Il Papa per fortuna sta meglio, non i suoi avversari fuori e dentro le mura vaticane

Anche se non abbastanza per lasciare già il Policlinico Gemelli, assediato dalle telecamere come Piazza San Pietro dall’angoscia del vuoto e del silenzio, Papa Francesco migliora e riceve, come si compiace Avvenire, il giornale dei vescovi italiani ,“auguri da tutto il mondo”.

Eppure “in Vaticano si trama”, scrive Iacopo Scaramuzzi su Repubblica, secondo il quale “i problemi fisici di Francesco hanno rianimato i conservatori che speculano sulla sua salute”. “In Vaticano inizia il Conclave ombra”, riferisce il Corriere della Sera titolando un lungo articolo di Massimo Franco, che da anni si divide  fra le due sponde del Tevere, raccontando sia della politica italiana, e dei suoi retroscena, sia ciò che accade oltre le Mura di giorno e di notte, diciamo così, ma forse più di notte che di giorno. La Vaticanite è un pò diventata la sua specialità forse prevalente, accreditata da conoscenze, rapporti e quant’altro avviati quando egli scriveva per Avvenire e aumentati, di intensità e qualità, quando passò al Corriere della Sera. Il suo modo quasi curiale di scrivere, ricostruire e immaginare lo hanno probabilmente reso più familiare nelle sacre stanze e dintorni. 

“Il Papa -si legge oggi nell’articolo appunto di Franco fra virgolette attribuite a un misterioso informatore- sta lentamente migliorando. Ma emergerà da questo ricovero comunque infragilito. E il Conclave ombra impazzirà più che mai…”. “Il tema -continua, sempre tra virgolette, la confidenza raccolta oltre le Mura- non è questa permanenza in ospedale. Il Pontefice non è in pericolo di vita. Il tema, piuttosto, è come lui stesso analizzerà quanto gli è accaduto, e quali conclusioni ne trarrà”, cioè rimanendo o no al suo posto. Magari guardandosi  ancora di più da quelli che lo circondano come se fossero anche loro la sua malattia, o rinunciando al soglio come il predecessore, senza però rimanere in Vaticano e indossare ancora le vesti bianche di un Papa, secondo voci o confidenze già raccolte dentro le stesse Mura. 

Tutto ormai attorno a Papa Francesco si presta a più letture, interpretazioni, sospetti, chiamateli come volete. Compresa la circostanza, sottolineata da Franco, che “finora non si sono mai visti né si è mai sentita la voce dei dottori che lo stanno curando. Non ci sono bollettini ufficiali dell’ospedale -ha insistito Franco-  e questa assenza di trasparenza permette a nemici e amici di scegliere la narrativa preferita, senza che l’opinione pubblica sia in grado di capire fino in fondo come stanno le cose” dietro gli anodini comunicati dell’ufficio  stampa della Santa Sede. 

In questo contesto a dir poco misterioso è apparso di qualche significato allusivo al mio amico Franco anche la recente rivelazione di monsignor Georg Gaenswein, che fu segretario di Benedetto XVI ed è tuttora nominalmente prefetto della Casa Pontificia, che nell’ultimo Conclave vero “non pochi cardinali avrebbero vissuto bene se Angelo Scola fosse stato Pontefice” al posto dell’argentino Bergoglio. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it e startmag.it

La grande paura per Papa Francesco ricoverato da ieri al Gemelli

“La grande paura” che non si può non condividere con La Stampa, che le ha dedicato il titolo di apertura di prima pagina, non è naturalmente da ieri quella augurata a Giorgia Meloni dagli avversari di “non riuscire più a nascondere i suoi errori”, come ha gridato Domani, il nuovo giornale di Carlo De Benedetti, con lo stesso compiacimento dell’ex quotidiano dell’ingegnere, La Repubblica. Secondo il quale “la realtà rovina lo spettacolo” della presidente del Consiglio impegnata a distrarre gli italiani, come una prestigiatrice, con “lo spauracchio dei migranti dal Nordafrica”, finalizzato a nascondere, fra l’altro, i ritardi sulla strada del piano di ripresa e il rischio di perdere la nuova rata di finanziamento europeo. 

No. “La grande paura” in queste ore è per la salute del Papa scelto dieci anni fa dai “fratelli cardinali”, come lui stesso disse affacciandosi alla loggia della Basilica di San Pietro, “alla fine del mondo”, provenendo dall’Argentina, per succedere al dimissionario Benedetto XVI. All’età che ha, con  i problemi di salute accumulati e per niente nascosti, fra inviti a pregare per lui e la possibilità non esclusa di potere anch’egli lasciare anzitempo il trono di San Pietro in caso di sostanziale impedimento, Papa Francesco ci ha dato motivo di temere dopo il ricovero al Policlinico Gemelli e la comunicazione ufficiale dell’infezione delle vie respiratorie e degli scompensi cardiaci pur sotto controllo, come hanno assicurato i sanitari. 

“Forza Francesco!”, viene voglia di gridare con Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, pensando anche al ruolo che forse solo lui, più dei presidenti americano e cinese, turco o d’altro Paese ancora, e della nostra sempre un pò zoppicante Unione Europea, può ancora svolgere per porre termine alla guerra che più da vicino ci minaccia tutti: quella in Ucraina inopinatamente scatenata da Putin per “denazificare”, pensate un pò, il paese vicino. Una guerra che ha messo a dura prova il cuore di un Pontefice che sarà stato pure pescato dai suoi “fratelli cardinali alla fine del mondo”, ripeto, ma nelle cui vene scorre sangue di origine europea e, più in particolare, italiana. “Forza Francesco”, ripetiamo insieme.  

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Sui terroristi rossi italiani salvati dalla Francia la reazione migliore è stata di Gian Carlo Caselli

Scusatemi se la metto quasi sul piano personale, ma lasciatemi scrivere che nel graziare, praticamente, i dieci terroristi rossi italiani che per un pò hanno rischiato, sulla carta, di essere estradati in Italia per espiare le condanne procuratesi negli anni di piombo la Cassazione francese ha compiuto il miracolo di farmi risentire quasi del tutto in sintonia con Gian Carlo Caselli. Col quale avevo perso il conto delle polemiche avute, in modo diretto e indiretto, nella mia non breve attività professionale, specie per l’ostinazione da lui avuta contro Giulio Andreotti, anche da morto, sostenendone la collusione con la mafia. Che, a mio modestissimo parere, se vi fu per i rapporti personali o di corrente politica, nella Dc, con esponenti di Cosa Nostra o parti di essa, fu quanto meno comune a tutti -dico tutti, anche quelli che si rivolteranno nella tomba- i presidenti del Consiglio o capicorrente che lo precedettero. O addirittura gli sono succeduti. Non si può letteralmente immaginare in Sicilia, forse ancora oggi, un uomo di potere o d’affari non destinato quasi dall’aria a vivere più o meno consapevolmente sul confine tra mafia e antimafia.  

Essersela presa solo con Andreotti, a dispetto dei provvedimenti peraltro presi dal suo ultimo governo contro la mafia e osteggiati in Parlamento dall’opposizione enfaticamente antimafiosa; essersela presa, dicevo, solo con Andreotti distinguendo quasi con la precisone di un orologio svizzero il prima e il dopo dell’assoluzione ottenuta nel processo intentatogli proprio dalla Procura di Palermo retta da Caselli, mi è sempre sembrato discutibile. Si può dire almeno questo? 

Ebbene, di fronte all’”arroganza francese” lamentata da Caselli sulla prima pagina della Stampa di ieri scrivendo della magistratura d’oltr’Alpe alle prese con i dieci terroristi rossi italiani alla fine -ripeto- praticamente graziati, mi sono idealmente levato giù il cappello. Mi sono anche riconosciuto nell’ironia da lui riservata alla “grandeur” dei suoi e nostri cugini, e nel sarcasmo di quel finale in cui ha contrapposto la ”premurosa e zelante assistenza” fornita ai dieci terroristi -che non posso chiamare ex per lo stesso motivo per il quale non posso chiamare ex le loro vittime- al trattamento che viene riservato ai “poveracci extracomunitari che cercano di oltrepassare la frontiera italo-francese per sfuggire alla fame e alla persecuzione”. Non avrei saputo e non saprei scrivere meglio. 

Ancor più efficacemente di altri magistrati dei quali mi è capitato di condividere interviste e articoli sui processi degli anni di piombo Caselli ha ricordato che nella sua Torino “i capi storici delle Brigate Rosse” ottennero un tale “riconoscimento della  loro identità politica” da essere “ammessi persino a contro-interrogare personalmente le vittime….ancora vive”. Altro, quindi, che abusi e quant’altro lamentati dagli imputati, latitanti e non, e condivisi più o meno esplicitamente dai loro protettori francesi in toga o in cattedra. 

Bravissimo, ripeto, Caselli per la “grandeur a corrente alternata” denunciata sulla Stampa. Dove questa volta egli ha trovato più ospitalità e visibilità dell’altro giornale al quale collabora spesso: Il Fatto Quotidiano, astenutosi ieri  -chissà perché- dal portare in prima pagina l’affare dei dieci terroristi rossi messi al sicuro in Francia dal rischio di estradizione, salvo ricorsi di qualche familiare delle vittime alla Corte Europea, con effetti tuttavia tutti da verificare. L’unica cosa dalla quale dissento nel leggere e rileggere l’articolo di Caselli è un “anche” infilato nel penultimo capoverso, dove egli ha scritto, con la solita puntigliosità, che “il nostro sistema giudiziario ha sempre rispettato i diritti degli imputati anche”, appunto, “nei processi per terrorismo”. Ma convengo, per carità, e nella speranza che il buon Caselli non se la prenda, che non si può avere tutto dalla vita. Bisogna pur accontentarsi. 

Pubblicato sul Dubbio

I dieci terroristi rossi italiani che l’hanno fatta davvero franca…in Francia

Nell’assordante e solitario silenzio del Fatto Quotidiano –che non se l’è sentita evidentemente di condividere l’opinione del suo pur autorevole e frequente collaboratore e magistrato in pensione Gian Carlo Caselli, espressosi sulla prima pagina della Stampa contro “l’arroganza francese sugli ex Br”- abbiamo quindi appreso della sostanziale grazia concessa dalla Cassazione d’oltr’Alpe a dieci terroristi italiani di sinistra. Che il presidente Emmanuel Macron ha inutilmente tentato di consegnare alla nostra giustizia, avendo condanne da espiare per i delitti commessi nei pur lontani anni di piombo nel loro Paese. 

Un’ostinazione, quella di Macron, e del suo guardasigilli italofrancese Eric Dupond Moretti, che Adriano Sofri -condannato anche lui come l’amico e compagno di Lotta Continua Giorgio Pietrostefani per il delitto Calabresi del 1972- ha oggi definito “petulante” sul Foglio. Dove lo hanno sempre difeso e annoverato fra i più assidui collaboratori. Ancora più avanti di Sofri, diciamo così, nella soddisfazione per quello che è stato definito su alcuni giornali “lo schiaffo di Parigi” è stata Tiziana Maiolo sul Riformista con quel “NO” in rosso gridato “all’Italia della vendetta”.

Con la grazia ricevuta dalla magistratura francese -che evidentemente considera quella italiana una schifezza nel silenzio, ripeto, assordante del giornale nostrano che generalmente la scambia per la più bella del mondo, come si dice anche della Costituzione sino a fare insorgere di recente Gustavo Zagrebelsky- i dieci che io continuo a chiamare terroristi per il semplice fatto di non poter considerare ex le loro non poche vittime, si troveranno nella condizione descritta nella vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX. Saranno cioè “gli unici, in Francia, che si godranno la pensione” da tanti considerata minacciata mettendo a ferro e a fuoco il Paese. E magari potranno rileggersi ad ogni rateo incassato l’annuncio del loro compagno in Italia Chicco Gelmozz, che ha commentato ieri per i naviganti internettiani così il verdetto giudiziario di Parigi: “Quanto mi fa godere la Cassazione francese…”. Pazienza per “l’indignazione” dei familiari delle vittime registrata con una certa condivisione dalla maggior parte dei giornali.

Riferisce una corrispondenza di Repubblica da Parigi che ieri “nel pomeriggio il ministro della Giustizia francese ha chiamato Nordio”, cioè l’ omologo oltre le Alpi, per “ribadire la sua piena fiducia nella giustizia italiana” smentita e derisa invece dalle toghe cugine, chiamiamole così. Beh, spero che Dupond non si fermi a questa telefonata. In una intervista rilasciata al Corrieredella Sera  alla vigilia del pronunciamento della Cassazione, un pò temendone il contenuto e confermando un giudizio pesante sui dieci terroristi sotto esame, aveva detto: “Quale che sarà la decisione, invierò un messaggio agli italiani”. Lo aspettiamo, signor ministro. 

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L’operazione speciale di Repubblica per defascistizzare l’Italia della Meloni

Alla Repubblica che fu di Eugenio Scalfari ed è ora diretta da un repubblicano storico come Maurizio Molinari  – allevato nel partito omonimo  ormai scomparso che fu di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini- debbono avere pensato sin dal primo momento, con quel titolo di sabato scorso su tutta la prima pagina contro una Meloni che “riscrive la storia”, di dover condurre una  operazione speciale -come Putin chiama quella intrapresa contro l’Ucraina- per denazificare, defascistizzare e via dicendo l’Italia della prima presidente del Consiglio di destra dichiarata, anzi dichiaratissima. La quale ha osato definire come “soli italiani” le 335 vittime dell’eccidio nazista di 79 anni fa nelle Fosse Ardeatine. 

Con l’aria un pò di tirare fuori dai suoi depositi un’arma segreta, Molinari ha pubblicato ieri un’intervista al non più giovane figlio di Ugo La Malfa, l’ormai ultraottantenne Giorgio, per inchiodare la Meloni alle sue responsabilità, cioè ai suoi errori. Fra i quali ci sarebbe quello di avere riportato la destra indietro, agli anni di Giorgio Almirante già capo di gabinetto di un ministro del governo mussoliniano della Repubblica Sociale di Salò. Che era solito ammantare di patriottismo anche il fascismo terminale della guerra civile e dell’asservimento al nazismo, non più alleanza. Eppure -ha ricordato Giorgio La Malfa- la destra post-missina aveva avuto con Gianfranco Fini il coraggio, la sapienza e altro ancora di dichiarare il fascismo “male assoluto”. Ma lo fece quando già Giorgia Meloni faceva parte del suo partito, senza eccepire alcunché, diversamente dalla nipote del Duce, Alessandra Mussolini, e altri che pure avevano collaborato con Fini, come il suo ex portavoce Francesco Storace. Storicamente, diciamo così, La Malfa ex junior non avrebbe quindi ragione di contrapporre la Meloni di oggi a quella dei tempi di Fini con la schiena rivolta al fascismo. Invece è proprio su “Meloni come Almirante” che l’intervista di Giorgio La Malfa si è guadagnato il titolo di Repubblica, con l’aggiunta che “dietro l’italianità nasconde la storia” della democrazia italiana che dal 1945 deve tutto e solo all’antifascismo, attuale oggi come allora.

Ripeterò all’amico Giorgio La Malfa quello che, senza averlo ancora letto su Repubblica, gli ha in pratica risposto già ieri sul Foglio Giuliano Ferrara, da me citato in altra sede per un diverso passaggio del suo articolo attinto nei ricordi della propria famiglia “gappista”. “Gli italiani a disposizione di Kappler, anche secondo le liste che li designavano per il martirio, erano -ha scritto Ferrara- in grandissima parte antifascisti, partigiani, ebrei, ma furono uccisi in quanto le forze di occupazione tedesche volevano far fuori dieci italiani per ciascuno dei morti del battaglione Bozen colpito in un’azione armata in via Rasella. Letteralmente italiani, italiani da fucilare. Nessun antifascista candidato all’eccidio, e nessun ebreo, e nessun partigiano avrebbe eccepito di non essere italiano”. E’ vero.   

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L’inedita stabilità italiana targata Meloni fra la sorpresa di un numero crescente di giornali

Per quanto il buon Emilio Giannelli nella vignetta di ieri in prima paginaabbia fatto disotterrare dalla nuova segretaria del Pd travestita da indiana l’ascia di guerra, immaginando “iniziata l’era di Schlein” dentro e oltre il Nazareno, sul Corriere della Sera del giorno prima erano stati allineati, sempre in prima pagina, tre titoli per niente preoccupati e preoccupanti per il governo di Giorgia Meloni. L’Italia era stata rappresentata fra i principali paesi europei come il più stabile, in controtendenza particolare rispetto alla Francia messa a ferro e a fuoco contro la riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron e alla coalizione tedesca guidata dal cancelliere Olaf Sholz, paralizzata da “veti, dispetti, leggi bloccate” ed altro. Al di qua delle Alpi -aveva osservato nell’editoriale il direttore in persona Luciano Fontana- non si avverte neppure l’ombra di un governo diverso da quello in carica, probabilmente per tutta la durata di questa legislatura cominciata nell’autunno scorso. 

A supporto della stabilità un pò inedita in un’Italia guidata nella scorsa legislatura da ben tre  governi -di cui uno dichiaratamente e orgogliosamente anomalo voluto dal presidente della Repubblica e affidato a Mario Draghi nella impossibilità pandemica di elezioni anticipate nel 2021- era stata giustamente indicata dal Corriere della Sera, sempre in prima pagina, la svolta impressa da Silvio Berlusconi alla sua Forza Italia rimuovendo o depotenziando i più insofferenti verso la Meloni. Alla quale pure lui, a dire il vero, aveva creato non pochi problemi nei primi mesi, sino a contestarle personalmente e pubblicamente una certa smania di incontrare il presidente ucraino Zelensky -“quel signore”- per accentuare il significato e la portata del sostegno italiano nella guerra mossagli dalla Russia di Putin. Forse anche su questo terreno  l’ex presidente del Consiglio ha deciso di muoversi con più cautela. Si vedrà.

Al Corriere della Sera di domenica si è  aggiunto ieri Il Messaggero con un editoriale del professore Alessandro Campi sulla “forza degli italiani in un mondo in rivolta”. “Proviamo per una volta -ha scritto e chiesto Campi- a capovolgere il noioso cliché che ci accompagna come italiani da decenni, che in parte ci siamo appiccicati addosso da soli e al quale ci siamo talmente assuefatti da considerarlo una verità storica inoppugnabile. E se fossimo, almeno stavolta, un’eccezione positiva e un caso virtuoso?”. In cui è accaduto di recente, fra l’altro, che la Meloni abbia potuto ripristinare dopo 27 anni addirittura la presenza di un capo del governo al congresso del maggiore sindacato, la Cgil, scortata e protetta dal segretario generale Maurizio Landini perché potesse parlare non lisciando per niente il pelo all’assemblea, anzi sfidandola. 

Persino Giuliano Ferrara sul Foglio ha ieri scomodato la “scuola storica” dei suoi “genitori gappisti e comunisti, dei Trombadori, dei Bufalini e degli altri” per dire alla sinistra, scatenatasi contro la Meloni sul ricordo della strage nazista di 79 anni fa alle Fosse Ardeatine, che “non avrebbero eccepito con grida scandalizzate alla frase secondo cui quei martiri furono uccisi per rappresaglia solo perché italiani”.  Qui siamo a quelle che gli avversari più irriducibili della Meloni hanno definito sui giornali del gruppoquasi agnelliano Gedi, cominciando con Repubblica, alle “radici” della storia antifascista dell’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale e liberatasi della Monarchia. 

“Basta leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza -ha insistito impietosamente il fondatore del Foglio– per constatare che l’identificazione della guerra di Liberazione con il patriottismo fu pressocchè totale”. E sapete chi e cosa ha citato, in particolare, Ferrara per difendere Meloni dagli assalti subiti su questo terreno? Addirittura “Una scelta di vita”, il colossale memoir di Giorgio Amendola”, in cui si trova tutto il necessario “per capire che la logica del Comitato di liberazione era “nazionale”. Una logica cioè di italiani prima e soprattutto. “Allora -ricorda sarcasticamente l’elefantino rosso- non era vietato dire il paese o alla anglosassone questo paese, this, country, ma non usava”. Si diceva, come oggi Meloni con la maiuscola, Nazione. Spero, personalmente, che ora venga risparmiata a Giuliano qualche lezione di storia antifascista da professori più o meno titolati sparsi un pò dappertutto, anche sotto le cinque stelle. Nessuna delle quali è intestata peraltro a  questo tema oggi ancora così scivoloso, essendo state intestate  da Beppe Grillo all’acqua pubblica, all’ambiente, alla mobilità sostenibile, allo sviluppo e alle connettività, poi meglio precisate come beni comuni, ecologia integrale, giustizia sociale, innovazione. 

Lo stesso Giuseppe Conte -non se l’abbia a male, per favore, l’ex presidente del Consiglio e ora presidente del movimento che lo portò a Palazzo Chigi nella scorsa legislatura- quando si è avventurato sul terreno dell’antifascismo, parlando alla Camera contro “la faccia di bronzo” della Meloni, è incorso nel lapsus del “delitto Andreotti” anziché Matteotti, che fra di loro fanno solo rima, nient’altro. Lo stesso blog  ormai personale di Grillo non mi sembra si sia impegnato in questi giorni nella polemica che ha cercato di rovinare la primavera alla Meloni. 

Pubblicato sul Dubbio

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Il ministro francese della Giustizia liquida come “terroristi” gli esuli italiani degli anni di piombo

Sarà un caso -come probabilmente pensano i detrattori della prima presidente italiana del Consiglio per giunta espressa da un partito dichiaratamente di destra per il quale gli esani non finiscono mai, come nell’ultima commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1973. Ma ha la sua rilevanza politica che alla vigilia del pronunciamento della Cassazione a Parigi sull’estradizione dei dieci sanguinari reduci degli anni di piombo rifugiati ancora in Francia, e qualche giorno dopo il lungo incontro svoltosi a Bruxelles fra Emmanuel Macron e Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia d’oltr’Alpe abbia rilasciata un’intervista al Corriere della Sera per avvertire, ribadire e quant’altro di considerare “terroristi” quanti si ritengono, si proclamano, e vengono difesi dai loro sostenitori “gli esuli italiani” che debbono scontare pesanti pene nel loro paese. Fra questi primeggia per notorietà il quasi ottantenne lottacontinuista Giorgio Pietrostefani,  condannato a 22 anni per il delitto del commissario Luigi Calabresi a Milano nel 1972, ucciso come un cane sotto casa.   

Di cittadinanza italiana per parte di madre, della quale ha voluto conservare anche il cognome abbinandolo a quello francese del padre, il ministro della Giustizia Eric Dupont Moretti non ha certamente parlato, alla vigilia- ripeto- della decisione della Cassazione, senza il preventivo assenso del presidente della Repubblica reduce -ripeto anche questo- di un incontro chiarificatore con la Meloni dopo un certo periodo di gelo provocato dal caso di una nave di soccorso volontario di migranti che la Francia l’anno scorso dovette fare approdare, una volta, tanto in un suo porto, peraltro militare, e non nel solito porto italiano. Acqua ormai passata, con grande sollievo anche o soprattutto del presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, spesosi personalmente per superare la crisi, come anche per l’incidente verificatosi all’epoca del primo governo Conte, quando il vice presidente grillino Luigi Di Maio  andò a solidarizzare con i rivoltosi in gilet giallo che avevano messo a ferro e a fuoco Parigi.

Sono d’altronde lontani anche i tempi del presidente francese Nicolas Sarkozy, la cui consorte  italiana Carla Bruni non si si risparmiò parole e gesti di difesa e solidarietà con i connazionali terroristi rifugiatisi oltre’Alpe con lo scudo che portava il nome dell’ex presidente francese Francois Mitterrand. Fra quei terroristi c’era allora anche Cesare Battisti, ora al sicuro, dopo una fuga in Sudamerica, là dove doveva stare da tempo: in un carcere italiano in cui si è appena lamentato di subire dispetti. Che naturalmente non gli sono dovuti, per quanto lui ne abbia fatti ben altri alle sue vittime e ai loro familiari. 

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L’Italia finalmente controcorrente della Meloni avvertita dal Corriere della Sera

    Tre titoli e un editoriale in una stessa pagina, la prima del Corriere della Sera di oggi,  danno l’idea di un’Italia una volta tanto controcorrente: la più stabile in un’Europa peraltro alle prese con una guerra sui propri confini che è quella ostinatamente condotta dalla Russia di Putin contro l’Ucraina.

Il primo titolo è quello sulla Francia di Macron a ferro e fuoco per una modesta riforma delle pensioni, almeno rispetto a quella realizzata in Italia. Una Francia ridotta così male da dover chiedere al Re d’Inghilterra di rinviare una visita già programmata per l’incapacità di garantirne lo svolgimento in condizioni di sicurezza. Il secondo titolo è quello sui veti, dispetti, leggi bloccate che contrassegnano una coalizione ingovernabile come quella guidata a Berlino dal successore socialdemocratico della Merkel. 

Il terzo titolo è quello dell’intervista a Silvio Berlusconi che spiega il senso dell’ennesimo colpo di palazzo, chiamiamolo così, tradottosi nella rimozione di un capogruppo parlamentare e nel ridimensionamento dell’altra all’insegna della formula costante dell’ex presidente del Consiglio: “decido io”. Per la Meloni a Palazzo Chigi è un affare perché la svolta è appunto a suo favore, essendo stati accantonati, puniti, ammoniti, secondo le circostanze, quanti si erano distinti nei mesi scorsi in azioni di sostanziale disturbo nei riguardi della presidente del Consiglio, guardata per un pò con lo stesso sospetto riservato a Mario Draghi, i cui i ministri forzisti sembravano dipendere più che da Berlusconi: tutti e tre non a caso – Brunetta, Carfagna e Gelmini, in ordine alfabetico- finiti fuori dal partito. Certo, anche Berlusconi ci aveva messo del suo a infastidire la Meloni, per esempio con quelle sparate praticamente favorevoli a Putin nell’aggressione ai vicini, ma lui ha il diritto di essere mobile come la donna del Rigoletto. E pazienza se il solito Fatto Quotidiano ha ritenuto di criminalizzare, o quasi, la svolta o correzione di tiro sparando contro un “inciucio fra Marina e Berlusconi per gli affari e i processi di B”. Nulla di nuovo sotto il cielo pentastellato ammirato da gran parte dei lettori di quel giornale. 

L’editoriale, infine, è quello dello stesso direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana- da non confondere con gli omonimi ai vertici della Camera e della Lmbardia- che ha aperto il suo articolo scrivendo: “Il ritorno alla guida dell’Italia di un governo composto dalle forze politiche che hanno vinto insieme le elezioni ha introdotto un elemento che sembrava scomparso dai tormentati anni precedenti: nessuno discute più di crisi imminenti, di manovre per mettere in campo governi diversi. Si dà per scontato che l’esecutivo di Giorgia Meloni durerà per un tempo non breve…”. 

Pazienza, anche qui, per chi a sinistra ha scritto, su Repubblica, di “un governo di sonnambuli” e a destra, sulla Verità, di un centrodestra che si fa dettare “l’agenda dall’opposizione”. 

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L’autorete dei partigiani nell’assalto alla Meloni per il ricordo delle vittime delle Fosse Ardeatine

Ignorata non a caso -credo- in prima pagina dal Corriere della Sera, dal Messaggero,  dal Giorno, Resto del Carlino e Nazione, del gruppo Riffeser Monti, Il Mattino, Il Gazzettino, Avvenire e da altri giornali ancora, fra i quali persino Il Fatto Quotidiano, che minimizzandola non le ha dedicato neppure “la cattiveria” di giornata, la polemica dell’associazione dei partigiani contro la Meloni per avere considerato solo “italiani”, e non anche antifascisti ed ebrei, le 335 vittime delle Fosse Ardeatine nel 79.mo anniversario dell’eccidio nazista è stata sventolata come bandiera sulla Repubblica – “Meloni riscrive la storia”- ed altre testate. 

Si va, in particolare, dall’”oltraggio” contrapposto dalla Stampa al “ricordo” del presidente della Repubblica Sergio Mattarella protagonista  della cerimonia commemorativa, alla “Memoria nera” del manifesto e al rimbrotto del Riformista di Piero Sansonetti con la domanda “An-ti-fa-scisti: Gorgia, l’ha mai sentita questa parola?”. 

Più sobriamente, ironicamente o come preferite, al Foglio se la sono cavata con una vignetta nella quale si fa dire alla Meloni, ancora a Palazzo Chigi in una delle prossime ricorrenze dell’eccidio, che questi 335 martiri delle Fosse Ardeatine furono “rastrellati da migranti armati e poi trucidati solo perché gli piaceva la pastasciutta invece dei bacherozzi fritti”. Chissà se la squadra di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa è riuscita a strappare un sorriso agli indignati esplosi come una bomba ad orologeria alla lettura del messaggio inviato dalla Meloni, ieri mattina ancora a  Bruxelles, per unirsi idealmente al Capo dello Stato. 

Come tutte le frittate, la polemica della sinistra partigiana in servizio permanente ed effettivo, cui niente, proprio niente di quello che dice la Meloni andrà mai bene, neppure quando dirà alle ore 12 che siamo in pieno giorno, ha finto per essere rovesciata e ritorcersi contro chi l’ha innescata. “Quegli italiani fucilati per colpa dei partigiani”, ha titolato Alessandro Sallusti su Libero, convinto di dire “la verità su via Rasella”. “La sinistra”, non quindi la Meloni, “spacca l’Italia”, ha titolato il Giornale, come forse avrebbe fatto anche la buonanima del fondatore Indro Montanelli. 

Ma soprattutto sulla Stampa, che per fortuna non ha spostato all’interno la rubrica quotidiana di Mattia Feltri, sono stati ricordati come peggio o meglio, secondo i gusti, non si poteva “i tempi che furono”: in particolare, il giorno dell’autunno 1944 in cui nella Roma liberata una folla inviperita scambiò per un fascista fanatico il direttore del carcere di Regina Coeli Donato Carretta, apprezzato invece dall’insospettabile Pietro Nenni, e lo linciò per strada, cercò di farlo tagliare vivo sotto le ruote di un tram -il cui conducente si rifiutò salvandosi dalle bastonate solo esibendo la sua tessera d’iscrizione al partito comunista- e infine gettò ancora vivo il poveretto nel Tevere. Dove altri saltarono su barche e lo finirono a colpi di remi.

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Rappresentazione pirandelliana del Consiglio Europeo sui giornali italiani

Sotto un titolo che francamente non mi sembra campato in aria e riferisce di un’Europa che va “avanti sul piano” dei migranti, pur non essendo ancora arrivata al traguardo, il Corriere della Sera ha registrato anche una “Meloni soddisfatta”, riferendo delle dichiarazioni rilasciate dall’interessata ai giornalisti a Bruxelles. 

Tutt’altro spettacolo è stato raccontato da Repubblica con quella “Meloni a mani vuote” annunciata con compiacimento su tutta la prima pagina e rafforzata da “Una convitata fuori posto”, a ulteriore commento.

Ancora più negativa è la rappresentazione dello spettacolo di Bruxelles sulla prima pagina di un altro giornale, come Repubblica, del gruppo editoriale del nipote di Gianni Agnelli: Il Secolo XIX. Dove si sono risparmiati persino i titoli, offrendo ai lettori una vignetta di Stefano Rolli in cui la Meloni è davanti ad una porta sbattutale in faccia dall’Unione Europea. Sulla stessa linea naturalmente Il Fatto Quotidiano con quella “Meloni gabbata in Europa” in un “altro flop a Bruxelles”.

“E’ la stampa, bellezza”, diceva Humphrey Bogart a Casablanca in un film del 1942 che ha fatto storia. Ma dovrebbe pur esserci un limite a questa bellezza se alla Stampa, altro giornale del gruppo editoriale del nipote di Gianni Agnelli, è potuto accadere non più tardi dell’altro ieri questo episodio in fondo modesto, per carità, ma pur sempre indicativo di certi rapporti tra i fatti e le opinioni, o convenienze.

In una prima pagina dominata dal “gelo” procurato alla Meloni nell’aula del Senato dal discorso del capogruppo leghista Massimiliano Romeo sostanzialmente contrario ad altri aiuti militari all’Ucraina, pur votati poi nella mozione della maggioranza conclusiva della discussione in vista del Consiglio Europeo a Bruxelles, non poteva né doveva trovare posto il commento quotidiano dell’ex direttore Marcello Sorgi. Il cui “taccuino” è solitamente valorizzato, tanto più perché l’autore si divide col direttore in carica, Massimo Giannini, i salotti televisivi di giornata. 

Nel taccuino, appunto, dell’altro ieri 22 marzo Sorgi riduceva di parecchio il gelo della Meloni scrivendo che il capogruppo leghista al Senato aveva sì dissentito praticamente dalle armi che continuiamo a mandare agli ucraini ma “a bassa voce, per il chiaro timore di dissipare il manovratore (in questo caso la manovratrice)”. “Ed anche se i suoi sospiri -aveva scritto ancora Sorgi da Roma non immaginando evidentemente l’aria che tirava in redazione a Torino- sono bastati alle opposizioni per denunciare divisioni nella maggioranza….la distinzione voluta sui rischi del prolungamento della guerra senza credibili iniziative di pace aveva l’aria di un atto dovuto, come se il Capitano” di Romeo “non potesse far altro rispetto a elettori e osservatori esterni, ma non volesse turbare più di tanto il clima”. Per leggere tutto questo però i lettori della Stampa hanno dovuto spingersi sino a pagina 6. In prima non era stato il caso neppure di un richiamo. 

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