Miracolo a Palazzo Chigi: Draghi piega i grillini sulla giustizia, protesta Travaglio

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo di Libero

            Quello di Libero sulla riforma del processo penale uscita dal Consiglio dei Ministri con le modifiche da apportare al disegno di legge all’esame della Camera è naturalmente esagerato, più un desiderio perverso che altro: “Draghi arresta Bonafede e Travaglio”. Ma quest’ultimo, direttore del Fatto Quotidiano, ha mostrato di sentirsi davvero un detenuto fuori si sé per la rabbia immaginando sulla prima pagina del suo giornale Beppe Grillo in persona, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e quello dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, capo della delegazione pentastellata al governo, adoranti e grati davanti ad un presidente del Consiglio che li ha messi in ginocchio. E mandato “in prescrizione i 5 Stelle” con quello che potrebbe essere chiamato il lodo Cartabia, dal nome della ministra della Giustizia e già presidente della Corte Costituzionale. “Calabrache, cedono a Draghi addirittura sulla giustizia”, ha gridato Marco Travaglio sul suo giornale contro i grillini, in concorrenza con le proteste tweet del solito Alessandro Di Battista in viaggio consolatorio o rigeneratore in Bolivia.

Giovanni Buanconi sul Corriere della Sera

            Il “gioco di prestigio” in qualche modo attribuito a Marta Cartabia anche da Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera per “stendere la mano” ai grillini in sofferenza, che hanno resistito in Consiglio dei Ministri sino al classico ultimo momento prima di cedere, è consistito nel chiamare “improcedibilità” la prescrizione, sostanzialmente abolita dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede all’atto della sentenza di primo grado. E nell’equiparare la corruzione e la concussione ai reati più gravi, per i quali la improcedibilità, appunto, scatterebbe con tre anni infruttuosi di appello, anziché due, e diciotto mesi di passaggio infruttuoso in Cassazione, anziché un anno.

Titolo del Foglio

            Non contento di avere spalleggiato la guardasigilli in questo “gioco di prestigio”, o come altro si potrebbe chiamarlo, il presidente Mario Draghi -che Il Foglio ha rappresentato nel suo titolo in rosso come uno “schiacciasassi”, e Antonio Padellaro sul Fatto Quotidiano  come un emulo del Duce che “eja eja, tira dritto”- prima ha sfidato i grillini partecipanti alla tormentata riunione del Consiglio dei Ministri a votare contro, e a ritrovarsi quindi in minoranza, e poi, una volta acquisitone l’allineamento, ad ammonire i loro gruppi parlamentari. “Nessuno -ha detto, in particolare, Draghi- può tenersi le mani libere in Parlamento”.

Titolo del Riformista
Titolo della Verità

            E’ un monito, quest’ultimo del presidente del Consiglio, che dovrebbe valere naturalmente anche per le altre componenti della maggioranza che hanno partecipato con i “nervi tesi”, per dirla col manifesto, o turandosi il naso, per dirla alla maniera del compianto Indro Montanelli, alla elaborazione delle pur sempre compromissorie modifiche necessarie a sbloccare finalmente il cammino parlamentare della riforma del processo penale. “Altra occasione persa”, ha titolato La Verità di Maurizio Belpietro, generalmente in sintonia con i leghisti. “Riforma a metà”, ha titolato Il Giornale della famiglia Berlusconi. “Riforma sofferta”, si è invece limitato a registrare Il Messaggero. Riforma “salvata da Draghi”, ha preferito puntualizzare la Repubblica analogamente alla Nazione e agli altri giornali del gruppo Monti-Riffeser, che hanno parlato di un “metodo Draghi” che “fa giustizia”. Ancora più compiaciuto e netto è il giudizio del Riformista con quel titolo su Draghi “che mette fine all’era Bonafede”, coincisa con i due governi presieduti da Giuseppe Conte. Di cui molti hanno riferito l’insoddisfazione, naturalmente, per l’accaduto.

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In finale anche Draghi con la riforma della prescrizione contestata dai grillini

Titolo della Stampa
Titolo del Giornale

            Anche Mario Draghi è entrato in finale, a sentire e a leggere i suoi avversari, furenti per la sua ormai scontata vittoria nella partita della riforma del processo penale. Di cui i pentastellati avrebbero voluto l’ennesimo rinvio, negato dal presidente del Consiglio “stanco del pantano grillino”, ha titolato con compiacimento Il Giornale della famiglia Berlusconi. E ciò  senza esagerare più di tanto, visto che anche la compassata Stampa in un titolo pur graficamente più contenuto ha parlato di “rabbia del M5S” per la riforma messa a punto dalla guardasigilli Marta Cartabia e della decisione di Draghi di “tirare dritto” portandola oggi al Consiglio dei Ministri. Si tratta, in particolare, della riforma di un’altra riforma voluta dall’allora ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede, che dall’anno scorso blocca la prescrizione, cioè la elimina, con la sentenza di primo grado, anche di assoluzione. Che i pubblici ministeri possono pertanto impugnare contando su un processo infinito, essendo purtroppo generica la “durata ragionevole” imposta sulla carta dalla Costituzione.

            Subìta dai leghisti, come altre cose nella loro prima esperienza di governo con i grillini, che la imposero introducendola come una supposta in una legge enfaticamente chiamata “spazzacorrotti”, la riforma Bonafede avrebbe dovuto essere modificata già col secondo governo di Giuseppe Conte, dove però il Pd permise più di un rinvio chiesto dai grillini. Ai quali prima la ministra Cartabia e poi Draghi in persona adesso hanno invece detto praticamente basta, forti anche del fatto che la velocizzazione dei processi rientra fra le innovazioni alle quali sono condizionati i finanziamenti europei del piano della ripresa.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

            Ai grillini sorpresi, spiazzati e quant’altro dalla fermezza di Draghi e Cartabia è rimasta la soddisfazione di leggere quel che ha scritto oggi il solito Fatto Quotidiano  delle modifiche predisposte dalla guardasigilli alla legge delega di riforma del processo penale. Non sarebbe naturalmente una riforma ma una “schiforma”, da schifezza certificata probabilmente anche dalla coppia Ferragni dilagata su internet in questi giorni anche per la vicenda della legge in pericolo al Senato contro l’omotransfobia.

I tre intestatari della “schifezza” -ripeto-  sulla giustizia sarebbero la stessa Cartabia, Draghi e Silvio Berlusconi, uniti in un fotomontaggio da varietà. Ed eccone il riassunto in un sommario: “Il premier approfitta del marasma nel M5S e oggi porta in Consiglio dei Ministri una controriforma anti-Bonafede: reati estinti se l’appello dura più di due anni e la Cassazione più di uno”.

Dall’editoriale di Marco Travaglio

            Nell’editoriale di Marco Travaglio tuttavia si precisa che Draghi, oltre che del “marasma” pentastellare avrebbe profittato anche della “distrazione” festosa del pubblico alle prese con il campionato europeo di calcio, così come nel lontano 1994 Berlusconi -e chi sennò?- avrebbe profittato della distrazione dei campionati mondiali di calcio per fare varare dal suo primo governo un decreto legge che limitava il ricorso alla carcerazione preventiva. Di quel decreto, alla cui conversione in legge Berlusconi rinunciò dopo le proteste della Procura di Milano condivise dai leghisti di Umberto Bossi, Travaglio  ha disinvoltamente evitato di ricordare la firma immediatamente apposta da un presidente della Repubblica ben poco berlusconiano come la buonanima di Oscar Luigi Scalfaro. Non doveva essere evidentemente un provvedimento da galleria degli orrori.

Rischia di inciampare nel gender il cattolico adulto Enrico Letta

Non vorrei esagerare nell’ironia, come hanno fatto -temo- quelli del manifesto dando nel titolo di copertina dei “degenerati” ai due Mattei della politica italiana -Renzi e Salvini- per l’improvvisa convergenza su modifiche al disegno di legge di Alessandro Zan contro l’omotransfobia.  Che nel testo trasmesso dalla Camera -dicono i leader della Lega e di Italia Viva- rischia di essere bocciata a scrutinio segreto quando arriverà, la settimana prossima, nell’aula del Senato. Dove i renziani hanno già dimostrato con il secondo governo di Giuseppe Conte di essere determinanti. Non vorrei esagerare, dicevo, nell’ironia ma chissà se alla diverticolite di Papa Francesco, che ha dovuto ricorrere alla chirurgia per difendersene, non ha contribuito con le sue aspirazioni a “cattolico adulto”, confessate una volta anche dall’amico e collega di partito Romano Prodi, il segretario del Pd Enrico Letta di fronte all’opportunità segnalata dal Vaticano di modificare quel disegno di legge.

            Il Papa, prima immaginato come spiazzato, contrariato e quant’altro dalla famosa nota diplomatica del Vaticano preoccupata della formulazione del provvedimento, e poi coinvolto nell’iniziativa della Santa Sede dal cardinale Segretario di Stato Parolin, dev’essere rimasto quanto meno sorpreso dall’irrigidimento del segretario del Pd, pur di fede cristiana. Che peraltro non è necessariamente contrapposta alla fede comunista, diciamo così, da cui proviene l’altra parte del Pd perché solo gli ignoranti e gli smemorati possono non conoscere le diverse sensibilità esistite nell’elettorato e nella militanza del Pci su temi coincidenti o confinanti con la religione: dal divorzio all’aborto, dalla procreazione assistita alla devozione anche civile, oltre che religiosa, di Santa Maria Goretti da parte di Berlinguer: “l’altro Enrico” cui volle affiancarsi Letta assumendo nei mesi scorsi la segreteria del Pd abbandonata all’improvviso da Nicola Zingaretti.  

            In verità, è stata spesso contestata ma a torto l’elevazione di Maria Goretti a esempio anche civile da parte di Berlinguer. Nel 1951 l’allora capo della federazione giovanile comunista paragonò davvero l’eroismo della santa a quello della partigiana Irma Bandiera. Che aveva preferito farsi ammazzare dai tedeschi piuttosto che tradire la lotta di liberazione rivelando i nomi dei suoi compagni.

            Il fatto è che può paradossalmente accadere che l’aspirazione alla figura di cattolico adulto, con tutta la caducità di un’espressione del genere da  parte di chi ha fatto anche del voto ai sedicenni una sua bandiera,  sia politicamente contraddetta da quella specie di infantilismo che, secondo il mio modestissimo e contestabilissimo parere, per carità, finisce per essere l’avversione quasi fisica, cioè l’intolleranza, per ogni convergenza avvertita fra due uomini come Renzi o Salvini, o due partiti come la Lega e Italia Viva. Che peraltro -anche questa è una circostanza politica non certamente irrilevante- partecipano col Pd alla stessa maggioranza e allo stesso governo.

            Con tutto il rispetto che si deve a Enrico Letta come uomo e come segretario di partito, penso ch’egli debba avvertire a questo punto l’opportunità di allontanare da sé il sospetto di essere condizionato da pregiudizi di carattere personale, una volta che ha deciso di rituffarsi nella politica e di non vergognarsi ma di vantarsi della partecipazione del Pd al governo di Mario Draghi: prova provata, fra l’altro, della fallacia della formula “Conte o morte” adottata anche da una parte di quel partito durante l’ultima crisi ministeriale e politica.

            Il passato è appunto passato. Lo scontro consumatosi a cavallo fra il 2013 e il 2014 fra Renzi appena approdato alla segreteria del Pd ed Enrico Letta da lui detronizzato come presidente del Consiglio dopo un’assai infelice esortazione a “stare sereno”, non può perpetuarsi all’infinito: né da una parte né dall’altra, oggi su un tema e domani su un altro, ma sempre nel contesto di una comune partecipazione ad una non comune maggioranza non a torto e non a caso definita “di emergenza”.

            Con questa pratica, che sa poco -ripeto- di “adulto”, si compromette ulteriormente la politica, che già di suo ha perso parecchia credibilità con tutti i partiti più o meno personali che hanno sostituito quelli cosiddetti ideologici di una volta. Che tuttavia, pur con tutti i limiti, e non solo i pregi, delle ideologie confrontatesi e scontratesi così a lungo, seppero garantire la ricostruzione del Paese e della democrazia dopo le rovine lasciate dalla seconda guerra mondiale. E consentirono la formazione di una classe dirigente alla quale -al netto di tutte le decapitazioni avvenute, spesso con l’oggettivo sconfinamento del potere o ordine giudiziario rispetto a tutti gli altri- ancora oggi possiamo attingere per fronteggiare le crisi ricorrenti. Mario Draghi ne è un esempio, come anche Sergio Mattarella. Del quale, come già accadde con Giorgio Napolitano nel 2013, non a caso cresce l’avvertito desiderio di una conferma o di una sostanziale prolunga al Quirinale, alla scadenza del suo mandato, vista la circostanza quanto meno sfortunata di un Parlamento due volte delegittimato eppure chiamato a garantire la successione al vertice della Repubblica: due volte perché, già in scadenza di suo, mancando un solo anno alla fine ordinaria della legislatura, esso risulterà rivoluzionato nel rinnovo per i consistenti tagli apportati ai suoi seggi. E ciò per una riforma pretesa dai grillini e accettata dai loro alleati di turno a condizione che fosse completata da altre innovazioni mancate.

Pubblicato sul Dubbio

La festa dell’Italia col pallone, e l’economia in crescita, guastata dalla politica

            A parte la politica, almeno quella intesa come rapporti fra i partiti e al loro interno, dove generalmente regnano più la confusione e la rissa che la chiarezza e la tranquillità, e nonostante i perduranti rischi da pandemia diffusi un po’ in tutto il mondo, questo non è francamente un brutto momento per l’Italia. La cui squadra nazionale di calcio è arrivata alla finale dei campionati europei più per bravura che fortuna, fra il giustificato entusiasmo dei tifosi che hanno buoni motivi per sperare anche nella conquista del titolo. E in economia due competenti come il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e il ministro Daniele Franco, che accorpa nel suo dicastero quelli che una volta erano il Tesoro, le Finanze e il Bilancio, hanno annunciato che “la crescita accelera”, testualmente.

Titolo del Fatto Quotidiano

            Eppure, dicevo accennando alla politica, c’è chi vuole soffrire e incitare il prossimo alla sofferenza, al pessimismo, allo sconforto e quant’altro. Quelli del Fatto Quotidiano, per esempio, hanno metaforicamente infilato al presidente del Consiglio Mario Draghi, di cui non hanno ancora digerito l’arrivo a Palazzo Chigi al posto del rimpianto Giuseppe Conte, “la maglia nera” della tanto decantata e attesa “transizione ecologica”, perché vi è destinato “solo il 37,5 per cento” dei fondi del piano della ripresa. Che si fa adesso? Si sfiducia subito il governo e si richiama in tutta fretta l’ex presidente del Consiglio?  Cui nel frattempo, senza neppure aspettare lo sblocco dei licenziamenti, Beppe Grillo ha cercato di sottrarre anche la prenotazione della leadership del MoVimento 5 Stelle offertagli nello scorso mese di febbraio, prima di scoprirne inadeguatezze, incompetenze e quant’altro.  O si aspetta prudentemente il mese prossimo, quando il presidente della Repubblica sarà disarmato nella gestione di una crisi non essendogli permesso dalla Costituzione di sciogliere le Camere nell’ultimo semestre del suo mandato, che si chiama perciò “bianco”? Mah. Intanto sotto le cinque stelle sette saggi –sembra ma non è il titolo di una commedia- cercano più o meno affannosamente e sinceramente di recuperare i rapporti tra il fondatore e l’aspirante rifondatore, fra il garante e il non più garantito, fra l’elevato e l’inabissato.

Titolo del manifesto

            Nel secondo partito della maggioranza di governo, che secondo sondaggi altalenanti sarebbe ogni tanto il Pd guidato dall’ex esule Enrico Letta, si vivono momenti da brivido, in attesa non della finale europea di calcio di domenica ma dell’approdo nell’aula del Senato, martedì prossimo, di un disegno di legge su cui lo stesso Letta ha voluto scommettere tutto quello che possiede, o quasi. E’ quello, proposto dal collega di partito Alessandro Zan e già approvato dalla Camera, che in nome dell’apprezzabile contrasto all’omotransfobia si propone la santificazione della cosiddetta cultura del gender, secondo cui più del genere biologico conta quello che ognuno si sente addosso e avrebbe il diritto non di coltivare ma anche di propagandare. E se due politici come Matteo Renzi e Matteo Salvini, peraltro oggi partecipi della stessa maggioranza di governo, non sono convinti e propongono insieme al Senato una modifica alla legge che la salvi dal rischio di essere bocciata a scrutinio segreto, vanno liquidati come “degenerati”. Lo ha fatto scherzando, ma non troppo, il manifesto col suo titolo di prima pagina. Degenerato significa per il dizionario della lingua italiana, neppure esso in linea forse con la cultura del gender, “pervertito, depravato, immorale”. Da sputargli in faccia, insomma.

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L’assenza di Luigi Di Maio nella riuscita missione di Mattarella in Francia

            Luigi Di Maio, 35 anni compiuti proprio oggi, ministro degli Esteri in carica dal 4 settembre 2019 ma già vice presidente della Camera, vice presidente del Consiglio, ministro dello Sviluppo Economico, ministro del Lavoro, per non parlare dell’incarico politico di capo del MoVimento 5 Stelle lasciato nel gennaio del 2020 togliendosi la cravatta in modo quasi liberatorio, sarà pure il “migliore” titolare della Farnesina vantato di recente da Beppe Grillo, ma il presidente della Repubblica ha preferito non farsi accompagnare da lui nella pur importante missione svolta in questi giorni in Francia. E Sergio Mattarella non è tipo che faccia o non faccia certe cose solo per caso.

L’infausto incontro nel 2019 di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista con i rivoltosi di Francia

            Il quirinalista del Corriere della Sera al seguito di questa missione, Marzio Breda, ha scritto di “incidente dimenticato” a proposito dell’incauta decisione assunta nel febbraio del 2019 dall’allora vice presidente del Consiglio e pluriministro Di Maio di seguire l’amico personale di partito Alessandro Di Battista in una visita a Parigi fra le più inopportune che si potessero solo immaginare, sfociata nell’incontro con una rappresentanza dei “gilet gialli”. Che in quel periodo mettevano la Francia a ferro e fuoco per destabilizzare quanto meno il presidente della Repubblica Emmanuel Macron. Non siamo sposati ma “concubini”, dissero dei due ospiti e, più in generale, dei pentastellati italiani i rivoltosi di Francia, per cui Macron francamente non esagerò a richiamare l’ambasciatore da Roma: il minimo, direi, che potesse fare per protesta. E solo un intervento personale e riservato di Mattarella, direi anche al limite delle sue prerogative costituzionali, riuscì a contenere l’irritazione del presidente francese.

            Solo una certa disinvoltura, a dir poco, del presidente del Consiglio Giuseppe Conte nella concezione dei rapporti internazionali poteva consentire che poi Di Maio, per compensarlo della perdita della carica di vice presidente del Consiglio e di due Ministeri, potesse essere proposto al capo dello Stato come ministro degli Esteri nel suo secondo governo, dove il Pd e la sinistra dei liberi e uguali sostituirono la Lega. E solo l’intervenuto chiarimento diretto con Macron consentì probabilmente a Mattarella di accogliere la richiesta di nomina avanzata da Conte scommettendo sulla capacità camaleontica, in senso politico, di Di Maio.

            L’assenza tuttavia del ministro degli Esteri dalla delegazione di accompagnamento e di assistenza del capo dello Stato in un viaggio d’importanza come quello compiuto in questi giorni, e così a lungo e dettagliatamente programmato dopo il rinvio deciso nell’autunno dell’anno scorso per la ripresa della pandemia, autorizza quanto meno a sospettare della “dimenticanza”, intesa anche come archiviazione, dell’”incidente” di più di quasi due anni e mezzo fa.

Da allora, certo, molte cose sono cambiate a Roma in una direzione rasserenante per la Francia e per altri paesi alleati dell’Italia. Vi stato soprattutto  l’avvicendamento a Palazzo Chigi fra Conte e un uomo come Mario Draghi, le cui relazioni internazionali e il cui meritato prestigio sono di per sé riduttive -diciamo la verità- del ruolo del ministro degli Esteri. E fra Draghi e Macron vi sono già stati contatti diretti.

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Il giallo scaduto su Conte e quello forse nel cuore su Draghi

Credo che non vi siano precedenti nella storia della letteratura gialla di un libro come quello di Marco Travaglio pubblicato nello scorso mese di maggio col titolo di “Conticidio”, inteso come l’assassinio politico di Giuseppe Conte. Che sarebbe stato politicamente assassinato da misteriosi congiurati -tranne uno, naturalmente Matteo Renzi- prima come capo del suo secondo governo e poi anche come aspirante al terzo e forse anche ultimo di questa anomala legislatura prodotta dalle elezioni del 2018 con la conquista della maggioranza relativa da parte del MoVimento 5 Stelle. Sembrò addirittura una paradossale riedizione della Dc della cosiddetta prima Repubblica, sorpassata una sola volta, nel 1984, dal Pci dell’appena compianto Enrico Berlinguer. Ma fu un sorpasso più simbolico che reale, avvenuto nell’elezione della delegazione italiana al Parlamento Europeo. Allora comunisti e Pdup insieme superarono i democristiani di 130.661 voti: 11 milioni 714.428 ai primi e 11 milioni 583.761 ai secondi, attestatisi rispettivamente sul 33,33 per cento e sul 32,96. I socialisti, che pure avevano il loro segretario Bettino Craxi in grandissima forma a Palazzo Chigi, dovettero accontentarsi di 3 milioni 940.445 voti, pari all’11,21 per cento.  

            Una volta tanto sportivo e spiritoso, non solo ferocemente sarcastico, lo stesso Travaglio ha recentemente ammesso, collegato a un salotto televisivo dov’è di casa, di avere scritto un giallo “superato”, scaduto come uno yogurt, cui di solito Romano Prodi paragona i prodotti politici che non lo convincono. Scaduto, dicevo, essendo nel frattempo maturato un terzo delitto Conte: questa volta commissionato, anzi compiuto direttamente da Beppe Grillo licenziando il professore e avvocato in diretta internettiana da rifondatore e aspirante leader politico del MoVimento 5 Stelle per avere dimostrato col suo “seicentesco”, e quindi barocco, progetto di statuto di non avere quel certo “quid” che una volta solo Silvio Berlusconi si permetteva di assegnare e poi revocare al delfino di turno.

Avrebbero dovuto seguire, in verità, le scuse di Grillo, puntualmente mancate, agli italiani  per avere loro rifilato lo stesso Conte alla guida di due governi e averne apparentemente permesso o tollerato per un pò il tentativo di guidarne un terzo, come già accennato. Arrivò invece il turno di Mario Draghi, per cui si spese personalmente proprio Grillo, a questo punto non so se da congiurato più di supporto o principale. Il comico si precipitò a Roma,  in concorrenza peraltro con Berlusconi,  per sostenere l’incarico di presidente del Consiglio affidato dal capo dello Stato all’ex presidente della Banca Centrale Europea, ex governatore della Banca d’Italia e via curricolando.

            Al licenziamento elettronico di Conte come rifondatore e leader di un MoVimento 5 Stelle proiettato sull’Italia addirittura del 2050, preclusa anagraficamente a un bel po’ di connazionali, è seguita tuttavia una mezza riassunzione, chiamiamola così, col ripiegamento di Grillo su una commissione di sette saggi. Cui la generalità dei giornali ha assegnato una quindicina di giorni per cercare di ricucire lo strappo, cioè elaborare uno statuto che garantisca sia il fondatore sia il rifondatore, in una diarchia esclusa a parole da Conte ma di fatto accettata nel momento in cui egli si è fermato sulla strada alternativa della composizione di un nuovo partito, fatto inizialmente più di parlamentari ex grillini che di elettori.

            Questa fermata assomiglia ad un’altra, sempre di Conte. Penso, in particolare, ai giorni in cui, incalzato dall’offensiva del già citato Renzi, l’allora presidente del Consiglio si impegnò personalmente, assistito  dal portavoce Rocco Casalino, a ridisegnare la maggioranza del suo  secondo governo o a predisporre quella di un terzo. Ricordate? Erano i giorni in cui scendevano e salivano non solo metaforicamente dalle scale di Palazzo Chigi senatori e senatrici delle opposizioni, e dintorni, per liberare il professore dalle catene o dal cappio di Renzi. Persino il paziente presidente della Repubblica, che già gli aveva permesso di congelare una crisi che nei fatti si trascinava ormai da mesi, diede segnali di insofferenza. E la storia precipitò nella certificazione della disponibilità di Draghi, sino a poco prima negata da Conte in base ad elementi raccolti personalmente, a guidare un governo dalla struttura e dalla maggioranza particolari per la triplice emergenza in cui si trovava il Paese: sanitaria, economica e sociale.

            In questo traffico un po’ convulso di Conte fra scenari diversi, tra rifondazione e fondazione di partiti, mi sono personalmente perso anche il conto dei consiglieri quanto meno attribuiti al professore dai giornali: da Clemente Mastella, propostosi addirittura come medico in una intervista, a Goffredo Bettini, in qualche modo prestato dal Pd di Nicola Zingaretti e del successore Enrico Letta; da Pier Luigi Bersani, sempre prodigo di metafore oltre che di suggerimenti, a Massimo D’Alema. Tutti nomi e uomini che potrebbero giustamente aspirare ad almeno una citazione di Travaglio, consigliere anche lui del professore secondo qualche retroscenista, nella riscrittura del “Conticidio” promessaci dall’autore. Che penso tuttavia –  leggendone le analisi e i racconti sul suo Fatto Quotidiano- più interessatoa scrivere “Il Draghicidio”.  Gli scongiuri del presidente del Consiglio, ma anche di Mattarella, col fiato sospeso al Quirinale, sarebbero a questo punto dovuti.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’11 luglio

Dietro le quinte del Quirinale tra timori e sollievi a sorpresa sulla sorte di Draghi

            Al Quirinale naturalmente non avevano bisogno di apprendere dai giornali, fra cronaca e retroscena, la parte sotterranea della guerra esplosa  sulla rifondazione del MoVimento 5 Stelle e sullo statuto predisposto all’occorrenza da Giuseppe Conte.  Le antenne personali del presidente della Repubblica e quelle dei suoi collaboratori avevano già avvertito nei quattro mesi di lavoro trascorsi dall’ex presidente del Consiglio nel cantiere della rifondazione le progressive distanze ch’egli prendeva dall’azione del governo Draghi, pur nell’ambito di un confermato e “leale sostegno”. Quanto leale era sempre più difficile credere anche sul Colle seguendo i commenti del più contiano dei giornali come Il Fatto Quotidiano, impegnato sistematicamente a contestare le scelte del presidente del Consiglio, accusato di smontare via via tutte le cose fatte dal predecessore per recepire le posizioni delle componenti di centrodestra della maggioranza. E ciò con la complicità temuta di un Pd solo apparentemente o strumentalmente in polemica col leader leghista Matteo Salvini.

            Paradossalmente più scendeva la curva della pandemia, pur alle prese con le varianti e una certa confusione nelle comunicazioni sui vaccini, più saliva quella della insofferenza per il governo sotto le cinque stelle. E si avvertiva anche al Quirinale la sensazione che si stesse cercando di preparare qualche trappola a Draghi nel periodo ritenuto più adatto o sicuro com’è quello del cosiddetto semestre bianco. Che da agosto a fine gennaio prossimo, sino alla scadenza del mandato presidenziale, metterà le Camere al riparo dal rischio dello scioglimento anticipato: una via di uscita dalla crisi scartata per libera scelta dal capo dello Stato nei mesi scorsi, di fronte ad una pandemia ancora forte e al naufragio del tentativo di Conte di formare un suo terzo governo, o di salvare il secondo azzoppato dalle offensive di Matteo Renzi, ma da agosto impedta dalla Costituzione a Mattarella.  

Mattarella all’arrivo a Parigi

            Non è detto, in verità, che il presidente della Repubblica sia per ciò stesso impedito durante i suoi ultimi sei mesi di mandato nelle funzioni di garanzia e di stimolo, e costretto quindi a subire chissà quali e quante iniziative di malintenzionati  e simili. Ma di questo sembravano invece convinti i manovratori di una crisi, tendenti se non a disarcionare Draghi, consapevoli anch’essi del vantaggio costituito a livello europeo e mondiale dalla sua presenza a Palazzo Chigi, quanto meno a interrompere il suo presunto rapporto privilegiato con la Lega.

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo del Corriere

Il presidente Mattarella, da ieri in missione ufficiale in Francia, già studiava nei giorni scorsi il modo di fronteggiare una crisi. Ciò che in qualche modo deve avere sorpreso anche lui è l’aiuto giuntogli nei fatti dal pentastellato apparentemente più furioso e genuino come si può considerare il fondatore, garante, elevato e quant’altro del MoVimento, cioè Grillo. Che ha praticamente tagliato le unghie politiche a Conte come leader politico in generale, e non solo come leader del MoVimento incautamente designato prima di conoscere non solo le sue bozze di statuto ma anche, o soprattutto, la quantità e la qualità delle distanze da un governo, quale appunto quello di Draghi, per il quale il comico genovese si era tanto speso pubblicamente guidando di persona la delegazione delle 5 stelle nelle trattative per la sua formazione.  Ora i giornali prevedono ancora 15 giorni di “trattiva”, come ha titolato il Corriere, per sedare Conte, mentre al Fatto Quotidiano preferiscono titolare che “si litiga ancora”. E lotta continua fra notizie e desideri.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Era dunque Draghi, non lo statuto 5 Stelle la causa della rottura fra Grillo e Conte

Il senatore del Pd Luigi Zanda
Zanda al Corriere della Sera

            Un senatore del Pd tanto riservato quanto autorevole com’è Luigi Zanda, già capogruppo al Senato e tesoriere del partito, deve avere notizie sicure, di prima mano, se ha dichiarato al Corriere della Sera di “non credere che ci sarà la scissione” sotto le cinque stelle. Egli ha praticamente scommesso sui sette “saggi” di un’improvvista commissione costituita dal “garante” del MoVimento Beppe Grillo per la composizione della lite scoppiata con l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte sullo statuto predisposto da quest’ultimo dopo una fitta corrispondenza telematica col comico genovese e depositato in “bozze” ultimative. Che sembrano poi diventate penultimative.

            “Quella tra Conte e Grillo -ha detto Zanda-  è una sfida molto personale e ritengo che nessuno dei due voglia buttare a mare una storia che li ha portati a un successo politico. Ci saranno aggiustamenti dello statuto, non ci saranno scissioni. Ma la questione più importante è quale sarà il posizionamento politico del MoVimento 5 Stelle. Io mi aspetto ci sia la conferma della fiducia nel governo Draghi”.

Titolo del Messaggero

            L’attesa, magari anche certezza di Zanda simulata come auspicio, è confermata da un retroscena del Messaggero firmato da Marco Conti, secondo cui la “mediazione” di Fico e di Di Maio, i principali dei sette saggi al lavoro, già ricevuti a cena da Grillo, starebbe sfociando nella riassunzione di Conte come leader del MoVimento, con tutte le procedure pasticciate della “comunità”, come la chiama l’ex presidente del Consiglio, e nella “blindatura” del governo Draghi. Che sarebbe stata e sarebbe pertanto la vera posta in gioco dello scontro consumatosi a parole sullo statuto e sulle capacità politiche e organizzative di Conte improvvisamente contestate da Grillo dopo quattro mesi di “volontariato”, come Travaglio ha definito il lavoro svolto dal professore e avvocato in veste di rifondatore del MoVimento. L’ex premier, sempre secondo la ricostruzione retroscenista del Messaggero, sarebbe stato “costretto a rinunciare alla crisi progettata per il semestre bianco”.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano
Marco Conti sul Messaggero

            A parole quindi, ripeto, la guerra dei nervi e quant’altro sotto le cinque stelle sarebbe scoppiata per la presunta “diarchia” rivendicata da Grillo come garante e fondatore e contestata da Conte, in realtà per l’intenzione dell’ex presidente del Consiglio avvertita dal comico di promuovere una crisi più o meno pilotata durante gli ultimi sei mesi del mandato quirinalizio di Sergio Mattarella -magari solo un “rimpasto”- per ridimensionare Draghi e correggerne la rotta politica, al riparo dal rischio di elezioni anticipate. Che sono precluse durante il cosiddetto e imminente “semestre bianco”.

            Il “rischio” di una composizione della lite fra Grillo e Conte a beneficio di Draghi deve essere stato avvertito con fastidio da Marco Travaglio. Che sul Fatto Quotidiano, pur con l’aria di prendersela col segretario del Pd piuttosto che con Grillo, si è doluto che si stia paradossalmente decidendo di “non regalare un premier di centro destra” quale sarebbe Draghi “al centrodestra approvandone le politiche senza fiatare, anzi ringraziando e sorridendo”. E ciò anche dopo la firma apposta da Matteo Salvini all’intesa dei sovranisti patrocinata in Europa da Giorgia Meloni, Orban e amici. Il documento non è stato neppure letto dal ministro leghista Giancarlo Giorgetti, tanto lo considera ininfluente sul piano della politica interna, ed esagerate perciò le proteste levatesi dal Pd.    

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Italiani in festa, Grillo e Conte un pò meno nella loro partita politica

            Beppe Grillo non festeggia, o festeggia controvoglia, l’arrivo dell’Italia in semifinale ai campionati europei di calcio perché troppo preso da un’altra partita, la sua. Nella quale egli è passato ormai dalla posizione di attacco contro Giuseppe Conte a quella di difesa. Ma Conte, pur sempre all’offensiva tra gli incoraggiamenti dei tifosi, non riesce ancora a segnare. E qualcuno comincia a pensare, anzi a temere nella cerchia degli amici e consiglieri più stretti, un pareggio senza però i tempi supplementari e una vittoria obbligatoria ai rigori.

            Fuori dalla metafora calcistica un po’ d’obbligo in queste ore, Grillo ha accettato di trattare, secondo l’annuncio in prima pagina di Repubblica, sullo statuto predisposto dall’ex presidente del Consiglio per un MoVimento 5 Stelle rifondato, secondo la missione affidatagli dallo stesso Grillo in una domenica di febbraio. Ma, a dire il vero, Conte gli aveva spedito le bozze come un pacchetto chiuso, da mettere ai voti e basta, per cui una trattativa comporterebbe un cedimento anche del professore e avvocato pugliese.

Travaglio sul Fatto Quotiiano

“Grillo inizia a cedere”, ha preferito titolare Il Fatto Quotidiano, il giornale più di casa, diciamo così, sotto le cinque stelle eppure più espostosi a favore di una scissione del MoVimento per liberare Conte, con un nuovo partito, dalle remore di uno scontro duro all’interno della maggioranza di governo con Mario Draghi. Del quale il direttore Marco Travaglio è tornato oggi a lamentare, denunciare e quant’altro una linea più vicina o comunque più utile alle componenti di centrodestra dell’attuale, larga maggioranza di emergenza.

Francesco De Martino

            Il Grillo che “inizia a cedere” ricorda un po’ ai cronisti politici più anziani il compianto segretario socialista Francesco De Martino, che alla fine degli anni Sessanta il sindacalista e compagno di partito Ferdinando Santi  descriveva sui divani di Montecitorio come l’uomo che nei rapporti di centrosinistra con la Dc resisteva “fino a un momento prima di cedere”. E chiuse praticamente la sua carriera politica portando il Psi al minimo storico dei  voti nella cosiddetta prima Repubblica. Anche De Martino, come Grillo tra le sue ville di Genova e di Marina di Bibbona, soleva ogni tanto defilarsi e contemplare il mare: quello però della “sua” Napoli, dove si avventurava anche a pescare.

Grillo a nuoto nel 2012

            Grillo a pescare, almeno sinora, non si è mai visto, mi sembra. Lo si è visto solo nuotare, anche nello stretto di Messina, alla Mao, nei primi anni ruggenti del MoVimento, alla conquista elettorale -a suo modo- della Sicilia. Già allora al comico l’idea di un ponte che collegasse l’isola al continente non piaceva, non foss’altro perché piaceva, al contrario, a quello “psiconano” che era per lui Silvio Berlusconi. Col quale tuttavia avrebbe finito  per ritrovarsi in maggioranza, come il Pd, in una delle larghe ed emergenziali maggioranze di emergenza ogni tanto imposte dagli imprevisti alla solitamente rissosa politica italiana.  

            A sentire i più pessimisti, dal loro punto di  vista naturalmente, Grillo e Conte, ancora insieme ma ancor più se separati, entrambi peraltro fuori dal Parlamento, potrebbero trovarsi fra qualche mese a fronteggiare addirittura una candidatura al Quirinale del pur “pregiudicato” Berlusconi, come ricorda sempre Travaglio. Se ne occupa oggi sul Corriere della Sera Francesco Verderami.

La partita della scissione grillina si allunga tra l’insofferenza dei supercontiani

            Rassegniamoci. Andrà avanti per le lunghe questa storia dei grillini in marcia verso la scissione. Che Il Foglio legge come “una guerra di nervi” condividendo forse la previsione di Luciano Canfora, sul Riformista, che non si arriverà a tanto un po’ perché sotto le cinque stelle “non sono scemi” e un po’ perché sono solo “guappi di cartone”, comunque responsabili di un degrado del dibattito politico stando tutti a  parlare “del pensiero di un signore che si chiama Grillo”.  Attorno ai cui umori o malumori in effetti ha vissuto buona metà della legislatura uscita dalle urne del 2018, fino a quando il presidente della Repubblica non ha mandato a Palazzo Chigi Mario Draghi. Che con la sua larga maggioranza di emergenza riesce a tenere il Paese in sicurezza.

            L’ultimissima, diciamo così, dallo spazio pentastellare è la decisione di Vito Crimi, il reggente del MoVimento, di sfilare un po’ la lama del coltello metaforicamente affondata nel ventre di Beppe Grillo rifiutando d’indire la votazione per il comitato direttivo sulla piattaforma Rousseau del riassunto Davide Casaleggio. Ma come tutte le lame che si sfilano parzialmente, anche questa di Crimi può procurare altri danni se la si muove male.

Saranno lunghi i quindici giorni che occorrono per la votazione che Crimi ha sbloccato non sulla piattaforma Rousseau, pronta in poche ore e indicata perentoriamente da Grillo, ma su quella di SkyVote messa in pista sostanzialmente da Conte durante il mandato di rifondazione del MoVimento.

            In quindici giorni, che ci porterebbero ad una settimana da una data fatidica che è il 25 luglio, giorno in cui Mussolini nel 1943 fu messo in minoranza nel Gran Consiglio del Fascismo e avviato alla deposizione e all’arresto; in quindici giorni, dicevo, potrebbe accadere di tutto e di più. Ad occhio e croce, senza farsi distrarre più di tanto dalle cerimonie di ascolto separato di Grillo e di Conte che qualcuno sta cercando di organizzare davanti ai parlamentari divisi fra l’uno e l’altro, non credo che possa reggere tanto quel ponte in cui il vignettista Nico Pillinini ha tradotto sulla Gazzetta del Mezzogiorno la situazione del MoVimento. E’ Luigi Di Maio steso fra due spuntoni di roccia con le mani minacciate da Conte e i piedi da Grillo e implorante verso l’ex presidente del Consiglio: “Io sto sia Con te che con Grillo”. Proprio da Conte peraltro il ministro degli Esteri è andato ieri per svolgere un tentativo di mediazione dall’esito assai incerto.

Vignetta del Fatto Quotidiano

            Chi ha fretta che tutto si concluda con la scissione è il supercontiano Travaglio sul Fatto Quotidiano, preoccupato a suo modo che “il terzo” goda troppo, come ha scritto in un editoriale riferendosi a Draghi. Che sarebbe impegnato, con l’aiuto del centrodestra partecipe del governo, in una opera di “demolizione” di tutto ciò che il suo predecessore aveva fatto a Palazzo Chigi e dintorni.  Il che presupporrebbe -anche se il segretario del Pd Enrico Letta non vuole sentirselo dire- l’eventuale nuovo partito di Conte tentato più dall’opposizione che dal governo. E Grillo al contrario, si dovrebbe desumere: un Grillo proposto dal Fatto con una scatoletta intatta di tonno sulla testa e -nella “cattiveria” di giornata- con il figlio Ciro, accusato di stupro dalla Procura di Tempio Pausania, messo meglio del MoVimento. Che è l’altra creatura del comico genovese.

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