Se Landini insidia a Trump nelle piazze italiane il premio Nobel della pace….

         Quattro furono a Napoli nel 1943 le giornate di rivolta popolare che portarono al ritiro delle truppe tedesche e aprirono la lunga lotta di resistenza a livello nazionale. Quattro sono state le giornate italiane di manifestazioni, una anche di sciopero generale, che Massimo Gramellini ha vissuto e raccontato “in altre parole”, su la 7 televisiva, come propedeutiche alla liberazione di Gaza. Come se avessimo fatto più noi italiani scioperando e scendendo nelle piazze per dare finalmente una prospettiva di pace, si spera, a Gaza. Altro che Trump e Netanyahu col piano annunciato alla Casa Bianca e col negoziato che comincerà domani in Egitto anche con i terroristi di Hamas.  

         Si spera che Massimo Landini, il segretario generale della Cgil che si è intestato gli eventi italiani, non si monti la testa e non reclami il pieno Nobel della pace al quale invece aspira il presidente americano. E che è stato chiesto per  Trump, guarda caso, proprio da Netanyau, anche se quello scienziato di geopolitica che qualcuno considera Tomaso Molinari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, racconta negli studi televisivi che lo cercano tutt’altra storia, Che il premier israeliano, cioè, fa accordi con Trump su Gaza per poi sabotarli e proseguire una guerra che gli servirebbe a rimanere al governo nel suo paese. E/o per non finire in galera. Trump si lascerebbe cosi imbrogliare, come anche da Putin in Ucraina, o imbroglierebbe anche lui tutto il mondo fingendo di perseguire la pace per intascare il premio omonimo e poi lasciare le partite.

         Per promuovere e santificare le “quattro giornate”  da lui raccontate in un inconsapevole delirio nazionalistico, rappresentando l’Italia al centro del mondo  per le sue piazze affollate e incontenibili per la causa di Gaza sostenuta invece altrove con inefficacia, Gramellini ha naturalmente liquidato come “marginali” i disordini che non sono mancati neppure a Roma. Con i soliti incappucciati che in Piazza Santa Maria Maggiore e dintorni per poco -scusate l’ironia- non hanno svegliato Papa Francesco che vi riposa. E hanno raggiunto la statua di Papa Giovanni Paolo II per scrivergli addosso del “fascista di merda”.

         Ironia per ironia, meno blasfema, lasciatemi segnalare questi disordini al buon Pier Luigi Bersani. Che ci ha appena riproposto, in una intervista a Repubblica, la parodia della “mucca”, cioè della destra, da lui per primo avvertita  inutilmente  nella sede del Pd, al Nazareno, ben prima che Giorgia Meloni vincesse le elezioni e si insediasse a Palazzo Chigi, magari arrivando fra quattro anni anche al Quirinale. Dove già l’avvertono Dario Franceschini, Francesco Boccia e amici. C’è ben altro, caro Bersani, che si aggira per i corridoi del Nazareno estremizzando e confondendo la linea del Pd. E vanificando ogni sogno di alternativa.

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I numeri e i paradossi delle piazze italiane intestatesi da Landini

         Dai 50 mila stimati in un centinaio di piazze italiane ai 2 milioni, vantati dalla Cgil, di dimostranti fiancheggiatori dello sciopero generale indetto e attuato a favore dei palestinesi di Gaza “genocidiati” da Israele. Ma, a questo punto, e per coerenza, anche dai terroristi di Hamas che li hanno resi ostaggi nella lotta armata agli ebrei, costruendo sotto le loro case, i loro ospedali, le loro scuole, le loro chiese, le loro strade e piazze gli arsenali della lotta per una Palestina “dal fiume al mare”.

         Di questi 50 mila o 2 milioni di manifestanti si è detto e scritto che siano sfilati pacificamente, persino gioiosamente, anche se la causa da essi sostenuta ha prodotto e continua a produrre eccidi, macerie e odio. Sta per arrivare il secondo anniversario del podrom del 7 ottobre in cui a nome della causa palestinese furono trucidati in territorio israeliano più di 1200 fra uomini, donne, vecchi e bambini ebrei  e più di altri 200 sequestrati e nascosti a Gaza per farne merce di scambio nella guerra che ne sarebbe inevitabilmente seguita.

         Fra le piazze d’Italia festosamente invase c’è stata anche quella romana di Porta Pia prospiciente il Ministero delle Infrastrutture, ex Lavori Pubblici, guidato dal vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini: il più fischiato e insultato, dopo la premier Giorgia Meloni, per le critiche allo sciopero generale, oltre che alla crociera della flottiglia interrotta dagli israeliani a 35 miglia da Gaza.

         Di Salvini non sono state condivise dai promotori dello sciopero generale e dimostranti  neppure le proteste per i 55 poliziotti rimasti feriti nei disordini che hanno qua e là rovinato la festa, chiamiamola così nonostante -ripeto- l’aspetto tragico del problema di Gaza e dintorni.

         Caty La Torre, una professoressa di doppio passaporto, italiano e americano, uno in meno della segretaria del Pd Elly Schlein, è insorta proprio contro Salvini parlandone nel salotto televisivo di Lilly Gruber su La 7, osservando che una cinquantina di poliziotti feriti sono in fondo la media dei postumi di un derby calcistico. Se è per questo, la professoressa poteva fare un calcolo facile facile e tradurre la sua rappresentazione dei fatti opponendo alla denuncia del ministro la modestia di uno 0,55 per cento di ferimenti tra le forze dell’ordine considerando le cento piazze, appunto, che il segretario della Cgil Maurizio Landini si è vantato di avere voluto e saputo riempire. La cosa importante insomma è che non ci sia scappato il morto. Che probabilmente, secondo il ragionamento e l’atteggiamento della professoressa, avrebbe fatto comodo a Salvini.

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Il gioco parlamentare di Monopoli sulle guerre di Gaza, al plurale

Il buon Mattia Feltri, più paziente del padre Vittorio, sino allo sfinimento avvolto nell’ironia, o nel sarcasmo, ha contato sino a “dodici o tredici” posizioni nei dibattiti parlamentari svoltisi, fra Camera e Senato, sulla guerra di Gaza e nelle votazioni sulle mozioni. Ne è derivato uno spettacolo di confusione che ha probabilmente e giustamente spinto nell’aula di Montecitorio sui banchi del governo il ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, affiancato dal ministro della Difesa Guido Crosetto, a portarsi la mano sinistra sugli occhi. Una immagine, direi, emblematica di una giornata particolare in Parlamento. Dove la maggioranza ha approvato le sue mozioni a favore del piano di piace a Gaza predisposto alla Casa Bianca dal presidente americano Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e di un riconoscimento dello Stato di Palestina condizionato alla liberazione degli ostaggi di Hamas, vivi o morti che siano, e al ritiro dei terroristi. Che hanno provocato la distruzione della striscia di Gaza con la inevitabile reazione israeliana all’infame pogrom del 7 ottobre di due anni fa.

         Gli incroci, sui banchi delle opposizioni, fra astensioni, voti contrari e favorevoli anche sui documenti da esse stesse proposte, non hanno dimostrato la pluralità e quindi vitalità dei partiti, fra di loro e al loro interno, quanto la loro “paralisi” da confusione giustamente lamentata da Davide Varì. Una paralisi che rende impraticabile la strada dell’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni propostasi dal cosiddetto campo largo. E avvertita, in questa sua impraticabilità anche da esponenti politici impegnatisi molto, più ancora della “testarda” segretaria del Pd Elly Schlein, a prospettarla.

         Persino Goffredo Bettini, per esempio, l’uomo che non si è risparmiato nel suo Pd e fuori producendo saggi, articoli, lettere e interviste sino a sollecitarle personalmente, ha dovuto arrendersi alla realtà dello spettacolo parlamentare pregando l’intervistatore di turno di non infierire con le domande. Cioè preferendo uno sconsolato silenzio al rischio di contribuire anche lui alla confusione. Come avrebbe probabilmente fatto se si fosse azzardato a parlare entrando nei dettagli delle dodici o tredici posizioni, ripeto, contate con sofferta approssimazione, credo, dal mio amico Mattia Feltri. Un’approssimazione persino superiore a quella cui nella cosiddetta prima Repubblica ci avevano abituato i democristiani quando scrivevamo delle loro correnti e ne aggiornavamo, via via, le carte di navigazione. Superiore anche all’approssimazione e confusione che la Dc riuscì a trasmettere al  Pci quando le due forze politiche, pur contrapposte elettoralmente, come ricordava Aldo Moro,  parteciparono alle maggioranze parlamentari della cosiddetta “solidarietà nazionale”. Che fu un’edizione ridotta del più ambizioso e persino scientifico “compromesso storico” elaborato e proposto dal segretario comunista Enrico Berlinguer nella sicurezza di poterlo fare digerire a tutto il suo partito.  

Pubblicato sul Dubbio

La penultima versione di Giuseppe Conte alla Camera è ingraiana

Adottato politicamente da Beppe Grillo, inconsapevole dei guai che si sarebbe procurati e spingendolo addirittura verso Palazzo Chigi, Giuseppe Conte ha sempre zigzagato nei suoi riferimenti storici o solo empatici.

Le origini pugliesi, in una terra -Volturara Appula- chiamata come le vipere che l’hanno a lungo occupata, hanno contribuito a dividere Conte fra la devozione anche familiare a Padre Pio e la curiosità, quanto meno, verso la figura e il lascito di Aldo Moro. Del quale tuttavia mi sembra non abbia avuto ancora l’occasione di celebrare pubblicamente il ricordo, come invece gli è capitato in un teatro in Campania, su invito di Gianfranco Rotondi e alla presenza dell’ancor vivo Ciriaco De Mita, per Fiorentino Sullo: il ministro dei lavori pubblici del già citato Moro che gli fece crescere ancora di più l’indimenticabile  ciuffo di capelli bianchi proponendogli una riforma del suolo, addirittura, che ne avrebbe trasformato la proprietà in concessione.   

Al termine della celebrazione di Sullo ai democristiani, ma anche a qualcuno non democristiano che andò a complimentarsi con lui Conte si disse attrezzato a commemorare anche altri morti eccellenti dello scudo crociato e dintorni. Poi però ebbe o trovò altro da fare.

A furia di studiare e di immedesimarsi nelle condizioni esplorate anche con un po’ di fantasia, che non guasta mai, aiutato anche da un consigliere sempre più frequentato ed ascoltato come Goffredo Bettini, l’ex presidente del Consiglio si è autodefinito “progressista indipendente”. Indipendente, tempo,  persino da se stesso e non solo dai partiti o leader a lui associati nella coltivazione della pianta della cosiddetta alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Alla cui leadership egli ha appena riconosciuto, parlandone anche alla Camera dopo qualche dichiarazione o comizio, i limiti geografici e politici del Colle Oppio. A Roma, di fronte al Colosseo. Una cosa più da battutista, francamente, che da protagonista politico come lui pensa forse di essere. O per come lo scambiano i tifosi sognando di rivederlo prima o poi di nuovo a Palazzo Chigi, quando “il destino cinico e baro” di cui si lamentava già  Giuseppe Saragat si sarà stancato di aiutare la premier in carica, prima di spingerla sino al Quirinale facendola entrare  nella lista dei successori del compianto leader socialdemocratico.

Proprio alla Camera, e parlando proprio del Colle Oppio della Meloni nel contesto di un dibattito e relative  votazioni sulle guerre di Gaza, al plurale perché ve ne sono tante di strumentali accanto a quella vera o principale, Conte ha toccato un’altra tappa della sua evoluzione politica e ideologica. Egli è approdato, in particolare, alla sinistra non solo romantica, visto ciò che riuscì a produrre negli anni di piombo, del comunistissimo Pietro Ingrao. Del quale ha voluto sposare la visione del mondo “terribilmente diviso in opulenti e affamati”. Per superare il quale, anche a rischio di distruggerlo in entrambe le parti, “l’appello all’unità è ridicolo”, ha detto, anche o soprattutto se formulato dal governo in carica, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal Papa, e attrattivo per una parte del Pd ancora dichiaratamente e orgogliosamente riformista, “ridicolmente” aperta -ha detto sempre Conte- alla “parte sbagliata della storia”.

Prima ancora di leggere di questo discorso di Conte oltre ogni ostacolo, ormai, persino il buon Goffredo Bettini già citato ha mostrato segni di delusione e preoccupazione avvertendo non il decollo ma la esplosione in pista dell’alternativa al governo. A un giornalista che lo intervistava sulle divisioni e sulle confusioni a sinistra su Gaza e dintorni Bettini ha chiesto, immagino con le mani giunte come in preghiera per un credente, di non insistere. Per carità.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.statmag.it il 5 ottobre

Il ponte lungo di Landini sul campo largo della Schlein e di Conte

         Grazie o a causa, come preferite, di una guerra dolorosa, anzi feroce anche per l’uso, anzi gli usi strumentali cui si presta come quella di Gaza, il segretario della Cgil Maurizio Landini ha aggiunto un altro dei suoi punti lunghi  sul campo largo del Pd di Elly Schlein, del Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e minori. Che magari non riusciranno a realizzare l’alternativa propostasi al centrodestra della Meloni, come hanno appena sperimentato nelle Marche perdendo le elezioni regionali, e come stanno per sperimentare in Calabria, ma garantiranno -si fa per dire- lunghi week end, proclamando scioperi di venerdì, a chi ha la voglia e la possibilità di goderne. E pazienza per gli altri che potranno o dovranno solo subirli, sentendosi dare dei provocatori o disumani al solo accenno di una protesta. O solo di una riserva.

Non parliamo poi di quando la protesta si traduce in un titolo di giornale o in qualche dichiarazione di parte governativa. Come è accaduto al ministro delle Infrastrutture e vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini quando si è lasciato tentare dall’idea di contrastare con le precettazioni lo sciopero generale proclamato a favore della flottiglia bloccata dagli israeliani nella navigazione verso Gaza. Di cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha avvertito e apprezzato l’umanità -per i soccorsi alimentari destinati ai palestinesi, chiedendo tuttavia di consegnarli al Patriarcato di Gerusalemme offertosi a distribuirli- e la presidente del Consiglio invece la irresponsabilità dello scontro cercato con Israele in un atteggiamento costante di sfida.

Salvini ha rinunciato alle precettazioni, Landini no allo sciopero generale anche quando l’autorità preposta ne ha dichiarato l’illegittimità mancando del preavviso e delle motivazioni necessarie. Un ponte anche illegittimo, quindi, oltre che lungo. Preceduto e accompagnato peraltro da manifestazioni di piazza dai rischi abituali di disordini, a dir poco. “L’Italia in rivolta”, ha titolato entusiasticamente l’Unità di Piero Sansonetti.

La guerra di Gaza, dicevo a proposito della quale si manifesta per terra e per mare, si sciopera e ci si scontra politicamente. Ma è un singolare sbagliato. Dovremmo parlare piuttosto di guerre di Gaza, al plurale. Condotte sul posto e altrove, tutte sulla pelle dei palestinesi. Alla cui tragedia contribuiscono anche quelli che dicono -temo non sempre in buona fede- di volerli difendere ad oltranza, e a qualsiasi costo, anche quello di danneggiarli in un tragico ossimoro.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Israele abborda la flottiglia e la sinistra dichiara guerra al governo italiano

         La flottiglia -lasciatemela chiamare in italiano- decisa a forzare il blocco della navigazione verso Gaza è stata scontatamente abbordata dagli israeliani con 20 battelli e 5 gommoni senza effetti “letali”, come promesso dal presidente di Israele all’ambasciatore d’Italia ricevuto in previsione dell’evento.

 I crocieristi sono stati destinati all’espatrio e i loro sostenitori in Italia si sono mobilitati politicamente  e socialmente dichiarando e praticando a loro modo la guerra, tra piazze e scioperi, a cominciare da quello generale di domani, non ad Israele, non avendone i mezzi, o non ancora, ma al governo di Giorgia Meloni. Che, pur avendone denunciato la “irresponsabilità”, per quanto contraddetta o mitigata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, aveva fatto tutto il possibile per proteggerli in navigazione nelle acque internazionali.

         Il proposito dichiarato nelle proteste è quello di “bloccare” l’Italia e i suoi incolpevoli cittadini. Alcuni dei quali applaudono contenti e solidali, come si è vantata in televisione l’ex sindaco di Roma Virginia Raggi. Ma molti di più, credo, non applaudendo per niente, incavolatissimi per pagarne le spese.

A Gaza intanto tutto procede tragicamente come prima. E se qualcosa dovesse davvero cambiare, accadrebbe non per la flottiglia, non per le proteste di piazza, in Italia e altrove, ma per il piano di pace concordato fra Trump e Netanyahu alla Casa Bianca e proposto ai paesi dell’area mediorientale. E persino ad Hamas, l’organizzazione terroristica che ha provocato la tragedia in corso prima facendo dei palestinesi i loro ostaggi, costruendo sotto le loro case, scuole, ospedali, chiese, piazze e strade gli arsenali di guerra contro Israele e poi eseguendo il pogrom del 7 ottobre di due anni fa.

         Questa non credo che sia una storia o cronaca provocatrice. Non lo è almeno nella percezione e nella volontà di chi l’ha così riassunta. E chi vi dovesse vedere invece della provocazione lo farebbe provocando ancora di più.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Tutte le sorprese, proprio tutte, dell’andreottiano Vittorio Sgarbi

         Diavolo di un uomo, di un depresso in convalescenza e di un critico d’arte impareggiabile anche nel praticarla mediaticamente, riuscendo ad occupare le prime pagine dei giornali anche con tutti i casini e le guerre raccontate dalle cronache, Vittorio Sgarbi non so se meriti la nomina a senatore a vita chiesta per lui al presidente della Repubblica da qualche parte in questi giorni. Di sicuro merita i complimenti per come riesce a gestire anche le sue difficoltà sorprendendo  tutti, amici e non.

         A 73 anni compiuti e a 71 chili ai quali si è ridotto da solo con la depressione, rifiutando il cibo prima ancora che adeguandosi alla dieta prescrittagli dai medici, Vittorio Sgarbi ha deciso domenica scorsa come elettore nelle Marche di fare parte della metà dei votanti, non degli astenuti come forse ci si poteva aspettare. E’ andato alle urne giusto per votare il presidente uscente, amico e confermato della regione Francesco Acquaroli, non altro. Non anche il suo partito, visto che Giorgia Meloni, come lui stesso si è doluto parlandone con Cazzullo, non si è mai fatta sentire pur sapendo delle sue condizioni malferme di salute e dell’amarezza procuratagli dalla figiia Evelina chiedendo ai magistrati di togliergli la gestione dei beni. Dopo averlo peraltro messo sotto indagini per conflitto d’interessi, quanto meno, determinandone peraltro l’uscita dal governo in carica.

         Sul piano politico, oltre che umano, Sgarbi ha voluto sorprendere amici e non -di nuovo- iscrivendosi all’area, diciamo cosi, andreottiana. Di Giulio Andreotti, cioè, la buonanima del sette volte presidente del Consiglio e ancora di più ministro che attribuiva al potere virtù taumaturgiche, danneggiando solo chi non lo ha, o lo perde.

         Infatti Sgarbi ha raccontato di essere entrato nel lungo tunnel della depressione dopo essere stato estromesso da sottosegretario ai beni culturali. Dimesso più che dimessosi dalla Meloni e dall’allora ministro Gennaro Sangiuliano, che però non ne ha ricavato vantaggi per avere poi dovuto lasciare anche lui, in modo anche più clamoroso.

Elly Schlein in radiologia dopo la spallata fallita al governo

Del “tanto impegno” che la segretaria del Pd Elly Schlein ha assicurato di avere messo nella campagna elettorale nelle Marche non c’è dubbio. L’hanno vista arrivare dappertutto. E se ne sono accorti, diversamente da quanto accadde, sempre nei suoi racconti, nel partito quando ne scalò e conquistò il vertice ribaltando l’esito del voto degli iscritti , che si erano pronunciatosi per il suo concorrente Stefano Bonaccini. Il quale oggi l’assiste come presidente fra il malumore e le proteste anche pubbliche di quanti, avendolo sostenuto, se ne aspettavano una condotta di contenimento, non di fiancheggiamento della Schlein,, quale invece è avvertito almeno da una parte dei riformisti, come si chiamano quelli della minoranza.

         Anche dell’esito negativo o “insufficiente”, come lo chiama lei, di tanto impegno elettorale non c’è dubbio. Ha stravinto con otto punti di vantaggio il presidente uscente di centrodestra delle Marche, Francesco Acuqaroni. E straperso, conseguentemente, il candidato del campo una volta tanto davvero largo, da Matteo Renzi a Giuseppe Conte: Matteo Ricci, europarlamentare e già sindaco di Pesaro con qualche pendenza giudiziaria per la sua attività di amministratore che avrebbe potuto aiutarlo, visti gli effetti anche controproducenti che riescono a produrre certe iniziative, ma che stavolta sono mancati.

         Gli elettori delle Marche hanno visto arrivare nelle loro piazze la segretaria del Pd, sono magari andati anche a sentirla, più giovani che anziani, come ha raccontato il capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, ma poi hanno disertato i seggi elettorali. “Piazze piene, urne vuote”, aveva gridato già nel 1948 a livello nazionale il socialista Pietro Nenni commentando la sconfitta del cosiddetto fronte popolare.

         Metà elettorato nelle Marche è rimasto a casa abbassando di dieci punti l’affluenza delle precedenti elezioni regionali, solo cinque anni fa. E sono state proprio le assenze a fare e produrre la differenza, diciamo così. facendo fallire non solo la corsa di Matteo Ricci e del campo largo alla presidenza della regione, ma anche la spallata al governo di Giorgia Meloni che la Schlein si era proposta. E che anche l’impietoso manifesto le ha ricordato.

         Per scherzo, ma non troppo, si può ora immaginare la segretaria del Pd in radiologia per un accertamento delle condizioni della sua spalla sinistra, ma anche della destra. In attesa che poi il partito, magari non subito ma dopo le altre tappe di questa campagna elettorale d’autunno, le faccia il suo esame politico, decidendo se avvicinare o allontanare un congresso di verifica, di chiarimento o come altro si vorrà o potrà chiamare.

         A livello rigorosamente di partito, in cinque anni dalle precedenti elezioni regionali, il Pd è sceso dal 25,1 al 22,5 per cento dei voti perdendo il primo posto della classifica generale. Ma ancora più visibilmente e significativamente i fratelli d’Italia della Meloni sono saliti dal 18,7 al 27,4 per cento, saltando al primo posto. E forse archiviando, credo, del tutto la storia di sinistra delle Marche, dove la destra è stata vissuta negli ultimi anni, sempre da sinistra, come usurpatrice.

Pubblicato sul Dubbio

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Doppia sia la vittoria sia la sconfitta elettorale nelle Marche

         Già avvertita persino al Nazareno alla fine della prima giornata di votazioni con l’affluenza alle urne calata di 5 punti rispetto all’analoga prima giornata di cinque anni fa, la sconfitta del centrosinistra orgogliosamente sfidante con la candidatura di Matteo Ricci alla presidenza è arrivata in tutta la sua concretezza nella regione marchigiana. La seconda mezza giornata di votazioni ha persino aggravato la situazione con la fuga dalle raddoppiata: da cinque a 9,7 punti, quasi 10.

         Le Marche sono quindi rimaste saldamente nelle mani del centrodestra. L’assalto agguerrito del cosiddetto centrosinistra o campo largo anziché portare più gente alle urne ne ha allontanata ulteriormente. Gli elettori sono stati meno sprovveduti di quanto non avessero immaginato gli avversari del presidente uscente Francesco Acquaroli contrapponendogli un cartello eterogeneo come un’Armata Brancaleone. Come a livello nazionale nel 1994 la famosa allegra “carovana” dell’ultimo segretario del Pci e primo del Pds, Achille Occhetto, contro Silvio Berlusconi. Sono passati 31 anni inutilmente per la sinistra, ostinata nel rifiutare la pratica e la logica di coalizioni fatte di programmi più che di ostilità, di rancori, di velleità.

         Eppure le Marche erano apparse alla segretaria del Pd e alleati la regione più contendibile al centrodestra delle tre contenute nel pacchetto elettorale di questo autunno, comprensive anche del Veneto e della Calabria. Erano state scambiate le Marche dell’improbabile Matteo Ricci per una proiezione italiana dell’Ohio americano, lo Stato civetta, diciamo così, degli Stati Uniti che abitualmente riflette nelle urne l’orientamento vincente a livello confederale.

         Vale doppia la sconfitta subita nelle Marche dalla sinistra, come sul versante opposto la vittoria della destra con otto punti di distacco, quanti sono stati quelli accumulati da Acquaroli rispetto a Ricci, arrivati al 52,5% e al 44,4 % dei voti.   Vale per la sconfitta in sé, e per quel supplemento di vittoria che la sinistra aveva accarezzato sognando di prevalere. Vale a dire lo sconquasso del centrodestra a livello addirittura nazionale per un “fallo di reazione” – così definito, in particolare, dal capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, gran consigliere e amico della Schlein- attribuibile ad una Meloni sconfitta e decisa a rifarsi rivendicando per i suoi fratelli d’Italia la candidatura alla presidenza del Veneto prenotata invece dai leghisti per il loro vice segretario Alberto Stefani, non potendo essere ricandidato il governatore uscente Luca Zaia.

         Ma già prima del risultato marchigiano, prevedendolo con più realismo degli avversari, la Meloni aveva rovesciato a mezzo stampa la ricotta di Boccia confermando l’appoggio alla candidatura veneta di Stefani. Non ne azzeccano una i campisti del Nazareno e dintorni.  Campisti, naturalmente, da campo largo, o santo, o largo e santo.  

Dal casino giudiziario di Garlasco al casinò di Campione d’Italia

Clamorosamente indagato a Brescia dai suoi ex colleghi per il sospetto di essersi lasciato corrompere salvando per due volte Andrea Sempio nella vicenda del delitto di Chiara Poggi a Garlasco, l’ex procuratore aggiunto di Pavia  Mario Venditti mi sembra un uomo, per ora, di sicuro sfortunato. Per il quale non avverto ma soprattutto non esprimo pena per il significato negativo che generalmente si attribuisce a questa parola, o sentimento. Egli merita comunque il rispetto dovuto ad una persona  innocente “sino alla condanna definitiva”, com’è scritto nell’articolo 27 della Costituzione, quasi fra i primi considerando i 139 complessivi, e al netto delle 18 “disposizioni transitorie e finali”. Un articolo che penso fra i più diffusamente violati dalla cultura e dalla pratica, anche o soprattutto giornalistica, del giustizialismo contrapposto al garantismo.

           A Mario Venditti è innanzitutto capitata la sfortuna, non credo proprio cercata, di lavorare come inquirente su un caso complicatissimo, del quale basta citare la data d’inizio -il lontano 2007, ben 18 anni fa- per farsene un’idea. Un caso per il quale è stato condannato in via definitiva l’ex fidanzato della vittima, Alberto Stasi, che ha continuato a scontare la sua pena anche dopo e mentre venivano aperte o riaperte altre indagini. Una circostanza, questa, che da sola dovrebbe consigliare prudenza. Non dico altro sul merito delle indagini. Basta e avanza l’incredulità espressa da un uomo dell’esperienza giudiziaria di Carlo Nordio, che oggi assiste a questa singolare vicenda anche come ministro della Giustizia. E che ha ricevuto dal difensore di Venditti la richiesta di disporre un’ispezione a Brescia, la sede competente ad occuparsi di un magistrato che ha operato a Pavia. 

         La ciliegina, diciamo così, sulla torta che a 72 anni compiuti    è toccata a Mario Venditti di vedersi servita dagli ex colleghi è un po’ quella dell’incarico attuale che l’ex magistrato ricopre: presidente del Casinò, con l’accento sulla vocale finale, di Campione d’Italia. Il cui il sindaco ne ha chiesto le dimissioni per le intervenute difficoltà giudiziarie.

 Diavolo, anche questo doveva capitare all’ex procuratore aggiunto.  Un incarico che barzellettari, vignettisti e simili saranno probabilmente tentati, nel solito, impietoso esercizio della satira, di associare ai soldi.  Che nelle sale da gioco saltano da un numero all’altro, da una ruota all’altra, come quelli finiti nelle carte delle indagini di Brescia: fra i 20 e 30 euro, moltiplicati per mille dalle cronache e dai sospetti accoppiati al nome di Venditti nell’appunto sequestrato ai genitori di Sempio. Soldi che per un altro documento acquisito dalle indagini confluirebbero in qualche modo nei 46 mila euro movimentati a suo tempo nei conti dei familiari, sempre di Sempio, attribuibili a compensi ed altro pagati per la vicenda giudiziaria intestata al delitto di Chiara Poggi.

         Qualcuno magari vi riderà sopra, col cinismo della cronaca e della casualità. Ma, francamente, c’è ben poco di cui ridere, O, magari, solo da sorridere.

Pubblicato sul Dubbio

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