivo sono stati serviti a Salvini dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il quale, senza tornare sul decreto sicurezza e Mattarella.jpgsulle preoccupazioni che lo avevano indotto ad emanarlo con una lettera di accompagnamento e di raccomandazione per il rispetto delle norme costituzionali sulla stessa materia, ha voluto contestare le riserve espresse da Salvini, e praticamente imposte al governo, su un documento dell’Onu in tema di immigrazione, noto come “Global Compact”. Alla cui consacrazione, diciamo così, non a caso l’Italia non parteciperà il 10 e l’11 dicembre, in un incontro internazionale a Marrakech organizzato dalle stesse Nazioni Unite. Eppure Giuseppe Conte in persona vi aveva assicurato l’adesione parlandone nel Palazzo di Vetro, a New York.

                 Ebbene, proprio di quel “documento”, citato pur senza ricordarne esplicitamente la provenienza Onu, il capo dello Stato ha voluto condividere e indicare la “preziosità”, ai fini della gestione del complesso e universale fenomeno dell’immigrazione, parlandone all’Univerità di Verona.

                 Salvini, che con Mattarella ha avuto già altre occasioni di confronto difficile, a dir poco, ha incassato in silenzio la stilettata presidenziale, almeno sino al momento in cui scrivo, forse per non creare al suo partner di governo Luigi Di Maio un problema maggiore di quello procuratogli all’interno del movimento grillino da Fico. Che quanto più passa il tempo, più si complica la gestione del famoso e spesso incerto “contratto” di governo, più difficoltà incontra Di Maio nel suo ruolo di capo politico del movimento delle 5 stelle, tanto più ne diventa o appare contraltare o concorrente: forse ancor più di quanto sia stato avvertito sinora, con i suoi messaggi dall’America del Sud, il grillino ex deputato Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici.

                 Si deve probabilmente alla comprensione per i problemi che Di Maio – per non parlare delle vicende familiari di lavoro nero e abusi edilizi- ha all’interno del proprio movimento, dove gli rimproverano troppa accondiscendenza verso i leghisti, anche la decisione di Salvini di disertare all’ultimo momento un vertice del centrodestra dove era atteso. E dove Berlusconi, smentendo reazioni stizzite di qualche fedelissimo, che smania per il ritorno di Salvini “a casa”, si è accontentato di un’amichevole telefonata di chiarimento fattagli dal troppo occupato, e preoccupato, ministro dell’Interno.

              La situazione politica  è insomma complessa, su tutti fronti, compreso naturalmente quello della riscrittura, o quasi, dietro le quinte, della manovra finanziaria per cercare di schivare o allontanare la procedura europea di infrazione per eccesso di debito, specie ora che il prodotto interno lordo è risultato  non fermo ma arretrato nel terzo trimestre del 2018, e primo del governo gialloverde.

 

 

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