
In una lunga intervista a Chi molto intrigante sul piano personale, sul piano cioè dei suoi problemi di donna, di madre, di separata “definitivamente” dal pur meraviglioso padre, il migliore che potesse capitare alla loro comune bambina, la premier italiana non si è sottratta a questioni politiche rilevantissime per il suo governo, la sua maggioranza, gli interessi del paese che governa.

Richiesta, per esempio, di pronunciarsi sulla corsa alla Casa Bianca ora che si è ritirato il presidente uscente, il democratico Joe Biden, e la gara è fra Trump e la vice di Biden, Kamala Harris, la Meloni ha testualmente risposto: “Tutti sanno che sono presidente del Consiglio dei conservatori europei, e che tra i partiti esterni all’Europa che aderiscono ai conservatori ci sono anche i repubblicani americani, quindi le mie preferenze sono note”. Note cioè a favore dei repubblicani statunitensi il cui candidato alla Presidenza è l’ex presidente Donald Trump, che in Italia quindi non raccoglie l’appoggio, le simpatie e quant’altro solo del vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini.

E’ una “preferenza” -ripeto- quella della Meloni che -ha precisato responsabilmente la stessa premier- “non mi ha impedito di lavorare bene con l’amministrazione democratica di Biden, perché tra grandi Nazioni alleate i rapporti non cambiano col mutare dei governi. Saranno gli americani a scegliere. E sono certa che comunque vada, continueremo a lavorare bene con gli Stati Uniti”.
Sono grato come giornalista di lungo corso per la trasparenza con la quale la Meloni ha dichiarato la sua “preferenza”, ripeto ancora, per i repubblicani degli Stati Uniti e per il loro candidato alla Casa Bianca. Grato perché mi risparmia la tentazione un po’ dietrologica di altri colleghi di attribuirle la solita doppiezza del politico, uomo o donna che sia, di dire una cosa e pensarne un’altra. Di attribuirle, in particolare, il sostegno palese a Trump e sottinteso alla concorrente Harris, che lei peraltro ha tenuto anche a precisare di “non conoscere”, per quanto vice presidente in carica degli Stati Uniti.

Di questa nostra mania o abitudine professionale -scusatemi il plurale maiestatis- di sdoppiare il politico di turno, facendogli dire una cosa e pensare o desiderare un’altra, feci personalmente le spese tanti anni fa, esattamente nell’estate del 1968, insieme al compianto collega Guido Quaranta, in un incontro a Terracina con Aldo Moro. Del quale, estromesso da Palazzo Chigi con un governo “balneare” affidato al pur amico e collega di partito Giovanni Leone, non si riusciva a sapere, capire e quant’altro quale atteggiamento avrebbe assunto nella preannunciata sessione autunnale del Consiglio Nazionale della Dc. Dove si sarebbe consumata clamorosamente la rottura dell’ormai ex presidente del Consiglio con i suoi colleghi dorotei di corrente e il passaggio all’opposizione interna, accettando la sfida a chi avrebbe saputo, voluto o potuto aprire di più il centro-sinistra all’opposizione comunista.
Moro, che stava riflettendo appunto su questo ed altro, di carattere anche personale, ci accolse sul lungomare di Terracina, accennando alla scorta di non allontanarci, nel suo solito modo cortese. Che non gli impedì però ad un certo punto di perdere la calma e di abbandonarsi ad uno sfogo contro “voi giornalisti -disse, pur conoscendo le personali simpatie che Guido e io non avevamo nascosto nei suoi riguardi scrivendone, rispettivamente, su Paese sera e Momento sera– che anziché aspettare le decisioni dei politici avete la presunzione di anticiparle”.
Dopo qualche tempo Guido e io, che a Terracina ci eravamo sentiti in imbarazzo, ci consolammo raccogliendo dallo stesso Moro, una sera davanti ad un cinema romano, uno sfogo mirato contro l’allora direttore del Corriere della Sera Giovanni Spadolini, che pure nel 1974 sarebbe diventato ministro del suo quarto governo.

In un editoriale domenicale dedicato ad una temuta “Repubblica conciliare” Spadolini ne aveva visto e indicato un segnale in un voto espresso dall’ex premier in commissione alla Camera, con i comunisti, a favore della promozione agli esami di Stato a parità di voti. “Ma io -ci spiegò Moro- ho solo condiviso per gli esami di Stato un principio di diritto penale”, di cui egli era peraltro professore universitario.
Pubblicato sul Dubbio
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