Onore alla memoria di Nicolò Amato

Titolo del Dubbio
L’intervista di Mauro Palma al manifesto

Con Nicolò Amato, magistrato e poi avvocato di lunghissimo corso, professore universitario di filosofia del diritto, autore di un lunghissimo elenco di libri e saggi scientifici, appena spentosi serenamente a 88 anni nella sua abitazione vicino Roma, è scomparso l’ultimo capo degno di questo nome di quello che conosciamo come Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In particolare, egli fu capace in dieci lunghissimi e terribili anni, fra il 1983 e il 1993, di fare della “complessità” congenita della realtà carceraria “un mix progettuale efficace”. Lo ha riconosciuto in un’intervista al manifesto il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. “Capacità -ha precisato- che, mi spiace dirlo, non ho più trovato successivamente”.

            Eppure a un così straordinario servitore dello Stato capitò negli ultimi mesi della sua direzione del dipartimento penitenziario, tra febbraio e giugno del 1993, la paradossale avventura di essere contestato per la sua fermezza in un documento anonimo inviato come una circolare dai vertici mafiosi a quelli dello Stato e persino al Papa, in cui se ne reclamava la testa, e di essere rimosso dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso con la formale promozione a rappresentante dell’Italia nel comitato europeo per la prevenzione della tortura.

Ci fu un sadismo involontario- spero per la memoria di Conso- in quella destinazione perché di tortura puzzò subito proprio quella decisione. Dalla quale l’orgoglioso e valente magistrato, che aveva seguito vicende terroristiche complesse come il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e l’attentato a Giovanni Paolo II, si sfilò a beneficio della professione e dell’ordine forense. Dove ha lasciato il segno ancor più che nella magistratura prodigandosi per una Giustizia, con la maiuscola, davvero giusta, secondo uno slogan dei radicali.

            Difensore, fra gli altri, dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi, egli scrisse sui processi del cliente ed amico dall’epilogo scontato con quel titolo così eloquente -“Bettino Craxi dunque colpevole”-  un libro che a rileggerlo dopo tanti anni dalle condanne e dalla morte del leader socialista, la pelle spesso si accappona ancora. E’ un libro privo di accanimento verso gli ex colleghi magistrati lasciatisi trascinare praticamente dalla piazza, qualche volta persino in buona fede. Ma sono risultati devastanti i suoi effetti sulla giustizia. Della cui gestione l’autore si mostra via via più angosciato, incredulo di fronte anche a quella enormità della latitanza contestata a Craxi persino dalla Cassazione, nonostante egli avesse lasciato l’Italia con tanto di passaporto valido, regolarmente e non fuggendo. Ma la latitanza doveva servire a demonizzare ulteriormente l’immagine dell’uomo e la memoria, anche dopo la morte.

            Penso che il libro di Nicolò Amato non fosse stato estraneo alle considerazioni maturate al Quirinale da Giorgio Napolitano in occasione del decimo anniversario della morte di Craxi. Alla cui vedova, fra le critiche e gli insulti dei soliti giustizieri, l’allora capo dello Stato ebbe il buon senso e il coraggio di mandare, su carta intestata della Presidenza della Repubblica, un messaggio per riconoscere “la severità senza uguali” praticata dalla magistratura contro l’ex presidente del Consiglio. “Senza uguali” significa arbitrariamente, ingiustamente, se ha ancora un senso “la legge uguale per tutti” che è stampata o scolpita sulle pareti delle aule nei tribunali.

Oscar Luigi Scalfaro e Giovanni Conso

            Per tornare all’esperienza di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria contestato per la sua durezza dalla mafia – e rimosso da un ministro della Giustizia finito poi sotto inchiesta giudiziaria per avere disposto, dopo l’allontanamento di Nicolò Amato, l’allentamento del cosiddetto carcere duro dei detenuti di mafia, nella presunzione, dichiarò ai magistrati, di ridurre la tensione nella quale erano maturate le stragi mafiose di quei tempi- va detto con tutta onestà che il guardasigilli non si mosse nel pieno della sua autonomia. Di come e con chi sostituire il capo dell’amministrazione penitenziaria si occupò personalmente l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro parlandone col capo dei cappellani delle carceri.

            Nicolò Amato avrebbe avuto più di una ragione per accusare Scalfaro di interferenza. Ma glielo impedì forse il suo senso dello Stato, lamentandosi genericamente solo di “qualcuno” che di fatto raccolse, esaudì e quant’altro la richiesta di decapitazione avanzata dalla mafia. A ciascuno il suo stile. Quello di Amato era di rispettare comunque le istituzioni, al servizio delle quali aveva lavorato, pur avendone subito alla fine un torto immeritato.

            Non mi sembra proprio lo stile -scusatemi lo sconfinamento nelle cronache politiche e giudiziarie di questi giorni- di quei servitori in toga dello Stato che stanno sommergendo di accuse e persino di insulti uomini e donne di governo che legittimamente, nell’esercizio delle loro funzioni, sono alle prese con la riforma del processo penale imposta da vecchi e nuovi mali della Giustizia. E fra i nuovi mali si deve purtroppo annoverare la mancata riforma del processo per la quale si era invece impegnato il primo governo di Giuseppe Conte introducendo come una supposta in una legge sulla corruzione la fine della prescrizione con l’esaurimento del primo grado di giudizio. Per cui, a legislazione lasciata invariata dal secondo governo Conte, persino all’assolto con sentenza impugnata dall’accusa per reati compiuti dal primo giorno di gennaio dell’anno scorso potrebbe accadere di rimanere imputato a vita. E’ rimasta infatti appesa solo alle parole -niente di più- la “ragionevole durata” del processo, di ogni grado, sancita dall’articolo 111 della Costituzione.

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Affondo di Draghi a Conte sulla riforma del processo penale

            Se non “al muro”, come lo ha rappresentato Maurizio Belpietro sulla sua Verità con linguaggio da tempi di guerra, è finito in un angolo Giuseppe Conte con la decisione presa e personalmente motivata dal presidente del Consiglio Mario Draghi di “porre un punto fermo” sula riforma del processo penale. Esso consiste nella cosiddetta questione di fiducia “autorizzata” sugli emendamenti del governo scambiati dallo stesso Conte pochi giorni fa, in un incontro proprio con Draghi, per chissà quali premesse a “sacche di impunità”.

“Nessuno vuole sacche di impunità”, gli ha risposto adesso anche in pubblico Draghi in una conferenza stampa seguita ad una importante seduta del Consiglio dei Ministri. Nella quale i rappresentanti delle 5 Stelle si sono ritrovati d’accordo con Draghi e gli altri ministri, neppure loro intimiditi evidentemente dalle proteste levatesi dal sindacato delle toghe, da alcuni magistrati di prima pagina e dalla sesta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura. Che ha predisposto un parere negativo sugli emendamenti del governo in vista di un plenum della prossima settimana, dal cui ordine del giorno però il presidente Mattarella ha fatto escludere il tema, in attesa di ciò che potrà accadere nei tempi supplementari presisi dalla Commissione Giustizia della Camera per fare approdare il provvedimento in aula venerdì prossimo.

Sette giorni dovranno bastare e avanzare per cercare un accordo su quelle che Draghi ha riduttivamente definito “migliorie tecniche”, rispettose dell’”impianto” già predisposto e comunque verificabili dal Consiglio dei Ministri in un’altra, apposita seduta perché il ricorso alla questione fiducia autorizzato ieri si riferisce agli emendamenti del governo già predisposti e depositati. Che furono approvati in Consiglio l’altra volta -ripeto- anche dai ministri pentastellati, tornati quindi ieri a condividerli, nonostante il dissenso espresso a nome del loro movimento da Conte nell’incontro con Draghi.

Andrea Scanzi su Conte

Ciò significa che, più che di governo, la vertenza è tutta interna al MoVimento 5 Stelle, il cui futuro o futuribile presidente non è quanto meno in linea con i ministri che pure dovrebbero rappresentarlo. Le sue credenziali, anche dopo la spigola consumata con Grillo a Marina di Bibbona, non sono insomma quelle enfaticamente e bellicosamente descritte così qualche giorno fa da Andrea Scanzi sul Fatto Quotidiano: “Conte dovrà sancire un netto cambio di passo: basta con questo M5S eunuco, impalpabile e sommamente citrullo (per non dire peggio). Conte non è tipo da spaccare tutto, ma quando vuole la voce sa alzarla eccome (altrimenti il Recovery Fund sarebbe ancora e soltanto una chimera). E’ tempo di alzare quella voce, sempre che Conte voglia essere il leader di una forza votabile e non di una salma politica. Draghi si arrabbierà? Pazienza: male che vada, i 5 Stelle usciranno dal governo. Possiamo garantire che la Terra resterebbe comunque in asse”.

L'”annuncio” del giornale di Travaglio
Titolo del Fatto Quotidiano

Le cose chiaramente non stanno così. Il problema adesso è di vedere se sarà Conte a restare in asse dopo che Draghi ha ribadito la sua posizione continuando a contare sui ministri pentastellati. Costoro peraltro dovrebbero essere i primi a sentirsi offesi dall’immagine che ne ha dato oggi Il Fatto Quotidiano definendoli praticamente “ricattati” da Draghi e dalla ministra della Giustizia e “Salvamafia” Marta Cartabia: “la nota giurista (per mancanza di prove” prestata alla politica” e che “va immediatamente restituita, prima che faccia altri danni”, ha scritto o intimato nel suo editoriale Marco Travaglio.

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Ormai è caccia alla ministra Cartabia e alla sua presunta “bestialità”

            Ormai mancano solo i manifesti alla Far West sui ricercati alla campagna in corso contro la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Cui hanno partecipato con tale veemenza anche alcuni magistrati, come il capo della Procura di Catanzaro nonché mancato ministro della Giustizia Nicola Gratteri e il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, dandole praticamente dall’eversiva perché attenterebbe alla sicurezza nazionale, che il pur pensionato Armando Spataro si è sentito in dovere di chiedere agli ex colleghi di contenersi.

Titolo del Fatto Quotidiano

            “Ministra bugiarda”, l’ha insolentita a caratteri di scatola sulla prima pagina Il Fatto Quotidiano. Il cui direttore l’ha accusata di dire “bestialità”, oltre che “bugie” per avere ricordato che i delitti di mafia, essendo punibili con l’ergastolo, non rischiano la “improcedibilità” prevista dalla sua riforma della prescrizione, abolita con la sentenza di primo grado dal guardasigilli grillino Alfonso Bonafede.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

            La ex presidente della Corte Costituzionale e docente di diritto, già sul gozzo di qualcuno per l’appartenenza a Comunione e Liberazione, dal cui prossimo meeting ha deciso di tenersi lontana incorrendo nell’accusa di volersi così meglio candidare al Quirinale per succedere a Sergio Mattarella, che pure a quel raduno non mancherà con almeno undici ministri; la ex presidente della Corte Costituzionale, dicevo, s’intenderebbe tanto poco della materia affidatale nel governo da “non distinguere un tribunale da un phon”. Parola di Travaglio, che invece ritiene di conoscere i tribunali a menadito, compresi i loro archivi e segreti. E i giornalisti imprudentemente avventuratisi nella difesa della guardasigilli sarebbero nient’altro che “guardiani della restaurazione” perseguita con scientifica ostinazione dal governo Draghi. Di cui ovviamente sarebbe un affare potersi liberare nel cosiddetto semestre bianco di imminente inizio, al riparo da elezioni anticipate che avrebbero, fra l’altro, l’inconveniente di ridurre di più della metà la rappresentanza parlamentare del movimento rivoluzionario delle 5 stelle.

Il presidente Fico alla cerimonia del ventaglio alla Camera

            La cosa davvero curiosa, diciamo pure incredibile, è di presumere di potere con una campagna del genere indurre la ministra Cartabia, e il presidente del Consiglio che la difende, ad ammettere le sue presunte colpe e ad arrendersi a una trattativa destinata a parole, secondo le illlusioni coltivate anche in una parte del Pd, ad alcuni “aggiustamenti tecnici” agli emendamenti presentati dal governo alla riforma del processo penale all’esame della Camera. Il cui presidente grillino Roberto Fico ha cercato di mettere del suo nel fuoco contro il governo auspicando un percorso “normale” del provvedimento in arrivo dalla commissione Giustizia nell’aula di Montecitorio, intendendo evidentemente per anomalo, cioè non normale, il ricorso alla cosiddetta questione di fiducia per fronteggiare la pratica sfacciatamente ostruzionistica di migliaia di proposte di modifica. Eppure di ricorsi alla fiducia in questa legislatura, da parte dei due governi di Giuseppe Conte, il presidente Fico a Montecitorio ne ha gestiti parecchi. Era tutto “normale” anche allora, evidentemente, agli occhi e alla barba del presidente della Camera, protagonista ieri dell’annuale cerimonia del “ventaglio”.

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Mattarella aspetta al varco i tessitori di una crisi di governo in estate

Non so se sia vera o soltanto verosimile la sfregata di mani con la quale mi hanno riferito che Mario Draghi abbia reagito con spirito romanesco alla notizia appena pervenutagli dei 1600 sub emendamenti alle proposte di modifica del governo depositate alla Commissione Giustizia della Camera alle prese con la riforma del processo penale. E, più in particolare, della prescrizione breve introdotta nel codice dall’ex guardasigilli grillino Alfonso Bonafede. Che, se rimanesse così com’è, per i reati commessi dal primo gennaio del 2020 consentirebbe all’accusa di tenere sotto processo a vita i condannati e addirittura anche gli assolti in primo grado con sentenza naturalmente impugnata. Il governo invece ha proposto la “improcedibilità” dopo 2 o 3  anni di inutile attesa della sentenza d’appello, secondo la gravità dei reati, o dopo 12 o 18 mesi di passaggio infruttuoso in Cassazione.

“Una porcata immorale”, ha gridato dalla Bolivia il disiscritto dal MoVimento 5 Stelle Alessandro Di Battista, come se potessero esistere porcate moralmente a posto. Un pericolo di “impunità” ha protestato Giuseppe Conte, che non dispera, una volta diventato capo del MoVimento, di recuperare il “giovanotto generoso” Di Battista, per quanto questi abbia detto che potrebbe riscriversi quanto meno se i grillini dovessero uscire dal governo. Per ora invece essi si sono limitati a intestarsi più della metà dei 1600 sub-emendamenti alla “porcata immorale”: esattamente 916, o 917 secondo alcuni giornali.

Se vera -e non soltanto verosimile, ripeto-  la sfregata romanesca di mani di Draghi sarebbe comprensibile per la strada, o l’autostrada, che una massa simile di modifiche alle modifiche del governo alla riforma del processo penale aprirebbe al ricorso alla questione di fiducia da parte del presidente del Consiglio per assicurare non solo e non tanto un minimo di disciplina o di lealtà nella maggioranza, dopo il voto unanime del Consiglio dei Ministri sugli emendamenti, quanto un percorso parlamentare celere e sicuro, decisamente anti-ostruzionistico, ad un provvedimento senza la cui approvazione definitiva entro settembre, fra Camera e Senato, l’Italia rischia di perdere i finanziamenti europei al piano della ripresa, condizionati ad un calendario di riforme.

Draghi avrebbe, in verità, altri motivi ancora per sfregarsi bene le mani, questa volta per i segnali provenienti dal Quirinale. Dove, per esempio, hanno smentito le voci raccolte o create dal Fatto Quotidiano su “preoccupazioni” del presidente della Repubblica per la possibilità aperta dagli emendamenti del governo alla riforma del processo penale che il Parlamento indichi di anno in anno le priorità della pur obbligatoria azione penale prevista dalla Costituzione. Di queste preoccupazioni il giornale “ufficioso” di Conte, come Stefano Folli chiama abitualmente su Repubblica quello diretto da Marco Travaglio, si era fatto forte per sviluppare un’offensiva contro la “ministra dell’impunità” e assicurare che l’ex presidente del Consiglio non sarebbe isolato nella posizione critica espressa sui temi della giustizia a Draghi nei 40 minuti d’incontro a Palazzo Chigi.

Marzio Breda sul Corriere della Sera

A proposito di isolamento, è quello di una parte del MoVimento 5 Stelle di cui il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda ha avvertito “il rischio” se essa “si illudesse di lucrare un vantaggio politico portando il dissenso contro la legge Cartabia alle estreme conseguenze”, negando per esempio la eventuale fiducia posta dal governo, e scommettendo quindi su una crisi, a costo anche di scavalcare e spiazzare il Conte “realista” avvertito da alcuni giornali in occasione della sua visita a Draghi. I crisaioli, estremisti, irriducibili e quant’altro sotto le cinque stelle si scoprirebbero isolati -ha scritto Breda, probabilmente riflettendo sensazioni avvertite al Quirinale- “anche rispetto al sentimento dell’opinione pubblica” emerso, per esempio, dalla notevole affluenza ai banchetti allestiti da leghisti e radicali per la raccolta delle firme a sostegno dei sei referendum predisposti sui problemi della giustizia.

Se poi si dovesse pensare, sempre sotto le cinque stelle, ad un Mattarella indebolito dal cosiddetto semestre bianco, per l’impossibilità dal 3 agosto in poi di sciogliere le Camere essendo il suo mandato in via di scadenza, Breda ha forse raccolto e rispedito un segnale della Presidenza della Repubblica ai naviganti, chiamiamoli così. Egli ha scritto, in particolare, che “se Draghi contasse comunque su una maggioranza, avrebbe dal Quirinale un via libera per continuare il suo lavoro”. E di una maggioranza il presidente del Consiglio disporrebbe di sicuro perché, al punto in cui sono giunte le cose, sarebbe impossibile immaginare i gruppi parlamentari pentastellati compatti in una iniziativa dirompente contro il governo. Conte salterebbe da capo del MoVimento prima ancora di diventarlo davvero, una volta che Beppe Grillo lo ha rimesso in pista con la spigola di Bibbona.

Così stando le cose, credo che Mattarella potrà festeggiare in tutta tranquillità venerdì i suoi 80 anni -auguri, Presidente- e affrontare olimpicamente il suo ultimo e bianco semestre al Quirinale, se non lo dovesse attendere addirittura una rielezione, come già successe nel 2013 al suo predecessore Giorgio Napolitano.

Pubblicato sul Dubbio

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Segnali e moniti dal Quirinale sull’autorete di una crisi nel semestre bianco

            Se non fosse per il danno procurato al concetto della serenità da Matteo Renzi quando la garantì con un messaggio elettronico all’allora presidente del Consiglio Enrico Letta mentre si apprestava come nuovo segretario del Pd a detronizzarlo per sostituirlo personalmente a Palazzo Chigi, si potrebbe dire che Sergio Mattarella aspetta serenamente l’inizio dell’ultimo tratto semestrale del suo mandato al Quirinale. Che si chiama bianco per il disarmo impostogli dalla Costituzione in caso di crisi, non potendo disporre più il presidente della Repubblica della prerogativa di sciogliere le Camere. Egli è consapevole del rischio di una crisi, appunto, per i vari contenziosi esistenti nella maggioranza, soprattutto sulla giustizia ora che i deputati grillini hanno annunciato ben 672 emendamenti alla riforma del processo penale per contrastare quelli del governo sulla “improcedibilità” dopo due o tre anni di inutile attesa della sentenza d’appello o dai dodici ai diciotto mesi per la sentenza di Cassazione. Ma sa bene, Mattarella, come reagire per neutralizzare un tentativo di rovesciamento del governo da lui voluto in febbraio sotto la guida di Mario Draghi per fronteggiare un bel po’ di emergenze.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

            Sentite quello che ha appena scritto sul Corriere della Sera l’affidabile e solitamente bene informato quirinalista Marzio Breda riferendo appunto degli umori del capo dello Stato alla vigilia del semestre bianco e del compimento, venerdì prossimo, dei suoi 80 anni: “Se un pezzo del Movimento 5 Stelle si illudesse di lucrare un vantaggio politico portando il dissenso contro la legge Cartabia alle estreme conseguenze, rischierebbe di scoprirsi isolato”. Altro, quindi, che isolata la ministra della Giustizia o “della impunità”, come ormai la svillaneggia, fra titoli e fotomontaggi, il giornale “ufficioso” di Giuseppe Conte, secondo la definizione del Fatto Quotidiano da parte del notista e editorialista politico di Repubblica Stefano Folli. I 5 Stelle sarebbero isolati -ha scritto Breda- “anche rispetto ai sentimenti dell’opinione pubblica”, mostratasi in questi giorni così sensibile ai referendum promossi da leghisti e radicali sulla giustizia. Che hanno raccolto in pochi giorni centinaia di migliaia di firme. In un clima del genere una iniziativa di rottura dei grillini, ben oltre lo stesso dissenso espresso personalmente da Conte a Draghi, “non ferirebbe più di tanto la tenuta del governo”, ha osservato Breda.

Breda sul Corriere della Sera

            Ancora più incisivo ed esplicito risulta il richiamo del quirinalista del Corriere della Sera a come potrebbe reagire Mattarella a eventuali dimissioni del presidente del Consiglio per una rottura provocata dagli ultracontiani. “Se Draghi -ha avvertito Breda- contasse comunque su una maggioranza”, come non era accaduto a Conte dopo la crisi impostagli dalla componente renziana del suo secondo governo, ”avrebbe dal Quirinale un via libera per continuare il suo lavoro”. E Conte probabilmente fallirebbe da nuovo capo del MoVimento 5 Stelle prima ancora di diventarlo formalmente, pur essendo stato rimesso in pista da Grillo con quella spigola mangiata insieme in un ristorante davanti alla sabbia e al mare di Bibbona. Dove il comico, fondatore, garante, elevato e quant’altro del movimento tiene casa estiva.

             Sarebbe per Conte, bisogna ammetterlo, l’epilogo peggiore, quasi la conferma del giudizio liquidatorio espresso su di lui da Grillo con battute e battutacce al deposito delle bozze del nuovo statuto predisposte in più di quattro mesi di lavoro di cosiddetta e presunta rifondazione del movimento.

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Un pò modesto, diciamo la verità, il risultato della visita di Conte a Draghi

Titolo della Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

            Per non sembrarvi prevenuto nel riferirvi del tanto atteso incontro di Mario Draghi con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, dopo la riammissione dell’ex presidente del Consiglio ai giochi interni al Movimento 5 Stelle per dividerne la guida col garante e fondatore Beppe Grillo, e in vista della riforma del processo penale con le modifiche varate all’unanimità dal Consiglio dei Ministri, vi offrirò un po’ di titoli di giornali di diverso orientamento politico cominciando dai due maggiori: il Corriere della Sera e la Repubblica. “Le garanzie (a metà) arrivate dall’ex premier” a Draghi proprio sulla riforma del processo penale, e in particolare della prescrizione, ha titolato il Corriere notando però con la firma di Massimo Franco che “gli avvertimenti” di Conte, notoriamente critico sulle modifiche del governo alla legge all’esame della Camera, “vanno tarati” perché “più delle parole peseranno i comportamenti”. Ancora più netto è stato Stefano Folli su Repubblica scrivendo che “l’uomo che doveva “sfidare Draghi”, come lo incitava a fare il suo organo di stampa ufficioso, ha rinfoderato in fretta le armi” con “realismo inevitabile”. Che è stato il titolo del commento.

Titolo del Giornale
Titolo della Stampa

            Di “pace fredda” fra Conte e Draghi  ha parlato La Stampa, mentre Il Giornale della famiglia Berlusconi ha sparato senza indugio un titolo forte su tutta la prima pagina come “il flop di Conte”. Il quale se è andato a Palazzo Chigi per menare ne sarebbe uscito menato, o quasi, a dispetto della soddisfazione ostentata in pubblico, sotto quello che fu in qualche modo il suo balcone, per un incontro di 40 minuti “proficuo e cordiale”.

Titolo del Foglio
Titolo della Verità

            “Giuseppi abbaia ma non può mordere”, ha titolato Maurizio Belpietro sulla sua Verità disponendo, credo, delle stesse notizie che hanno permesso al Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa di riferire che Conte ha dovuto in fondo adattarsi alle ragioni, alla fretta e a quant’altro di Draghi in modo tale da “scontentare gli estremisti del M5S”. Che evidentemente lo avevano preso in parola sentendolo annunciare una specie di resistenza ad oltranza ad un’azione di governo dettata dalla volontà delle componenti di centrodestra di azzerare o quasi tutte le riforme volute dai pentastellati. Ma alcune delle quali, come la prescrizione breve voluta dall’allora ministro grillino della Giustizia Alfonso Bonafede, passarono a suo tempo grazie alla complicità dei leghisti, partecipi del primo governo Conte.

Titolo del Riformista
Titolo del Tempo

            “Conte non strappa quasi nulla da super Mario”, ha titolato Il Tempo, in sintonia con la sensazione del Riformista che vi sia stato fra i due un “muro”, quello di Draghi, contro un “muretto”, quello di Conte, evidentemente consapevole che ormai “Cartabia non si tocca”, dopo la “mediazione” che la guardasigilli in persona è tornata d’altronde a ricordare ieri di avere condotto e concluso col voto unanime dei ministri, compresi quelli grillini, che Conte vorrebbe ora smentire.

Fotomomtaggio del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

            Al Fatto Quotidiano, infine, il giornale “ufficioso” di Conte cui alludeva Folli su Repubblica, non potendo cantare o prenotare una vittoria si sono consolati, fra titolo e fotomontaggio, con una notizia, indiscrezione e quant’altro tutta da verificare: un “allarme dal Colle”, cioè dal Quirinale, per la possibilità che con la riforma Cartabia sia il Parlamento a dettare alle Procure le priorità d’indagine nell’esercizio obbligatorio dell’azione penale prescritto dalla Costituzione. Conte quindi non sarebbe “solo” a mettersi o volersi mettere di traverso sulla strada di Draghi e Cartabia. Chi vivrà vedrà, come giustamente si dice quando non si hanno certezze.

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Chi ha paura dell’elezione di Marta Cartabia alla Presidenza della Repubblica

Che bello, almeno per uno della mia età e delle mie opinioni o preferenze politiche, il ritorno alla cosiddetta prima Repubblica che ho intravisto nella campagna prima velata e ora aperta, esplicita del Fatto Quotidiano contro la possibilità che la ministra della Giustizia Marta Cartabia venga eletta presidente della Repubblica alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. L’età che l’ha, con i 58 anni compiuti a maggio, otto in più del minimo prescritto dalla Costituzione, l’autorevolezza pure dopo essere stata presidente della Corte Costituzionale. Ed ha anche il vantaggio di poter essere la prima donna a salire al vertice dello Stato, essendosi altre fermate alle presidenze delle Camere: prima Nilde Jotti e Laura Boldrini a Montecitorio e tre anni fa Maria Elisabetta Casellati al Senato.

            Anche nella cosiddetta prima Repubblica le gare al Quirinale cominciavano ben prima della convocazione delle Camere e dei delegati regionali per eleggere il nuovo capo dello Stato. A volte cominciavano prima ancora degli attuali sei mesi e poco più, fra ipotesi probabili o improbabili, candidature esplicite proposte dai più volenterosi o maliziosi e autocandidature implicite o silenziose, o soli processi alle intenzioni se improntati a preoccupazioni, e non ad auspici.

            Addirittura nel 1992, quando una lunga, estenuante corsa al Colle più alto di Roma fu sbloccata da una strage -quella  mafiosa di Capaci, che costò la vita a Giovanni Falcone, alla moglie e alla scorta, con un solo superstite- e si risolse in un rapidissimo confronto dietro le quinte fra i presidenti delle Camere, per una cosiddetta soluzione istituzionale, raccolsi personalmente la candidatura dello sconfitto alla corsa successiva, dopo sette anni.

Giovanni Spadolini

Il repubblicano Giovanni Spadolini, al quale il Pds-ex Pci aveva preferito il democristiano Oscar Luigi Scalfaro, cui certamente la Dc guidata da Arnaldo Forlani non poteva dire no, accettando poi che alla presidenza della Camera gli subentrasse Giorgio Napolitano, rispose pressappoco così al rammarico che gli espressi per telefono: “Caro Francesco, ero talmente sicuro di farcela da avere preparato il discorso di insediamento, essendo peraltro il presidente supplente per le dimissioni di Cossiga. Ma mi consolo pensando che fra sette anni avrò la stessa età di Scalfaro appena eletto”. Grande, indimenticabile, ottimista e legittimamente ambizioso Spadolini, che non poteva immaginare il tumore  probabilmente già in agguato, destinato a portarcelo via dopo due anni e un’altra delusione: la mancata conferma per un voto alla presidenza del Senato nel 1994. Fu l’anno di nascita della cosiddetta seconda Repubblica con la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi e l’approdo di Carlo Scognamiglio al vertice di Palazzo Madama. Lo stesso Berlusconi, a disagio per la ragione politica prevalsa sui sentimenti personali, cercò di riparare facendo assegnare la presidenza della sua Mondadori a Spadolini.

Aldo Moro e Amintore Fanfani

            Non vi fu leader della prima Repubblica, specie fra i mancati presidenti come Amintore Fanfani e Aldo Moro, in ordine rigorosamente alfabetico e d’età, che non si lasciò tentare, a dispetto di un disinteresse formalmente ostentato, dall’idea di allenarsi con largo anticipo alle varie edizioni della corsa al Quirinale. La presidenza del Senato che Fanfani volle e ottenne dopo le elezioni politiche del 1968 fu subito e generalmente interpretata come una prenotazione della presidenza della Repubblica, in vista della non vicina scadenza del mandato di Giuseppe Saragat, alla fine del 1971.

La “strategia dell’attenzione” proposta nei riguardi del Pci nell’autunno di quello stesso 1968 da Moro, appena detronizzato da Palazzo Chigi, fu altrettanto generalmente, e forse non a torto, interpretata come una contro-prenotazione del Quirinale.

Poi Fanfani avrebbe corso davvero per conto del suo partito senza riuscire però ad essere eletto per l’ostinazione dei “franchi tiratori” della Dc contro di lui. E Moro non sarebbe riuscito neppure  a subentrargli come candidato nell’aula di Montecitorio perché i “grandi elettori” democristiani a scrutinio segreto, e per meno di dieci voti, gli avrebbero preferito Giovanni Leone. Che Moro ordinò ai suoi amici, uno per uno chiamandoli al telefono, di votare disciplinatamente, consentendone l’elezione alla vigilia di Natale.

Dal Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

            Marta Cartabia, per arrivare ai giorni nostri, e non ricordo neppure a quale edizione di questa nostra Repubblica, non si è proposta a niente e a nessuno. Si è solo proposta come guardasigilli, sostenuta fortemente dal presidente del Consiglio Mario Draghi, di riformare la prescrizione breve del suo predecessore pentastellato Alfonso Bonafede. Che, esaurendosi al primo grado di giudizio, lascerebbe gli imputati a vita.  La ministra ha predisposto invece, con una modifica alla riforma del processo penale all’esame della Camera, la improcedibilità dopo due o tre anni di attesa inutile della sentenza d’appello e dodici o diciotto mesi di attesa inutile della sentenza di Cassazione, secondo la gravità dei reati contestati dall’accusa. Questa riforma, che finalmente realizzerebbe la genericamente “ragionevole durata” dei processi sancita nell’articolo 111 della Costituzione, è bastata e avanzata all’ostilissimo Fatto Quotidiano per attribuire alla ministra la volontà o possibilità di essere eletta al Quirinale con i voti del centrodestra, evidentemente in alternativa al già e ancor più odiato Silvio Berlusconi in persona. Che avrebbe francamente qualche difficoltà in più, diciamo così, di farcela rispetto alla ministra. E forse egli è il primo a saperlo, nonostante certi avversari lo ritengano così sprovveduto da averci fatto davvero un pensierino.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 25 luglio

Il ritorno di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi….come ospite di Mario Draghi

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo del Giornale

            Non so francamente se e quanto abbia esagerato Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere dellaSera a rappresentare la nostalgia, il risentimento e quant’altro di Giuseppe Conte nel suo ritorno a Palazzo Chigi per l’annunciato incontro con Mario Draghi. Sulla cui scrivania, che è stata la sua per più di due anni e mezzo, il vignettista ha immaginato Conte in ginocchio a pulire e girare verso di sé il computer del presidente del Consiglio, mentre Draghi lo contempla sorridente e comprensivo. Non so  neppure se abbia più esagerato Antonio Socci, sul Giornale della famiglia Berlusconi, a definire “leader rancoroso” l’ospite di Palazzo Chigi o il solito Fatto Quotidiano a definire quello di Conte il “primo incontro da capo”, in rosso, con Draghi: capo, naturalmente, del Movimento 5 Stelle, ma per ora soltanto rimesso in corsa da Grillo dopo pesanti giudizi liquidatori e un pranzo di riconciliazione.

Titolo del Fatto Quotidiano

            Nella sua ormai consolidata solidarietà con l’ingiustamente ex presidente del Consiglio, vittima di un omicidio politico quale sarebbe stata la crisi del suo secondo governo, il giornale di Marco Travaglio ha assegnato d’ufficio a Conte per l’incontro di oggi con Draghi in difesa delle “sue” riforme ora minacciate “la sponda” del segretario del Pd Enrico Letta: in particolare, sul tema della prescrizione, o della “improcedibilità” processuale, come preferisce chiamarla la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Con la quale invece Draghi ha notoriamente fatto blocco strappando ai ministri pentastellati con un presunto aiuto telefonico di Grillo il sì in una difficile seduta del governo promossa per il varo delle modifiche da proporre al disegno di legge di riforma del processo penale all’esame della commissione Giustizia della Camera, ma atteso in aula venerdì prossimo.

Titolo del Corriere della Sera

            Più che una spalla, in verità, quella offerta o garantita dal Pd all’agitatissimo Conte non sembra neppure una mano leggendo l’intervista al Corriere della Sera, pubblicata proprio oggi, con Alfredo Bazoli, capogruppo del partito di Enrico Letta nella Commissione Giustizia di Montecitorio. Il quale ha spiegato i “piccoli aggiustamenti” che intende proporre in commissione negli ultimi giorni a sua disposizione, e non in aula, ha precisato. Dove invece Conte spera di potere riaprire la partita, anzi farla riaprire dagli amici, non essendo lui parlamentare,  se il governo dovesse ancora resistere in commissione.

Bazoli al Corriere
Alfredo Bazoli al Corriere

            I piccoli aggiustamenti, che hanno perso l’aggettivo nel generoso titolo del Corriere della Sera, consisterebbero in una “entrata in vigore più morbida”  della nuova prescrizione o- ripeto- improcedibilità: una graduale applicazione anche per consentire di “verificare l’effettivo arrivo del personale aggiuntivo nelle sedi più in difficoltà”. Dove si teme che 2 o 3 anni per l’appello e 12 o 18 mesi per la Cassazione, secondo i reati, siano tempi troppo stretti per essere rispettati con gli organici attuali.

            A proposito della lista dei reati cui applicare i 2  o 3  anni o i 12 e 18 mesi, Bazoli ha parlato della possibilità o di aumentare ancora la lista di quelli più gravi o di eliminarla del tutto, lasciando “valutare al giudice la complessità del processo per il quale possa decidere l’allungamento dei tempi necessari alla sentenza”. Oltre quindi il Pd non risulta che sia disposto a spendersi, e sempre che siano d’accordo Draghi e la ministra Cartabia. Che sono peraltro preoccupati degli emendamenti di segno opposto che potrebbero essere proposti per bilanciamento politico dalle componenti di centrodestra della  maggioranza di governo.

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Conte in maniche rivoltate di camicia, senza la pistola preferita da Travaglio

            Lui, Giuseppe Conte, fresco ancora di spigola e di vermentino consumati a tavola con Beppe Grillo, in un video si è riproposto in maniche rivoltate di camicia per festeggiare il nuovo statuto del MoVimento 5 Stelle, di 25 articoli e 39 pagine, sicuro evidentemente che sarà approvato nelle votazioni digitali del 2 e 3 agosto indette sulla piattaforma Sky vote. Cui seguiranno rapidamente quelle per la sostanziale ratifica della sua nomina a presidente alla fine ingoiata dal fondatore e garante. Che da buon genovese, e comico di professione, si è a suo modo vendicato facendo pagare al professore e avvocato il conto del pranzo di riconciliazione davanti al mare di Bibbona.

Titolo del Giornale
Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

            Loro, i sostenitori più rumorosi di Conte, che confezionano ogni giorno Il Fatto Quotidiano, hanno preferito proporlo, immaginarlo, raffigurarlo con la pistola in mano nel duello di fuoco con Mario Draghi. Che si sarebbe quindi incautamente avventurato a invitarlo a Palazzo Chigi per il primo incontro dopo lo scambio delle consegne in febbraio. Sarà nelle previsioni di Marco Travaglio e amici l’incontro della “sfida”, come da titolo di prima pagina, ben in competizione col “boicottaggio” preferito dal Giornale berlusconiano e la “minaccia” gridata dalla Verità.

Copertina dell’Espresso

            Eppure nel nuovo statuto, predisposto dal comitato dei setti saggi incaricato da Grillo di modificare il testo “seicentesco” delle bozze ultimativamente consegnate da Grillo una ventina di giorni fa, si trova la buona volontà di ripudiare, almeno all’interno del MoVimento, “espressioni aggressive”. Che dovrebbero equivalere anche alle immagini per chi preferisce comunicare in questo modo, ricorrendo a vignette e fotomontaggi come quello già ricordato dagli amici del Fatto, o la copertina dell’Espresso. Dove Conte e Grillo sono “di botte e di governo”  sullo sfondo di un sardonico Draghi, evidentemente fiducioso di essere il terzo che gode.

Titolo della Stampa

            Che Grillo e Conte, nonostante la spigola, il vermentino, il dolce e quant’altro pagati, ripeto, dall’ex presidente del Consiglio siano destinati a continuare a scontrarsi – e neppure tanto dietro le quinte, data la incontenibilità degli scatti d’ira del garante rimasto a vita nel nuovo statuto, mentre il presidente dura quattro anni rinnovabili almeno una volta- sono in molti a ritenerlo. E non solo il giornale di Carlo De Benedetti –Domani– col titolo liquidatorio su Conte che “fa il leader” e Grillo che “comanda”. Altro, quindi, che i “pieni poteri” immaginati dall’ex presidente del Consiglio e generosamente attribuitigli tra prudenti virgolette dalla Stampa.

Titolo di Domani

            Arroccato, almeno a parole, in difesa delle riforme del suo primo governo a maggioranza gialloverde, che sono il costoso reddito di cittadinanza – con tutti gli abusi truffaldini che si scoprono- e la prescrizione valida solo sino al primo grado di giudizio, rispettivamente compromesse dalle iniziative allo studio o già assunte dall’attuale governo, Conte deve pur contare sull’aiuto di qualcuno nella maggioranza per prevalere e non soccombere, o non fare solo campagne di testimonianza, ad astensione garantita. Così d’altronde avevano cercato di fare in Consiglio dei Ministri i pentastellati con le modifiche della ministra della Giustizia Marta Cartabia alla riforma del processo penale, prima che intervenisse Grillo al telefono per metterli praticamente in riga. Almeno sinora, a parte i soliti Pier Luigi Bersani e compagni dalle sponde dei “liberi e uguali”, non pare che siano giunti a Conte molti segnali di incoraggiamento.  

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Conte si allena all’incontro con Draghi dopo il patto della spigola con Grillo

Dalla prima pagina della Stampa
Titolo della Stampa

            La Stampa attribuisce in prima pagina a Giuseppe Conte queste parole che intende dire a Mario Draghi a Palazzo Chigi, e avrebbe anticipato a “collaboratori, ministri e parlamentari” pentastellati incontrati o sentiti prima e dopo l’incontro conviviale con Beppe Grillo in un ristorante di Marina di Bibbiano: “Non si può chiedere ogni volta al movimento 5 stelle di suicidarsi, di votare in maniera quasi sistematica lo smantellamento delle sue stesse riforme”.

            L’ultimo “suicidio” che Draghi avrebbe chiesto al MoVimento di cui Conte è tornato a sperare di potere finalmente diventare presidente col “patto della spigola” o “del vermentino” strappato a Grillo pagando il conto del pranzo in Toscana, è quello sulla prescrizione predisposta sotto forma di “improcedibilità” dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. E votata in Consiglio dei Ministri dai pentastellati dopo una telefonata non smentita di Draghi in persona a Grillo e telefonate di Grillo, neppure esse smentite, ai rappresentanti delle 5 Stelle al governo troppo tentati dall’astensione critica.

Titolo del Fatto Quotidiano

            Della prescrizione Cartabia, chiamiamola così, progettata dal governo come modifica al disegno di legge di riforma del processo penale all’esame della Camera, il cui approdo in aula è stato annunciato per il 23 luglio con tanto di decisione presa dalla conferenza dei capigruppo, ogni giorno Il Fatto Quotidiano descrive, annuncia, stigmatizza, come preferite, gli effetti perversi addirittura applicandoli a vicende giudiziarie già concluse con condanne definitive. Oggi il turno è toccato ai condannati per il G8 di venti anni fa a Genova, che sarebbero rimasti “tutti impuniti” con i tempi proposti dalla Cartabia per la decadenza dei processi oltre il primo grado di giudizio: tempi che sono dai due ai tre anni per l’appello, secondo la gravità dei reati, e dai dodici ai diciotto mesi per il passaggio attraverso la Cassazione.

            Nella curiosa inversione di ruoli verificatasi almeno nell’immaginario collettivo, con Grillo in veste di moderato e governativo e Conte in veste di oltranzista, l’ex presidente del Consiglio o coltiva davvero il disegno attribuitogli ma da lui smentito di provocare una crisi nel cosiddetto semestre bianco che comincerà nei primi giorni di agosto, quando il presidente della Repubblica in caso di crisi non potrà usare il potere di sciogliere le Camere essendo al termine del suo mandato, o pensa di trovare qualche sponda nel Pd. Dove però le cose sono un po’ cambiate, diciamo così, dai giorni in cui l’allora segretario Nicola Zingaretti si lasciava attribuire durante la crisi del secondo governo del professore e avvocato pugliese lo slogan “Conte o morte”. Egli non prevedeva evidentemente il ricorso del Capo dello Stato a Mario Draghi per la formazione di un nuovo esecutivo.

Dal manifesto
Goffredo Bettini sul Foglio

            Persino Goffredo Bettini, che gli era diventato nel Pd il consigliere e l’amico più generoso, lasciandosi intervistare ogni giorno per sottolinearne le qualità e sostenerne la conferma a Palazzo Chigi, ha cambiato musica. Adesso anche lui, dissentendo esplicitamente dalle posizioni assunte proprio sui temi della giustizia, si mostra preoccupato della piega presa dagli sviluppi della situazione all’interno del MoVimento 5 Stelle se di recente sul Foglio  ha espresso l’auspicio che lo stesso Conte non si riduca “paradossalmente a una enclave minoritaria”.  D’altronde, al manifesto, dove non mancano buoni informatori, non risulta che a Bibbiano, nell’incontro comicizzato da Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, Conte abbia ricevuto un mandato a rompere con Draghi.

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