Se il Pd di Elly Schlein si becca dello stolto da Luca Ricolfi

Permettetemi di ringraziare da quest’angolo del Dubbio Luca Ricolfi per il godimento che mi ha procurato la lettura sulla Ragione -e dove sennò ?, viene spontaneo chiedersi per il valore che dovrebbero ancora avere le parole- un suo saggio tanto breve quanto esauriente sulla stoltezza. Che è un po’ un ossimoro per il contrasto che suggeriscono la natura dell’articolo -un saggio, appunto- e l’oggetto della sua analisi, da non confondersi per favore, come ha avvertito lo stesso autore, con la stupidità per l’impossibilità di assegnare ad entrambe lo stesso, unico opposto.    

         “Il contrario di stupido -ha spiegato Ricolfi- è intelligente mentre il contrario di stolto è saggio”. E intelligente e saggio non è la stessa cosa. Lo sa, o dovrebbe averlo imparato da sé Matteo Renzi -non citato, per carità, da Ricolfi- che con la riforma della Costituzione avviata nel 2014 in sintonia col pur oppositore Silvio Berlusconi fece una cosa intelligente, almeno per me che poi la votai condividendola, ma prima rompendo col Cavaliere e poi trasformando il referendum cosiddetto confermativo in un plebiscito sulla sua persona -o leadership come si preferisce- non fu per niente saggio. E infatti lo perse per poi perdere altre partite ancora, il cui elenco non è forse finito, anche se ogni tanto gli è riuscito di fare qualche efficace operazione di palazzo. Quella, per esempio, condotta contro il secondo governo di Giuseppe Conte, da lui stesso voluto o permesso, e sfociata nell’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Draghi, per niente stanco -come credeva l’avvocato grillino- della lunga  alla Banca Centrale Europea.

“Lo stolto è chi agisce senza vedere le conseguenze del proprio agire, che potranno essere negative per lui stesso”, ha scritto Ricolfi rammaricandosi che la stoltezza “sia scomparsa dal nostro vocabolario”, specie quello politico, per non essendo scomparsa dal nostro mondo. E lui, con l’autorità quasi scientifica che si è guadagnato scrivendo e insegnando, ha voluto riportarla nel dizionario, e nel commento politico, per applicarla al modo in cui Elly Schlein sta guidando o comunque maneggiando il Pd. Dal quale lascia che escano fior di dirigenti ed eletti, votati magari con le preferenze dove esse sono miracolosamente rimaste, dicendo che avevano sbagliato ad entrarvi a suo tempo perché non era quello l’indirizzo giusto per loro. Insomma avevano sbagliato casa, o cinema, o set cinematografico per girare un film che avrebbe poi potuto portare alla segreteria del partito una come lei. Alla quale Ricolfi ha solo risparmiato l’altra, la prima sua felice perfidia risalente al 2008: la denuncia -con tanto di libro dal meritato successo, scritto prima e aggiornato dopo la sconfitta elettorale conseguente alla all’infelice epilogo anche del secondo e breve governo di Romano Prodi, come l’altro di dieci anni prima- di una sinistra diventata antipatica, suo malgrado o, peggio ancora, consapevolmente.  Una denuncia analizzata in prima persona al plurale: una specie di autoconfessione, avendo anche lui probabilmente votato per il partito fondato e diretto in prima battuta da Walter Veltroni

         Ne sono passati di anni dal 2008- quindici- e la Schlein, oltre a spingere praticamente fuori i dissidenti senza neppure cercare di trattenerli, contesta disinvoltamente alla Meloni l’aumento degli sbarchi dei migranti che il Pd -le ha ricordato impietosamente Ricolfi- reclama di accogliere ancora più numerosi e facilmente.

         Incoraggiato da tanta dissertazione sulla stoltezza, mi sono messo a leggere per curiosità un lungo racconto della periferia del Pd fatto da Carmelo Caruso nello stesso giorno sul Foglio,  ormai uscito dall’area e aria del centrodestra in cui fu fondato da Giuliano Ferrara dopo aver fatto il ministro dei rapporti col Parlamento nel primo governo di Silvio Berlusconi.  Ebbene, al netto della brillantezza del racconto, fra tanti nomi, cognomi, soprannomi e simil-correnti, ho faticato ad arrivare sino alla fine e mi sono ritrovato col mal di testa. Eppure ho una certa esperienza, essendomi guadagnato a suo tempo da un direttore esigente come la buonanima di Indro Montanelli la qualifica di “eurologo”: da Eur, dove la Dc aveva la sua sede e riuniva il Consiglio Nazionale, riservando a Piazza del Gesù, in centro, solo gli uffici di rappresentanza e le sedute della direzione. E proprio alla situazione interna della Dc fu dedicato il mio articolo di apertura del primo numero del Giornale in cui aiutavo Amintore Fanfani, diciamo così,  a contare “amici e nemici” dopo la sconfitta referendaria sul divorzio.

         Le mie mappe democristiane finirono addirittura per far bisticciare il buon Valentino Parlato -come mi raccontò lui stesso al bar di fronte alla sede del manifesto- con i compagni che ne diffidavano per il peso mai abbastanza adeguato, secondo loro, che attribuivo alla sinistra interna allo scudocrociato, anche dopo l’elezione di Ciriaco De Mita nel 1982 a segretario del partito. Parlato invece se ne fidava e avvertiva i compagni che “ci azzeccavo”. Infatti anche De Mita, come Fanfani nel 1959 dopo essersi avventurato nel doppio incarico di segretario del partito e presidente del Consiglio, fu costretto ad arrendersi, sdegnato, al corpaccione moderato di quella che Giampaolo Pansa avrebbe poi chiamato con imponenza “la balena bianca”.

Pubblicato sul Dubbio

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