E’ clamoroso -sia per il clima natalizio che ci avvolge sia per le abitudini, le tradizioni e quant’altro della storica testata milanese di via Solferino- il processo politico del Corriere
della Sera al presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e al senatore a vita Mario Monti, peraltro illustre collaboratore dello stesso giornale, per le
condizioni a dir poco gravissime in cui si trova la democrazia italiana: un processo affidato allo storico Ernesto Galli della Loggia. Che in un editoriale titolato sul “grande bisogno di verità” necessario alla comunità nazionale si è iscritto di fatto a quel 48,2 per cento degli italiani, certificato recentemente dal Censis, che vuole “l’uomo forte”.
“Aspettiamo qualcuno- un uomo, una donna, un’idea, un partito, un movimento, un governo- in grado di interrompere la girandola del nulla che è diventata la nostra vita politica e di resuscitare lo Stato in via di decomposizione nel quale ci tocca vivere”, ha scritto l’editorialista del Corriere.
Lo aspettiamo, in particolare, secondo lo storico, dal 2011. Fu allora che il capo dello Stato Napolitano non volle mandare gli italiani alle urne, sciogliendo anticipatamente le Camere, di fronte al “naufragio del berlusconismo”. Ad una sicura vittoria del Pd, guidato da Pier Luigi Bersani, il presidente della Repubblica avrebbe commesso l’errore di preferire l’epilogo ordinario della legislatura col governo tecnico di Mario Monti, preventivamente munito
del laticlavio. E Monti, pur “padrone per sei mesi virtualmente del Parlamento”, paralizzato dalla paura della crisi finanziaria, finì per “impantanarsi” pure lui nell’implacabile routine del buropoliticismo italiano”, sino a cadere nella tentazione -che Galli della Loggia ha cortesemente evitato di rimproverargli, forse per solidarietà accademica o di testata- di improvvisare un partito per partecipare alle elezioni del 2013. Che, a dire la verità, come Monti ha più volte rivendicato come merito, servì a frenare la ripresa elettorale e politica del “naufrago” Berlusconi, impedendogli di conquistare il Quirinale alla scadenza del primo mandato di Napolitano.
Curiosamente -anche questo va detto- l’esigentissimo storico editorialista del Corriere ha risparmiato nel suo processo l’allora segretario del Pd Bersani. Il quale aveva i mezzi, se lo avesse davvero voluto, per contrastare il suo vecchio compagno di partito Napolitano nel rifiuto di scogliere le Camere e di fargli vincere, in quel momento, le elezioni, prima che Berlusconi potesse riorganizzare le sue truppe ed altre -quelle grilline- potessero prendere la consistenza che le avrebbe portate nel 2018 alla vittoria e al governo. E ciò, per giunta, non dico con l’aiuto consapevole e diretto del professore Galli della Loggia, ma con un suo aiutino inconsapevole di certo, avendo egli contribuito mediaticamente ed elettoralmente alla conquista grillina del Campidoglio da parte di Virginia Raggi nel ballottaggio col sicuramente più esperto e attrezzato concorrente Roberto Giachetti, candidato del Pd. Era il 2016.
Seguì dopo due anni la vittoria pentastellata nelle elezioni politiche del 2018, anch’esse volute alla scadenza ordinaria dal successore di Napolitano, l’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, respingendo la richiesta di uno scioglimento anticipato delle Camere avanzata da Matteo Renzi come segretario del Pd dopo avere perduto come presidente del Consiglio il referendum sulla riforma costituzionale portante praticamente il suo nome. Eppure quella riforma era diventata il tema centrale, qualificante della difficile legislatura cominciata nel 2013 con le cosiddette larghe intese realizzatesi attorno al governo di Enrico Letta.
Di tutto questo ha certamente cognizione, anche più di me, per carità, il professore Ernesto Galli della Loggia. Che tuttavia ha ritenuto di far cominciare nel 2011 la sostanziale rovina, o almeno crisi, della politica italiana, senza andare né più avanti né più indietro, magari alla stagione di Tangentopoli, affrontata dai partiti e, più in generale, dalla cosiddetta intelligenza del Paese in modo così approssimativo e populista -si direbbe oggi- da rovesciare i rapporti fra i poteri dello Stato a tutto vantaggio di quello giudiziario. Che peraltro, come
ammoniva inutilmente l’allora capo dello Stato Francesco Cossiga, non è neppure un potere, ma “un ordine”, sia pure “autonomo e indipendente da ogni altro potere”, com’è scritto nel titolo quarto della Costituzione sulla magistratura, più particolarmente nell’articolo 104. E Cossiga, peraltro professore universitario di diritto costituzionale, parlava in quel modo anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma chi sono io, forse, se non un semplice e vecchio giornalista, per ricordare tutto questo al più giovane, o meno anziano, professore editorialista del Corriere della Sera, che ha 77 anni?
Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it
senza intese, che saranno cercate dai contendenti dietro le quinte di Palazzo Chigi e dintorni, con la consueta tolleranza del presidente della Repubblica in attesa del postino al Quirinale, è quel dito medio di Umberto Bossi al congresso di “rottamazione” della sua Lega Nord, come è stato generalmente raccontato sui giornali, a rappresentare emblematicamente la scena politica. Il dito medio di protesta, poi, contro chi e che cosa?
Altre cronache infatti riferiscono di un Bossi che ha riconosciuto al suo pur non diretto successore, essendoci stato fra i due l’interregno di Roberto Maroni, il merito di essere “uno di quelli che vogliono combattere ancora”, per cui il movimento leghista si potrebbe considerare “in buone mani”. Tanto buone, aggiungerei, che lo stesso Bossi ha detto, pur col suo stile spavaldo sopravvissuto a tutti i malanni che lo hanno colpito e ne rendono quasi incomprensibili le parole, di avere “concesso” al suo Matteo tutto quello che gli ha dato, cioè i pieni poteri, senza esservi stato minimamente costretto. Ciò che rimane sulla carta e sul resto, d’altronde, della vecchia Lega Nord, comprese le nuove preoccupazioni espresse dal fondatore per l’invasione del Nord da parte dei meridionali, paragonabile a quella dell’Italia intera da parte dei migranti provenienti dall’Africa, sarà pur sempre presieduto a vita da Bossi, pur nelle ristrettezze economiche derivanti dal debito rateizzatissimo di 49 milioni di euro sancito dalla magistratura per le note gestioni pasticciate dell’allora finanziamento pubblico dei partiti.
stesso della sua Lega, da averlo portato nelle elezioni europee del 26 maggio scorso in testa alla graduatoria dei partiti, lasciandovelo nelle successive elezioni locali e nei sondaggi, l’ultimo dei quali appena pubblicato sul Corriere della Sera. Se così fosse, specie alla luce della sua ennesima scivolata antimeridionalistica sul perdurante pericolo di una invasione del sacro Nord da parte dei terrun, ci sarebbe solo da mettersi nei mani fra i capelli, almeno per chi ne ha ancora, di fronte al livello cui Bossi ha contribuito a far scendere il livello della politica italiana.
dicendo di avere ben conservato nei suoi archivi elettronici, diciamo così, le prove dei contatti avuti con Conte ed altri colleghi allora di governo nella gestione della vicenda, anche se non risultano tracce di discussioni avvenute in Consiglio dei Ministri.
procurarsi l’ex titolare del Viminale con i suoi abituali atteggiamenti e toni da sfida, di una intensità inversamente proporzionale alle distanze che lo separano dall’appuntamento elettorale di turno. Che stavolta, con le votazioni regionali del 26 gennaio in Calabria e in Emilia-Romagna, rischia di accavallarsi con la fase conclusiva e decisiva del percorso parlamentare della richiesta giudiziaria partita da Catania.
Conte. Che, sfiancato dalle continue polemiche col suo allora e ancora per un po’ vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, in un momento di spontaneità scambiato da qualcuno anche per una gaffe di Stato, si lamentò pubblicamente nella scorsa estate delle ore trascorse al telefono nei week con i suoi omologhi europei. Ai quali chiedeva “il piacere personale” di prendersi in carico una parte dei migranti trattenuti sulle navi di soccorso dal blocco dei porti italiani disposto dal Viminale a tutela dei confini, della sicurezza e quant’altro.
dall’aldilà come autori, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, in ordine rigorosamente alfabetico, sono dunque diventati finalmente, e davvero, i carissimi nemici d’altronde anch’essi anticipati in qualche murale durante la loro movimentata e comune avventura di governo.
per tre notti su una nave per giunta della Guardia Costiera italiana, nell’esercizio abusivo delle funzioni allora di ministro dell’Interno. Di Maio invece si è offerto come testimone a carico nella sua triplice veste, nel non lontano mese di luglio di quest’anno, di vice presidente del Consiglio e di ministro del pur mancato Sviluppo Economico, stando almeno ai dati dell’Istat, e del pur carente Lavoro.
gravi, saranno una quindicina. Sono sei invece gli anni che rischia Di Maio per falsa testimonianza, avendo Salvini ripetuto col presunto sequestro di migranti sulla nave di luglio le stesse cose fatte l’anno prima su un’altra nave, anch’essa militare, a salvaguardia di un interesse nazionale superiore certificato dal medesimo governo, non da un altro.
Ma non era sicuramente quello vivente, a grandezza d’uomo e di donna, allestito nei salone dei Corazzieri per il tradizionale scambio d’auguri del presidente della Repubblica con “i rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e della società civile”, salite sul colle dopo i diplomatici stranieri accreditati in Italia.
e lo stesso Mattarella si sono amichevolmente salutati. O lui si è lasciato suggerire dall’amico Giuliano Amato, già presidente del Consiglio ed altre cose, oggi giudice costituzionale, di “stare alla larga” da ogni tentazione di interrompere la pausa guadagnatasi con la fine del mandato di presidente della Banca Centrale Europea, magari prendendosi una bella e lunga vacanza in Florida. “Non c’è rischio, Stai sicuro”, gli ha risposto Draghi con voce abbastanza alta e sicura per non sfuggire ai vicini.
alla cosiddetta terza Camera, che è il salotto televisivo di Bruno Vespa, che Salvini si dovrà praticamente trovare un’altra maggioranza, se mai vi riuscirà, per scampare anche a questo processo richiesto dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, E ciò per presunte, intervenute novità intervenute nelle procedure di assegnazione dei migranti fra i paesi europei: movità smentite dal fatto che il più delle volte questi impegni sono rimasti e rimangono disattesi. Ma simili considerazioni valgono niente quando la politica prevale nel suo spirito più belluino, cioè quando la morte dell’avversario è scambiata per la propria salvezza, o solo per il proprio, sia pure momentaneo e caduco vantaggio.
prima dell’arrivo dei pentastellati in Parlamento e ora sta inevitabilmente e conseguentemente peggio. Ma noi giornalisti -ripeto- dovremmo pur deciderci a qualche scelta nei rapporti con questo singolare protagonista ormai della politica, pur chiuso dietro i cancelli delle sue ville e ogni tanto a Roma per le missioni di controllo, persuasione e altro ancora.
evidentemente a denominazione e purezza controlla, si è sentito in obbligo di andare ad omaggiare in un convegno a due passi da Palazzo Chigi, tra una riunione e l’altra di una maggioranza e persino di un governo spesso surreale, composto da partiti e uomini che se ne dicono e scambiano di tutti i colori, sopra e sotto il tavolo.
l pur attivissimo e ostinato Dario Franceschini. Che magari, secondo retroscena poi contraddetti dagli sviluppi delle trattative, avrebbe preferito il nuovo governo presieduto dal pentastellato Roberto Fico, e non dal “continuista” Conte, per prenderne il posto alla presidenza della Camera.
anche nella versione di una specie di governissimo costituente, o qualcosa del genere, di Mario Draghi prospettato con varie interviste dall’ex sottosegretario a Palazzo Chigi e ora solo vice segretario della Lega Giancarlo Giorgetti, ma evidentemente vale la pena parteciparvi a livello dialettico, diciamo così.
e di allontanarsi da Roma. Ora, per esempio, mentre scrivo, è in Libia: altro che l’Albania preferita qualche giorno fa ad un pur difficile appuntamento del governo col Senato sulla questione controversa del fondo europeo salva-Stati, o Mes.
sinistra occupata qualche mese fa dal centrodestra a trazione leghista, lo abbiano fatto solo per un dispetto a Mario Ajello. Che sul Messaggero li aveva appena sfottuti come “ragazzi d’ordine”, figli o nipoti della sinistra imborghesita che ormai da tempo prende più voti nei quartieri centrali delle città, quelli a traffico limitato, che nelle periferie. Dove vanno invece alla grande Matteo Salvini e Giorgia Meloni, appena paragonati addirittura a Hitler da un Michele Santoro
tanto affascinato dalle sardine da offrirsi ad aiutarle in qualche modo, semmai la Rai o altre aziende televisive gliene dessero l’occasione restituendogli la conduzione di qualche trasmissione delle sue. Così potrebbe peraltro fare concorrenza a Riccardo Formigli, l’ex allievo che lo ha superato con Piazzapulita: tutta una parola, naturalmente.
c’è un modo per dare una mano a Salvini e, più in generale, alla destra è quello di battersi
per le occupazioni abusive e contro gli sgomberi, con la e. Lo ha riconosciuto persino il capo ancora dei grillini, Luigi Di Maio, reduce dall’insediamento dei suoi sei “facilitatori” e dall’ingoio anche del decreto legge di salvataggio della Banca Popolare di Bari, parlando di “una falsa partenza” delle sardine proprio con quella scelta di ospitalità nell’edificio occupato.
di panni moderati chiedendo per il salvataggio del Paese un “comitato di salvezza nazionale”, tradotto dal suo vice Giancarlo Giorgetti in un governo
di “tutti, da Leu a Fratelli d’Italia”, non guidato da Giuseppe Conte, neppure nella versione “Figo” sarcasticamente esposta sulla prima pagina dal Tempo, ma magari da quel “disoccupato” provvidenziale e di lusso che è Mario Draghi; per quanto spiazzate da tutto questo, dicevo, le sardine italiane radunatesi nella piazza romana di San Giovanni si sono riproposte nella versione emergenziale contro la destra incombente sul Paese.
diventare un manifesto negli appuntamenti successivi di questo “mare di sardine” promosso sul
campo ad “oceano” dal Fatto Quotidiano: sardine dipinte di rosso dagli stessi che le hanno sventolate in una piazza carissima del resto alla sinistra, per quanto violata ogni tanto dalla destra prima a trazione berlusconiana e ora a trazione leghista.
di resistenza alla destra” al suono e al canto, non a caso, della famosissima “Bella ciao”: una sinistra -ha precisato tuttavia l’editorialista del maggiore giornale italiano- al netto dei “rovesci elettorali, divisioni politiche, incertezze programmatiche” o equivoci, come quello appena lamentato, scusandosene, dallo stesso presidente del Consiglio. Che ha così spiegato, con la solita disinvoltura, il pasticcio di una seduta del governo contestata e disertata polemicamente dalla maggioranza dei ministri per il varo di un decreto legge di salvataggio della Banca Popolare di Bari. “Scuse accettate”, ha immediatamente risposto Matteo Renzi, che dall’esterno del governo era riuscito a portarsi appresso nella protesta i grillini reclamando più chiarezza e/o meno improvvisazione nella gestione di vicende delicate come quelle delle banche, affrontate pure da lui quando era a Palazzo Chigi, e non certamente senza polemiche.
supplicava Massimo D’Alema di dire “finalmente qualcosa di sinistra”, o ammoniva che la stessa sinistra, con i capi che si trovava ad avere, non sarebbe mai più tornata a vincere. “Invece vinse”, gli ha appena rinfacciato D’Alema in una lunga intervista attribuendosi il merito della sconfitta elettorale subita nel 2006 da Berlusconi. Che però-va ricordato anche questo- si prese dopo soli due anni la rivincita, per quanto l’ultima del centrodestra a sua conduzione.