
Altro che il “breve libello” proposto dall’autrice nell’introduzione con modestia forse scaramantica. Breve, sì, se sembrano poche le 175 pagine distribuite in 11 capitoli e stampate con eleganza dalla Piemme, cioè da Mondadori, ma quello che Stefana Craxi ha scritto sul padre, Bettino, e sulla propria, prima esperienza di vita vissuta “all’ombra della storia”, raccontandosi “tra politica e affetti”, come si dice nei titoli, è un signor Libro. Che racconta come meglio mi era capitato di leggere prima, ciò che lui è stato, ha rappresentato ed è rimasto in chi lo ha apprezzato, nonostante la dannatio memoriae praticata dai suoi avversari, armati di bugie, di livore, di invidia e di sentenze giudiziarie.

Di queste ultime, peraltro, Stefania Craxi ha giustamente sottolineato l’aspetto “beffardo”: sia della prima sia delle ultime. Della prima, di condanna, in cui si diede atto al padre che “in questo processo non è risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che li abbia ricevuti a sue mani, ma questa circostanza -che forse potrebbe avere un valore da un punto di vista per così dire estetico- nulla significa ai fini delle responsabilità penali”.

Le ultime sentenze furono quelle “di condanna -ha ricordato sempre Stefania- che la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva emesso nei confronti dei processi di Craxi”, tradotte tuttavia in “risarcimenti di poche migliaia di euro”. Incredibile ma dannatamente vero, come tutto il resto che si legge nel libro della “falsa rivoluzione” condotta dalle presunte “mani pulite” della magistratura improvvisamente accortasi negli anni Novanta della vecchia, diffusa, generalizzata pratica del finanziamento irregolare dei partiti e, più generalmente, della politica. Una pratica ammessa, spiegata, raccontata dallo stesso Craxi, prima ancora di essere formalmente coinvolto nelle indagini, parlando alla Camera dei Deputati in un silenzio d’aula tanto vasto quanto imbarazzato e confermativo di una classe politica che aveva scelto “l’abdicazione” alla magistratura, offrendole come capro espiatorio un leader socialista troppo scomodo per tutti nella sua autonomia: sia per gli alleati di governo sia per gli avversari. Fra i quali, se si potesse dare l’oscar della franchezza, esplicativa di tutto quello che avvenne fra tribunali, giornali, piazze e anfratti, esso spetterebbe a Massimo D’Alema.

L’allora capo vero, al di là degli incarichi formali, della sinistra post-comunista travolta dal crollo del muro di Berlino, raccontò con le parole riprodotte da Stefania Craxi nel libro a pagina 122: “Eravamo come una grande Nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via di uscita, un canyon. E lì c’era Craxi, con la sua proposta di unità socialista, che aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un Paese europeo occidentale. Quindi era lui che rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il Partito socialista in Italia”, peraltro senza avere neppure il coraggio di assumerne il nome, ma riuscendo a strappare l’ammissione all’Internazionale Socialista allo stesso Craxi. Che disponeva di un veto per una operazione del genere e che evidentemente non era poi quel prepotente dell’immaginario comunista dalla trippa da vendere e consumare nelle mense alle feste dell’Unità.

In una situazione politica così impietosamente raccontata, ripeto, da D’Alema come poteva Craxi scampare alla fine raccontata dalla figlia Stefania -dopo tanti passaggi anche festosi e divertenti della sua testimonianza adolescenziale degli anni felici- con uno strazio che non può non fare venire un nodo alla gola a un lettore provvisto di un minimo senso dell’umanità? La sua eliminazione era segnata, dopo tutte le emozioni e le speranze da lui accese in una cavalcata politica semplicemente straordinaria, seguita con l’affetto e l’ammirazione di una Stefania decisa spesso anche a “imbucarsi” nella sua prima vita di “testimone”. Che cessò per essere seguita da quella politica – sfociata per ora nella presidenza della Commissione Esteri e Difesa del Senato- il giorno stesso della morte del padre, di cui ricorrerà il 19 gennaio prossimo il 25.mo anniversario. E di cui lei ha raccolto l’eredità abbandonata o tradita da troppi “arrivisti e arrembanti” degli anni dell’incipiente o maggiore potere.

Raggiunta al telefono ad Hammamet dall’allora sottosegretario di D’Alema a Palazzo Chigi Marco Minniti per essere informata dei funerali di Stato spettanti al padre, Stefania rifiutò con comprensibile e condivisibile orgoglio dopo tutte le infamie riservategli. “Fu il primo atto politico della mia seconda vita”, ha raccontato in un libro tutto da leggere, quasi d’un fiato.
Pubblicato sul Dubbio
Lascia un commento