Sogni e spinte alla crisi di governo come ai tempi di Craxi a Palazzo Chigi

Da Libero

Da vecchio cronista -molto vecchio, lo riconosco, ma ancora vivo e con una buona memoria, ringraziando Dio- sto rivivendo di fronte al governo di Giorgia Meloni, pur in circostanze tanto diverse, per carità, la stessa esperienza emotiva e politica di una quarantina d’anni fa di fronte al governo di Bettino Craxi. Che non aveva vinto le elezioni del 1983, come Meloni invece quelle del 2022, ma era riuscito lo stesso a strappare Palazzo Chigi alla Dc guidata da Ciriaco De Mita. Che si era paradossalmente proposto al vertice dello scudo crociato, succedendo a Flaminio Piccoli, proprio per evitare che l’ingombrante alleato socialista rivendicasse quel palazzo mancatogli nel 1979, quando a spingerlo era stato l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Quest’ultimo aveva voluto dare alla Dc il massimo di garanzia nella ripresa dell’alleanza col Psi dopo il disimpegno di Francesco De Martino e la conseguente parentesi della “solidarietà nazionale”, realizzatasi con due monocolori democristiani di Giulio Andreotti appoggiati esternamente dal Pci di Enrico Berlinguer.

All’inattesa iniziativa di Pertini, conferendo a Craxi l’incarico di presidente del Consiglio, la Dc aveva reagito tuttavia chiudendosi a riccio. Solo Arnaldo Forlani, astenendosi in una decisiva riunione della direzione del partito, aveva apprezzato astenendosi sul no opposto da tutti gli altri.

Quattro anni dopo Craxi arrivò lo stesso a Palazzo Chigi, nonostante- ripeto- nel frattempo fosse diventato segretario dello scudocrociato il suo avversario più dichiarato e ostinato, ma penalizzato nelle urne perdendo sei punti percentuali in un colpo solo.

Bettino Craxi nel 1983

Dall’approdo del leader socialista alla guida del governo non vi fu praticamente giorno senza che la Repubblica -quella di carta diretta ancora dal fondatore Eugenio Scalfari- ne annunciasse la crisi imminente scommettendo sui malumori e quant’altro di De Mita. Che nel referendum del 1985 sui tagli antinflazionistici apportati dal governo alla scala mobile dei salari non ritenne di fare un solo comizio -dico uno- a favore di Craxi e contro i promotori dell’abrogazione di quel provvedimento.  Esso fu bocciato in alcune località grandi e piccole, come la Nusco di De Mita, in Irpinia, ma a livello nazionale confermato dal 54,3 per cento degli elettori contro il 45,7. E con un’affluenza alle urne di quasi il 78 per cento.

Craxi e De Mita

Fu uno smacco non so, francamente, se più feroce, come apparve, per l’ormai buonanima di Berlinguer, morto dopo avere imposto il referendum alla Cgil, o per De Mita rimasto tuttavia in sella al cavallo democristiano per continuare nella sua opera non proprio di fiancheggiamento al governo, dove pure la Dc era rappresentata dalla maggioranza dei ministri.

Nell’autunno di quello stesso anno il governo Craxi sopravvisse anche alla crisi tentata dal ministro della Difesa Giovanni Spadolini dimettendosi per protesta dopo uno scontro fra Craxi in persona e l’allora presidente americano Ronald Reagan sull’epilogo del sequestro terroristico della nave italiana Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo. “Dear Bettino”, scrisse Reagan in persona al premier italiano per chiudere l’incidente scoppiato sulla pretesa della Casa Bianca di processare gli autori palesinesi di quel sequestro in America e non in Italia, dove i terroristi erano atterrati con un aereo egiziano che li trasportava in Tunisia, intercettato dai caccia statunitensi.

Amintore Fanfani

Per liberarsi di quel governo, dopo una crisi tentata nell’estate del 1986 dalla Dc cercando di mettere in pista per Palazzo Chigi Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri di Craxi, il segretario dello scudo crociato dovette ricorrere nel 1987 all’allora presidente del Senato Amintore Fanfani per un governo monocolore democristiano da fare bocciare a Montecitorio dalla stessa Dc perché l’imbarazzatissimo  presidente della Repubblica Francesco Cossiga potesse, anzi dovesse sciogliere anticipatamente le Camere. E mandare gli italiani alle urne con un anno di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria.

Ai fortunatamente più giovani cronisti di me questo racconto risulterà forse incredibile. Ma corrisponde alla realtà, oggi improponibile e inimmaginabile per le diverse forze in campo e gli ancor più diversi rapporti di forza. Tutto è davvero cambiato da allora in Italia, anche con nuove edizioni della Repubblica: quella vera. Ma non nelle abitudini e aspirazioni della Repubblica di carta alla crisi di un governo sgradito. Eppure essa nel frattempo è cambiata di proprietà e più volte anche di direttore.

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