
Fra Strasburgo e Bruxelles, fra il Parlamento europeo e gli uffici della Commissione esecutiva dell’omonima Unione, più che la premier Giorgia Meloni di persona, quando ci va, o a viva voce, quando parla da remoto con le ormai amiche personali e presidenti, rispettivamente, Roberta Metsola e Ursula von der Leyen, maltese una e tedesca l’altra, si aggira il fantasma di Giulio Andreotti. Che in Italia visse politicamente di maggioranze variabili, guidando sette governi e altrettante maggioranze estese, secondo i casi, fra la destra e la sinistra, dai liberali -per non parlare dei missini in talune circostanze non illuminate dai riflettori- sino ai comunisti.

Bettino Craxi parlava di lui come di “una volpe” destinata, come tutte le volpi, a finire prima o poi “in pellicceria”, non risparmiandosi tuttavia di collaborarvi, per quattro anni tenendoselo come ministro degli Esteri in due governi e accettandolo poi come presidente del Consiglio. Cioè contribuendo a quella che lo stesso Andreotti, ingobbandosi più del solito, definiva la politica o la pratica dei “due forni”. Cui la sua Dc doveva potersi rifornire secondo i bisogni, le opportunità e quant’altro: i forni, appunto, della sinistra e della destra, cui secondo lui arrivavano ogni tanto nelle urne voti democristiani “in libera uscita”, e altrettanto libero rientro.
Da morto, come fantasma, Andreotti è riuscito a propiziare in qualche modo a livello europeo questa politica o pratica dei due forni, realizzabile tuttavia non con più governi in diverse legislature ma con un solo governo -la seconda Commissione di Ursula von der Leyen- in una sola legislatura. Che è quella uscita dalle elezioni europee di giugno.
Grazie a questa politica dei due forni, ripeto, dopo una tempesta di qualche giorno a livello mediatico e parlamentare, salvo sorprese improbabili nella votazione conclusiva del 27 novembre nell’Europarlamento, il commissario italiano con deleghe importanti Raffaele Fitto potrà essere anche uno dei sei vice presidenti vicari della Commissione. Per la cui presidente, nei momenti della designazione e della conferma parlamentare, la Meloni personalmente e poi il suo partito si astennero dissociandosi quanto meno dal metodo con cui i vertici dell’Unione, ma soprattutto il francese Emmanuel Macron e il tedesco Olaf Scholz, pur entrambi indeboliti dalle elezioni continentali di giugno, l’avevano voluta replicare.

Si è detto e scritto, anche da parte di un esperto della materia come Romano Prodi, fra i predecessori di Ursula von der Leyen, che la nuova Commissione europea parte “indebolita”, con vice presidenti che non meriterebbero tutta l’attenzione che si sono procurata, sempre secondo Prodi. Che a distanza di quasi 25 anni dalla sua avventura bruxelliana non ricorda neppure più se, quanti e come si chiamassero i suoi vice presidenti.

Eppure c’è qualcosa in questa valutazione di Prodi e di altri a sinistra che personalmente non mi convince, senza con questo volere condividere a scatola chiusa la soddisfazione entusiastica della premier Meloni, condivisa invece dal Riformista con una foto e un titolo di copertina che la propone come una riproduzione bambolesca di Evita Peron, affacciata alla Casa Rosada d’Argentina dove è appena andata in missione.
Non mi convince, in particolare, l’equazione fra l’ampiezza della pur variabile maggioranza della von der Leyen -o von der Meloni, come ho letto in una vignetta- e la sua debolezza in un momento cruciale dell’Europa, fra la guerra dei dazi annunciata da Donald Trump dagli Stati Uniti e quella che continua in Ucraina, pur nella promessa dello stesso Trump di farla cessare quasi d’incanto. E’ tempo per e in Europa di larghe solidarietà, non di maggioranze delimitate come fortini. Siamo comunque appena all’inizio, anzi agli allenamenti di una lunga partita. Tutto può essere o rivelarsi esagerato come la famosa morte di Mark Twain annunciata nel 1897, ma avvenuta nel 1910.
Pubblicato sul Dubbio
Lascia un commento