Roberto Fico spiega che tempo fa (cattivo) nella maggioranza gialloverde

           Neppure il  festival della canzone a Sanremo riuscirà a contenere quello della politica. In cui i concorrenti sono sostanzialmente soltanto i due partiti al governo, visti i disturbi di voce, a dir poco, delle opposizioni.

          Un contributo fuori programma alle prestazioni del movimento delle 5 stelle è appena arrivato dal presidente della Camera Roberto Fico. Che, ospite con la sua barba d’immagine filosofica nell’omonima trasmissione televisiva a Rai uno, ha aiutato a capire “che tempo che fa” nel partito di Beppe Grillo: cattivo tempo, direi, per la Lega di Matteo Salvini e per il governo che li contiene entrambi. Un tempo ben peggiore di quello che ha coperto di neve e di fango l’autostrada del Brennero, a tal punto da annebbiare ancora una volta la memoria del ministro (grillino) delle infrastrutture Danilo Toninelli, facendogli coltivare il sogno dell’ennesima, palingenetica ma impossibile nazionalizzazione, essendo quell’arteria già prevalentemente pubblica, con l’ottantacinque per cento conferito agli enti locali.

          Fico tuttavia ha volato un po’ più alto di Toninelli, contendendogli le competenze solo in un passaggio fuggevole della sua prestazione televisiva, quando ha preso posizione contro la Tav, la  progettata linea ferroviaria di alta velocità per le merci da Lione a Torino. Che per i grillini -ha annunciato a distanza il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio- rimarrebbe “una supercazzola” anche nella versione light, diciamo così, offerta come compromesso da Salvini. Di Battista.jpgIl quale continua evidentemente nel ruolo di “rompicoglioni” contestatogli dal quasi gemello di Di Maio, Alessandro Di Battista, smanioso di un “ritorno” del leader leghista con Silvio Berlusconi.  Col quale, in verità, Salvini non mai rotto davvero, governando insieme regioni come la Lombardia, il Veneto e la Liguria. Ma non ha rotto davvero -direi- neppure a livello nazionale, nonostante il ruolo di opposizione assuntosi da Forza Italia in Parlamento, perché il ministro dell’Interno ricorda insistentemente il consenso ottenuto ad Arcore, dopo le elezioni politiche dell’anno scorso,  a “provare” a governare con i grillini, visto che non c’era altro da fare di fronte al rifiuto del capo dello Stato di rimandare gli italiani a votare: cosa, d’altronde, che neppure Berlusconi auspicava, tramortito com’era dal sorpasso subìto ad opera leghista all’interno del centrodestra.

            Forse il governo gialloverde sta durando oltre le previsioni del Cavaliere, che non a caso ha deciso di tenersi lontano dal Parlamento nazionale, dove avrebbe potuto tornare con qualche elezione suppletiva, facendo dimettere un fedelissimo eletto in qualche collegio uninominale, una volta riottenuta dalla magistratura la piena agibilità politica. Berlusconi ha invece preferito candidarsi al Parlamento Europeo e persino cercare casa a Bruxelles: l’ennesima della sua collezione immobiliare.

            Quanto potrà ancora durare il governo gialloverde, fra le liti e i pasticci che lo contrassegnano, nessuno francamente può dirlo con sicurezza. Ancora tanto, par di capire da Fico, che in televisione ne ha paragonato il percorso ad “una maratona di 42 chilometri”, accorciandone quindi il tracciato solo di 195 metri. Che potrebbero essere quelli della campagna elettorale certificata col decreto di scioglimento delle Camere, magari alla scadenza ordinaria, e il deposito delle liste.

             La parte grossa della prestazione televisiva di Fico nel salotto televisivo di Fabio Fazio è stata comunque quella dedicata alla posizione giudiziaria di Salvini, che il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, in realtà un organo collegiale di quello che per altri imputati è il  gip, cioè il giudice delle indagini preliminari, ha chiesto al Senato di poter rinviare a giudizio per i quattro-cinque giorni di “sequestro” o di “arresto” inferti nella scorsa estate a 170 e rotti immigrati soccorsi in mare dal pattugliatore della Guardia Costiera italiana Diciotti, ma trattenuti a bordo, nel porto etneo, per trattarne la ripartizione fra più paesi europei.

            Il problema ha notoriamente spaccato e spacca tuttora il movimento grillino, favorevole per principio a tutte le richieste della magistratura, senza sconti a e per nessuno, tanto meno per un alleato scomodo come si è rivelato Salvini. Che per almeno 20 delle 24 ore di una giornata sembra essere il vero capo del governo, esonerando dai suoi compiti il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ora grillino a tutti gli effetti, avendo aderito anche formalmente al movimento che lo ha portato a Palazzo Chigi.

              Sottrattosi a commenti sulla materia per qualche giorno, lasciando che fra i suoi compagni di partito si sviluppasse un certo dibattito sulla possibilità o meno di considerare la unicità, diciamo così, di una vicenda che va ben oltre le responsabilità personali e ministeriali di Salvini, il presidente della Camera ha deciso di intervenire nella partita. E lo ha fatto a gamba abbastanza tesa rivolgendo in giù il pollice della mano.

              “Se arrivasse una richiesta di giudicare me, pregherei i colleghi di dare il via libera”, ha detto Il Fatto.jpgtestualmente Fico pur esprimendo “rispetto sostanziale” e preventivo, bontà sua, per ogni decisione che assumerà il ramo del Parlamento cui lui non appartiene, e chiamato invece a pronunciarsi.  E Di Maio ha avvertito, cambiando quanto meno umore sul problema, che l’affare Diciotti, chiamiamolo così, è tutto ancora aperto per il suo comprimario di governo.

 

 

 

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Il governo gialloverde di Giuseppe Conte ormai come quel masso di Agordo

             A dispetto del “2019 bellissimo” annunciato dal presidente del Consiglio per esorcizzare la recessione “tecnica” intervenuta col secondo trimestre consecutivo contrassegnato dal segno meno per il prodotto interno lordo, dopo 14 contrassegnati dal segno più, le liti continue nella compagine ministeriale e nella maggioranza;  la confusione che producono;  il contrasto fra il 60 per cento che i due partiti della coalizione raccolgono insieme nei sondaggi cantando vittoria e il 54 per cento dei no che raccolgono le misure adottate per sconfiggere addirittura la povertà;  la diffidenza crescente a livello internazionale, dove Roma è riuscita a guadagnarsi i ringraziamenti del presidente venezuelano Nicolas MaduroNaduro.jpg fra le proteste dei tanti italiani che risiedono in quel paese sperimentandone la miseria e le violenze,  fanno apparire il governo di Giuseppe Conte e dei suoi due vice Luigi Di Maio e Matteo Salvini come quel masso caduto col maltempo di questi giorni sulla strada di Agordo, nel Bellunese.

             Non vi è problema, ormai neppure quello delle nomine, su cui grillini e leghisti avevano marciato per un po’ all’unisono spartendosi tutto il possibile, e superando in disinvoltura e rapidità anche i loro peggiori predecessori, su cui il governo non appaia, ma soprattutto non sia diviso. Anzi, profondamente diviso. E’ come se esso si fosse chiuso nella sua metà campo, visto anche che nell’altra metà la confusione è persino superiore, e giocasse da solo la partita scambiandosi le due parti che lo compongono i ruoli di maggioranza e di opposizione, I grillini giocano contro la porta leghista e i leghisti contro la porta grillina, segnando tra le grida, i fischi, gli applausi e gli insulti degli stessi giocatori, oltre alle tifoserie.

             Degli insulti, l’ultimo che si è sentito bello forte, ben stampato su molti giornali, a cominciare naturalmente dal Fatto Quotidiano, è quello di “rompicoglioni” lanciato contro Salvini dal grillinoDibba a Salvini.jpg onnipresente Alessandro Di Battista avendo accanto il per niente imbarazzato amico e vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio. Che d’altronde aveva appena finito di alludere proprio al comprimario di governo Salvini come loro punto di riferimento parlando dei “peggiori” gruppi di potere e di corruzione operanti nel paese e interessati alla realizzazione della Tav. O del Tav, come Marco Travaglio preferisce chiamare al maschile la linea ferroviaria ad alta velocità per il trasporto delle merci progettata fra Lione e Torino: una linea di cui esistono cantieri, uno dei quali appena visitato da Salvini, che i grillini non vedono e non sentono, pur partecipando alle dimostrazioni di protesta e agli assalti alle loro attrezzature, nonché alle forse dell’ordine che le proteggono.

            Quell’opera -aveva avvertito Di Maio prima che il suo amico desse del “rompicoglioni” a Salvini perché ne sostiene la realizzazione- “non esiste, non ha futuro”. E se al leader leghista, che insiste a sostenerla ma anche ad Eulli.jpgescludere – va detto- una crisi di governo su questo problema, non piacesse davvero questa posizione grillina, infiocchettata con i calcoli dei costi e dei benefici di una pubblicazione sempre imminente e rinviata, non  resterebbe che tornarsene da Silvio Berlusconi. “Glielo restituiamo”, ha detto Di Battista: sempre lui. E sempre accanto a Di Maio.

             E questo Altan.jpgsarebbe un governo. O, ripeto, un macigno? E fino a quando -mi chiedo a questo punto- con la tolleranza del presidente della Repubblica, fra una lettura e l’altra del vecchio e da lui giustamente preferito romanzo manzoniano dei Promessi Sposi? Dove Sergio Mattarella ha attinto più o meno recentemente quel richiamo sempre più attuale al buon senso ormai costretto a nascondersi sotto o dietro al senso comune.

 

 

 

 

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Trump è bizzarro ma non fesso. La Casa Bianca chiusa a Di Maio e Salvini

            I primi a fare le spese personali e politiche della pasticciata posizione italiana sulla crisi venezuelana sono gli stessi autori del pasticcio: i vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Che prima si sono scontrati sulla valutazione del presidente Nicolas Madero, il primoDi Maio.jpg difendendolo e il secondo no, e poi si sono trovati d’accordo nel contrastare a livello europeo – dall’astensione congiunta dei loro amici di partito nel Parlamento di Strasburgo al veto imposto alla diplomazia italiana nel vertice dei ministri degli Esteri dell’Unione a Bucarest- il riconoscimento del presidente ad interim Juan Gaidò, autoproclamatosi tale a Caracas reclamando elezioni finalmente corrette e garantite.  

            Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha cercato, come al solito, di mettere una pezza all’ennesima confusione esplosa nel suo governo dicendo che Maduro, confermato nel mese di maggio dell’anno scorso fra denunce di brogli e violenze, non è mai stato riconosciuto Salvini.jpgdall’Italia. Ma egli ha finito così per aggravare la situazione, in particolare nei rapporti con i grillini, sostenitori di Maduro. E ciò senza recuperare credito sul versante opposto, proprio mentre da Caracas giungeva una esplicita sollecitazione di Gaidò, che è anche presidente del Parlamento, a sostenerlo apertamente nel tentativo di fare uscire il suo Paese dal marasma in cui si trova. E di cui sono vittime, oltre che testimoni, più di centrotrentamila italiani che vi risiedono, per non parlare dei due milioni di oriundi.

           Ebbene, in questa situazione a Washington, dove il presidente Donald Trump si sta spendendo personalmente a favore del presidente ad interim del Venezuela, riconosciuto all’istante, si è bloccata la pratica diplomatica dei due viaggi programmati negli Stati Uniti, ciascuno per conto suo, dai due vice presidenti del Consiglio per questi mesi, nella prospettiva della campagna elettorale per le europee di maggio. Già difficile di sua per ragioni di cerimoniale, trattandosi di personalità politiche non al massimo livello, è definitivamente tramontata l’ipotesi anche solo di una foto di opportunità alla Casa Bianca di Di Maio e di Salvini con Trump. Di cui pertanto il leader leghista potrà continuare a disporre solo di un’immagine molto casuale con l’allora candidato alla Casa Bianca, che peraltro la commentò dicendo di non averne alcun ricordo.

           Sembra che dalla Casa Bianca siano anche partite verso gli uffici dipartimentali, cioè governativi, degli Stati Uniti raccomandazioni alla prudenza e al distacco verso gli ormai ingombranti ospiti italiani, ove dovessero veramente insistere nei loro programmi e sbarcare oltre Atlantico.

          Trump insomma, che pure ha avuto incontri e telefonate più volte nei mesi scorsi con Giuseppe Conte, chiamandolo Giuseppi, ha quanto meno cominciato a farsi sospettoso di quanto accade a Roma. Conte e Trumnp.jpgIl presidente americano è bizzarro -per esempio con quell’idea di murare i confini col Messico, spingendoli sino al mare, per respingerne i migranti- ma non è fesso. Le porte quanto meno della Casa Bianca ai due proconsoli del governo italiano sono chiuse, almeno per ora.

          Un segnale delle difficoltà insorte nella preparazione dei viaggi paralleli dei due vice presidenti del Consiglio negli Stati Uniti si è colto d’altronde in un giornale – Il Fatto Quotidiano- solitamente informato specie della componente grillina del governo e della sua maggioranza: una componente cui dispensa consigli, raccomandazioni e quant’altro, come ha appena fatto elencando dieci ragioni per le quali iIl Fatto dellì1-2-19.jpg senatori a cinque stelle non dovrebbero cedere alla tentazione di negare l’autorizzazione al processo a Salvini per sequestro di persona, abuso d’ufficio e altro ancora, chiesta dal cosiddetto tribunale dei ministri di Catania per l’affare noto come Diciotti. Che è notoriamente il pattugliatore della Guardia Costiera italiana a bordo del quale furono trattenuti per quattro giorni nella scorsa estate 170 migranti, regolarmente  soccorsi in mare ma che al Viminale si voleva che fossero preventivamente distribuiti fra vari paesi, alla fine riuscendovi, sia pure con successive complicazioni per la parte assuntasi dai vescovi italiani. “La missione in Usa è tutta in salita”, ha titolato ieri in prima pagina il giornale di Marco Travaglio richiamando un articolo sulle difficoltà, appunto, dei “viaggi gemelli” di Di Maio e Salvini negli Stati Uniti.

 

 

 

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Colpo basso di Di Maio a Salvini: l’immigrazione non è il primo problema

           I soliti maliziosi retroscenisti dicono che Matteo Salvini -al quale l’hanno raccontata mentre si provava una nuova felpa della Polizia nel suo ufficio al Viminale- abbia imprecato sapendo del colpo basso appena infertogli dal pur amico e comprimario di governo Luigi Di Maio rifiutandosi di rispondere alle domande sull’immigrazione durante la conferenza stampa indetta per vantarsi dei successi gialloverdi. E ciò nonostante il fresco, anzi gelido annuncio della recessione “tecnica” certificata dall’Istat con i dati economici anche dell’ultimo trimestre del 2018. Di cui il vice presidente grillino del Consiglio si è liberato, diciamo così, attribuendone la responsabilità ai governi precedenti, accusati di avere nascosto la realtà al Paese inducendo evidentemente la stessa Istat a diffondere dati falsi sulla quindicina di trimestri antecedenti i due col segno meno toccati per disgrazia all’attuale compagine ministeriale.

            Il colpo basso a Salvini da parte di Di Maio, rimasto peraltro convinto che ci aspetta lo stesso un “boom economico”, prima o poi, grazie ai soldi che riusciranno a muovere le pur tanto contestate novità del reddito di cittadinanza e dell’accesso anticipato alla pensione, sta nella Salvini e Di Maio.jpgmotivazione del rifiuto di rispondere ai giornalisti curiosi di sentirlo parlare di immigrati e complicazioni conseguenti. Fra le quali va naturalmente annoverato il processo allo stesso Salvini per sequestro aggravato di persone, arresto illegale e abuso di ufficio che il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania ha chiesto al Senato di autorizzare. Il che ha creato un bel po’ di problemi al movimento delle 5 stelle e allo stesso Di Maio, in particolare.

             Il giovane capo dei grillini sta sudando, fuori stagione col freddo che fa,  le fatidiche sette camicie per convincere i suoi senatori a votare contro la richiesta della magistratura derogando alla loro regola, abitudine, convinzione e quant’altro di non contraddire mai le toghe alle prese con i politici. Ad un’opera di persuasione in questa inversione di marcia, vista la contrarietà maturata nel ministro dell’Interno contro un processo cui si era per un po’ mostrato invece disponibile con l’aria di sfida e di sicurezza che lo distingue, se non vogliamo parlare di spavalderia, si è offerto anche il presidente del Consiglio in persona Giuseppe Conte.

          Il professore, avvocato civilista e “del popolo”, sempre più attivo dopo un periodo in cui sembrava rassegnato ad un ruolo defilato, prima si è dichiarato pubblicamente corresponsabile dei reati contestati a Salvini per i migranti soccorsi ma anche bloccati nella scorsa estate per qualche giorno sul pattugliatore Diciotti della Guardia Costiera italiana, poi ha definito -giustamente- uno strafalcione giuridico quello di confondere la vicenda giudiziaria del ministro dell’Interno con una banale questione di immunità parlamentare, o di quel Il Fatto.jpgche ne resta, e infine ha annunciato di volere personalmente parlare al gruppo grillino del Senato quando si riunirà -si spera- per decidere come votare. L’opera di persuasione deve essere a buon punto se il giornale di Marco Travaglio ha annunciato che “cresce la fronda” tra i grillini contro il processo.

           Ma veniamo, finalmente, alla motivazione del no opposto da Di Maio alle richieste dei giornalisti di  parlare di immigrazione nella sua trionfalistica conferenza stampa sui successi del governo, indicati sulle pareti con cartelli da scoprire come monumenti, e su un tavolo con tanti barattoli. “L’immigrazione non è il primo problema” dell’Italia, ha detto il vice presidente grillino del Consiglio, pur sapendo quanto ci tenga invece Salvini alla missione che si è data di farla finita con “la pacchia” degli sbarchi e dell’accoglienza.

           Una vignetta che, non importa se casualmente o apposta, riflette meglio di un articolo, editoriale e quant’altro il colpo basso di Di Maio al suo alleato e comprimario di governo è quella di Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Che fa indossare a Salvini una felpa finalmente anonima, sbeffeggiato da un immigrato che se ne va via, con tanto di valigia, per via della recessione. Finisce così un’altra e forse più dannosa “pacchia”: quella del boom economico sognato e persino annunciato da Di Maio, e condiviso da Salvini nei salotti televisivi. Dove l’altra sera il vice presidente leghista del Consiglio si vantava del grandissimo successo dell’ultima asta dei titoli italiani di Stato, precedente l’annuncio ufficiale della recessione.  Parlo naturalmente dei titoli di Stato a scadenza breve, perché la musica di quelli a lunga scadenza è ben altra, come si è visto anche di recente.

 

 

 

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