
Sono fra quelli che videro con interesse e una certa simpatia l’arrivo di Matteo Renzi al vertice del Pd e subito dopo anche del governo. La sua voglia dichiarata di modernizzare la sinistra mi ricordava Bettino Craxi. Che aveva rovesciato la politica socialista condizionata dalla paura dei comunisti ai tempi della segreteria di Francesco De Martino. E sfidato il Pci sino a fargli perdere letteralmente la bussola, guadagnandosi del bandito, e simili, nelle note che Tonino Tatò redigeva per Enrico Berlinguer alle Botteghe Oscure. Ne sarebbe derivato poi un libro.
Per quel pochissimo, o niente che poteva contare, simile tuttavia anche a quello di Eugenio Scalfari su Repubblica, anche a costo di dividerla, votai a favore della riforma costituzionale di Renzi nel referendum che invece la sotterrò.

Di un solo aspetto o particolare non mi convinceva il riformismo di Renzi: l’allineamento alla demonizzazione di Craxi, cui egli dichiarò una volta -credo ripetendolo poi- di preferire nel Pantheon della sua sinistra Enrico Berlinguer. La trovavo, e la trovo tuttora, una incomprensibile mancanza di coraggio, aggravata dalle spiacevoli esperienze fatta poi anche da Renzi nei rapporti con la magistratura gonfiatasi di potere negli anni di Tangentopoli. Le sue esondazioni sono state ammesse da uomini insospettabili della sinistra comunista e post-comunista come il compianto Giorgio Napolitano, scrivendone pubblicamente alla vedova di Craxi dal Quirinale, e l’ancora felicemente vivo Luciano Violante, partecipe del dibattito politico in corso senza reticenze.
Ho un po’ ritrovato qualche giorno fa il Renzi dell’irruzione al vertice del Pd e del governo nella sua millesima enews, a distanza di 24 anni dalla prima, arrivata come al solito nella mia posta elettronica. E ho voluto dargliene atto in un brevissimo messaggio con una domanda però impertinente, anzi provocatoria, cui mi aspettavo che non mi rispondesse. Invece mi ha riposto, chiamandomi per nome e includendo -spero non solo per cortesia- le opinioni diverse dalle sue sulle quali riflettere.
In particolare, gli ho chiesto se non gli convenga fare la sinistra vera della destra, come viene oggi liquidata quella al governo a partecipazione composita, piuttosto che la destra di una sinistra che io ritengo “sedicente” per le posizioni che ha in diversi campi, a cominciare da quello giudiziario.

Trovo di buon senso quel pur rituale “Grazie, Francesco” ricevuto. E accomunato ripeto, ad altre osservazioni critiche che Renzi accetta senza inorridire. Non mi faccio tuttavia molte illusioni perché so bene da vecchio cronista e osservatore politico quanto rimanga attuale la confusione lamentata da Alessandro Manzoni, scrivendo della peste a Milano di cinque secoli fa, fra il buon senso e il senso comune, a vantaggio non del primo ma del secondo. Il buon senso, per esempio, avvertito anche da Walter Veltroni nel 2007 assegnando una “vocazione maggioritaria” al Pd di cui aveva appena assunto la prima e breve segreteria, in un clima di confronto costruttivo col centrodestra di Silvio Berlusconi. Ma poi preferendo nell’apparentamento elettorale del 2008, confortato dai consigli di Goffredo Bettini, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro al partito radicale dell’ancor vivo Marco Pannella, che si era offerto in alternativa. Seguì un epilogo in due tempi: prima il rifiuto di Di Pietro di fare gruppo parlamentare unico col Pd, pur promesso prima delle elezioni, e poi la fine della segreteria Veltroni, l’anno dopo.
Pubblicato su Dubbio
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