La bella e la bestia in versione internazionale con Trump e Meloni in Egitto

         La penultima edizione, dovendosene prevedere altre, dell’antica fiaba della bella e della bestia è stata vissuta o vista nella scena in mondovisione del presidente americano Donald Trump che ha accolto la premier italiana Giorgia Meloni alla cerimonia, in Egitto, della firma del piano di pace a Gaza dandole della bella. Anzi, della bellissima nella traduzione del salotto televisivo della ironica, diciamo così, Lilli Gruber in Italia. Tanta galanteria fisica, oltre che politica, non è stata gradita a sinistra.

         Questo diavolo di Trump si permette insomma non solo di svuotare le piazze non dico di persone, perché ce ne saranno sempre di disposte a riempirle, ma di argomenti sul tema della pace, ma anche di continuare ad apprezzare una Meloni ora proiettata dai suoi stessi, ossessionati avversari in uno scenario quirinalizio. Che potrebbe anch’esso diventare femminile, come è diventato concretamente Palazzo Chigi tre anni fa con la vittoria elettorale del centrodestra a trazione meloniana, dopo la lunga edizione berlusconiana e quella breve del leghista Matteo Salvini, emersa dalle elezioni politiche del 2018. Che portarono il leader leghista a Palazzo Chigi come vice presidente del Consiglio di Giuseppe col permesso di un Silvio Berlusconi in persona pur rimasto all’opposizione di una curiosa, anomala combinazione, durata non a caso poco più di un anno.

         Questo diavolo di Trump, dicevo, è riuscito ad associare alla pace a Gaza, o al suo “spiraglio” come altri preferiscono dire con prudenza, quanto meno, se non con diffidenza, una Meloni guadagnatasi nelle piazze filopalestinesi, ma anche in Parlamento e naturalmente nelle trasmissioni televisive, l’accusa di essere addirittura “complice del genocidio” attribuito a Israele per la sua ostinazione a vivere. E a sopravvivere anche ad una mattanza così oscena, e pur scambiata a sinistra per resistenza, come quella del 7 ottobre di due anni fa compiuta in territorio israeliano dai terroristi di Hamas con 1200 morti e 250 sequestrati per farne ostaggio, con la stessa popolazione di Gaza, nella guerra che ne sarebbe seguita. Una sequenza di date e di numeri che neppure l’onusiana -da Onu- Francesca Albanese riuscirà mai a cancellare, o ad attribuirla al caso, o addirittura agli stessi israeliani per essersela cercata.

         Meno male che in un frangente internazionale delicatissimo come questo, in cui si deve costruire giorno dopo giorno la pace in Medio Oriente, e un’altra guerra continua, in Ucraina, nella sostanziale indifferenza delle piazze pur ancora solerti per Gaza, l’Italia gode di una stabilità politica, e di una conseguente chiarezza e affidabilità, che curiosamente viene apprezzata più all’estero che a Roma. L’Italia con quel suo stivale strategico immerso nel Mediterraneo e nel fronte meridionale dell’Occidente.

Meno male, ripeto. Viene la pelle d’oca solo a immaginare a livello nazionale lo scenario politico della Toscana appena emerso dalle elezioni regionali. Dove il cosiddetto campo largo vince, ma in un mezzo deserto prodotto dalla fuga degli elettori dalle urne e con un socio di maggioranza così poco convinto, o così tanto sofferente per sua stessa dichiarazione, precipitato al suo minimo storico e astenutosi dalla festa a Firenze.  Alludo naturalmente al pentastellato ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che dovrà prevedibilmente farsi perdonare la sua adesione al progetto di conferma del governatore del Pd Eugenio Giani, osteggiato nella precedente legislatura regionale, rendendogli la vita difficile, a dir poco.  Per  fortuna nelle regioni non si fa anche, o non ancora, politica estera, come la sinistra nelle Marche e in Calabria si era cervelloticamente proposta offrendosi al riconoscimento senza condizioni dello Stato della Palestina. Una imprudenza, velleità e quant’altro che ha consentito la conferma del governatore uscente di centro destra in Calabria, per esempio, con 16 punti di distacco di Occhiuto su Tricarico, tre in più di quelli, in Toscana, di Giani su Tomasi

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Il sottosopra toscano del campo largo vincente e del centrodestra battuto

Dietro lo scenario toscano di una vittoria netta del cosiddetto campo largo della sinistra, alternativa al centrodestra nazionale, c’è un mondo sottosopra -per dirla letterariamente col generale Roberto Vannacci- che merita qualche attenzione. E rende le immagini meno nitide dell’apparenza, o di un approccio sommario.

         Il governatore regionale appena confermato nella persona di Eugenio Giani, osteggiato dal partito delle 5 Stelle nella passata legislatura, e già ingombrante di suo per le “difficoltà” ammesse da Giuseppe Conte nell’adesione alla sua ricandidatura, ha avuto l’inconveniente, diciamo così, di vincere riducendo però al 4 per cento, ancora meno delle Marche, il movimento dell’ex presidente del Consiglio. Che, come paralizzato da un risultato peggiore di quello che aveva forse già messo nel conto, pur partendo dal 7 per cento delle elezioni regionali di cinque anni e non dall’11 delle elezioni politiche di tre anni fa, ha declinato l’invito a partecipare alla festa fiorentina del governatore confermato. Ha preferito leccarsi metaforicamente le ferite a Roma, cioè a casa.

         Non vorrei essere o apparire prevenuto, e persino menagramo, ma ho la sensazione che il pur navigato Giani non avrà vita facile né formando la giunta regionale né attuando un programma necessariamente più abbozzato che concordato. Necessariamente, perché a volerlo definire meglio il campo largo si sarebbe subito ristretto.

         Avrà, Giani, vita difficile anche perché il 4 per cento e rotti delle 5 Stelle di Conte è meno della metà del quasi 9 per cento conquistato dalla “casa riformista” di Matteo Renzi. Che in Toscana gioca a casa e non è tipo da rinunciare a far valere i suoi voti, per quanto sia imprevedibile.

         Sul versante del centrodestra abbiamo la sofferenza della Lega, precipitata dal quasi 22 per cento delle elezioni regionali di cinque anni fa ad un 6 per cento inferiore al quasi 7 che ha consentito a Forza Italia di collocarsi, e  non solo di sentirsi al secondo posto, dopo i fratelli d’Italia della premier Giorgia Meloni, nella coalizione nazionale di governo.

         La debacle della Lega ha un nome e cognome. Che non è tanto del segretario, vice presidente del Consiglio eccetera eccetera Matteo Salvini, quanto del vice segretario, europarlamentare e già citato generale Roberto Vannacci. Che a furia di combattere il mondo sottosopra dal quale si sente circondato da tempo, già da quando comandava i paracadutisti della Folgore, lo ha importato nella Lega. I cui nuovi elettori scacciano i vecchi, un po’ forse come quelli, sul versante opposto, del movimento già grillino di Conte.

         La Meloni potrebbe non risentire del sottosopra leghista, anche se ha problemi non tanto o non solo locali con la Lega nel Veneto, in Lombardia e in qualche parte del Sud, ma in politica- si sa- non bisogna mai dire mai.

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Il dolceamaro toscano di Schlein e di Conte, sottrattosi alla festa di Giani rieletto

         La segretaria del Pd Elly Schlein è corsa in Toscana a festeggiare insieme la conferma di Eugenio Giani alla presidenza della regione, con 13 punti di distacco dal contendente di centrodestra Alessandro Tomasi, e quella del suo partito al vertice della classifica, anche meglio delle precedenti, analoghe elezioni, superando il 35 per cento.

         Giuseppe Conte, pur parte col suo movimento della coalizione vincente del cosiddetto campo largo, è rimasto a Roma. A compiacersi anche lui, certo, per la conferma del governatore del Pd osteggiato dai consiglieri regionali pentastellati nella precedente legislatura regionale, ma senza entusiasmo, a dir poco. Non aveva ragione, in effetti, di averne perché la vittoria della coalizione è stata pagata a carissimo prezzo dal partito già di Beppe Grillo. Che è sceso dal 7 per cento di cinque anni fa al 4,3 di adesso, due punti sotto il 6 della sinistra radicale e quasi 5 sotto la “casa riformista” dell’indigesto Matteo Renzi.  Quasi metà dell’elettorato pentastellato di cinque anni fa, pur salito di quattro punti nelle elezioni europee dell’anno scorso, ha preferito generalmente disertare le urne e contribuire al forte aumento dell’astensionismo, di 15 punti. Ma vi ha contribuito anche assieme ad un elettorato già di centrodestra.

         Pure nel campo di Giorgia Meloni è accaduto qualcosa di significativo. Il partito della premier è felicemente raddoppiato in Toscana salendo dal 13,5 ad oltre il 26 per cento. Di meno, certo, ma anche Forza Italia è salita dal 4 al 6 per cento, ma la Lega è letteralmente precipitata dal 21,7 al 4,6, pagando -credo- a carissimo prezzo un certo protagonismo dell’eurodeputato, vice segretario della Lega e generale Roberto Vannacci, impegnato in una guerra non solo letteraria a quello che chiama il “mondo sottosopra”.

         Attilio Fontana, il governatore leghista della Lombardia, aveva assicurato nei giorni scorsi, come monito anche al segretario del partito e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, che il Carroccio non si sarebbe lasciato “vannacizzare”. O “vannaccizzare”. Gli elettori toscani, quanto meno, hanno rinunciado a votare per la Lega, o a votare e basta.  

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Dalle urne regionali sta uscendo un mezzo toscano spento….

         Quel 10 per cento in meno di affluenza alle urne nel primo giorno di votazioni regionali in Toscana è già una grande macchia anche sull’eventuale conferma del governatore uscente Eugenio Giani, del Pd, 66 anni, appoggiato dal cosiddetto campo largo del centrosinistra. E sfidato per il centrodestra dal sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi, di 46 anni, venti anni in meno.

         Ad occhio e croce il già ricordato campo largo, come nelle Marche 15 giorni fa, confermate al centrodestra con la conferma del fratello d’Italia Francesco Acquaroli, ha più allontanato che attratto gli elettori.

         Il campo largo, d’altronde, in Toscana è stato così poco convintamente allestito che la segretaria del Pd Ellly Schlein, secondo indiscrezioni di stampa, ha dovuto sudare fuori stagione le classiche sette camicette delle sue, di più colori come l’arcobaleno, per convincere Giuseppe Conte a farsi fotografare con Giani. Di cui l’ex presidente del Consiglio ha accettato e sostenuto la ricandidatura fra il malumore dei suoi pentastellati, probabilmente fra i più svogliati e renitenti, come si dice in politica, nella corsa, anzi nell’approccio alle urne.

         Più che un toscano intero, sta uscendo da questo  voto regionale un mezzo toscano.

Walter Veltroni, un marziano al Nazareno oltre alla mucca di Bersani

Altro che la mucca di Pier Luigi Bersani, che ne avvertì la presenza ben prima della vittoria elettorale della destra di Giorgia Meloni fra l’incredulità dei compagni di partito. Al Nazareno, se ancora vi va ogni tanto da ex segretario del Pd per le presenze che  gli spettano di diritto, si aggira un marziano. Che l’altra sera, ospite di Peter Gomez nel salotto televisivo della “confessione”, ha felicemente centrato sul piano storico e politico l’anno d’inizio della crisi del Pci, ma in genere anche di tutta la sinistra.

Fu il 1956, quando la repressione sovietica della rivoluzione in Ungheria spinse molti comunisti a lasciare il partito di Palmiro Togliatti, che reagì scuotendo la testa come una criniera per liberarsi, compiaciuto, dei “pidocchi” che vi si erano insediati. E invitando l’allora direttore dell’Unità Pietro Ingrao a brindare con un bicchiere di vino rosso alla decisione del Cremlino di soffocare nel sangue le aspirazioni alla libertà di uomini e donne che, come aveva raccontato Indro Montanelli da cronista, volevano rimanere comunisti ma a modo loro.

         Nel 1956 -ha riflettuto, non raccontato Veltroni, che aveva allora solo un anno- il Pci anche a costo, evidentemente, di liberarsi del “migliore” dei suoi dirigenti, come veniva percepito e definito Togliatti, appunto, avrebbe dovuto strappare con la sua storia e costruire con i socialisti allora di Pietro Nenni un partito unico della sinistra. Vasto programma.

         Raggiunta però l’età della ragione e della consapevolezza, pur preferendo le letture americane a quelle sovietiche, se mai vi si era davvero affacciato, Veltroni aderì al Pci. E poi, dopo una rapida esperienza di governo come vice presidente del Consiglio e ministro, per non parlare del Campidoglio, al Pd direttamente da segretario, nel 2007, proponendosi di farne una forza di “vocazione maggioritaria”, senza perdersi o lasciarsi condizionare più di tanto dalla sinistra ancora orgogliosamente comunista, o estrema, o radicale. Come si diceva facendo perdere le staffe a Marco Pannella, che già ne aveva di precarie per temperamento.

         Il proposito, diciamo pure il sogno nel quale vi confido che sarei incorso anche io elettoralmente se alle elezioni del 2008 Veltroni non avesse deciso all’ultimo momento di apparentarsi con Antonio Di Pietro piuttosto che con Pannella, durò un anno e mezzo soltanto. Nel 2009 col pretesto -confessato dallo stesso Walter parlandone con Gomez- di un turno elettorale amministrativo ristretto alla Sardegna e sfortunato per il Pd- si dimise. O fu costretto a dimettersi. Al Nazareno furono abbastanza lesti e disinvolti a liberarsene, pensionandolo praticamente a soli 54 anni.  Ma, involontariamente, restituendolo al giornalismo che pratica ad un livello più stabile e lungo di una direzione, coi tempi che corrono. E’ editorialista del Corriere della Sera, dispensando consigli che naturalmente al Nazareno si guardano bene dall’ascoltare, come quello di non lasciare i problemi della sicurezza alla destra perché vi sono interessati anche gli elettori una volta tradizionali della sinistra, se non ancora di più degli elettori nuovi della destra. Che sono approdati dove sono proprio a causa delle distrazioni e dei tradimenti della sinistra.

         Non so, francamente, dove sarebbe potuto arrivare elettoralmente e politicamente il Pd con Veltroni. So bene, anzi sappiano benissimo, e lo sanno anche al Nazareno fra scambi di messaggi non sempre ermetici, dove è arrivato il Pd senza e dopo Veltroni. A coltivare l’erba in un campo tanto largo quanto arido. Dove la Schlein si è avventurata, dice lei, per costruire la cosiddetta alternativa al centrodestra, in realtà per inseguire l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, dal canto suo, deve starle il più lontano possibile, o le si deve accostare ostentando il suo disagio, perché dispone di un partito che dalle 5 Stelle di Beppe Grillo e del compianto Roberto Casaleggio, sta diventando del 5 per cento dei voti. Vedremo fra qualche ora dove è riuscito a scendere anche in Toscana, dopo il 5 delle Marche e il 6 della Calabria.

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Carofiglio coglie la Schlein in fallo politico di parole…

         Dalle “altre parole” dell’omonimo salotto televisivo di Massimo Gramellini  alle “parole precise” do Gianrico Carofiglio nelle librerie, dov’è approdato il suo “manuale di autodifesa civile” dal populismo di ogni colore, di sinistra ma anche di destra, che ci assedierebbe. E a cui cediamo spesso persino inconsapevolmente dicendo male la verità o opponendo bugie a bugie così maldestramente da rendere maggiormente credibili le prime. 

         Carofiglio è un analista, scrittore, romanziere, giallista acuto restituito ai lettori prima dalla magistratura, prudentemente abbandonata in tempo per non farsi travolgere anche lui dallo spirito di casta che la sta rovinando, altro che la riforma costituzionale della giustizia demonizzata dal sindacato delle toghe, e dalla politica. Che l’ex senatore Carofiglio ha vissuto per pochi anni, bastatigli per capire che neppure essa faceva per lui, ma continuando -credo- a sentirsi di sinistra. Forse avrebbe preferito anche lui definirsi progressista se Giuseppe Conte non ne avesse fatto terra bruciata con quell’aggettivo “indipendente” di assai scarsa affidabilità per la sua estrema personalizzazione.

         Dire male la verità, come lamenta Carofiglio, potrebbe anche essere quella rimproverata dallo scrittore alla premier Giorgia Meloni per avere indicato troppo sommariamente e drasticamente “la sinistra italiana più fondamentalista di Hamas”, anche nell’approccio al piano di pace di  Gaza concordato alla Casa Bianca fra il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, con tutto ciò che ne sta seguendo fra inversione di marcia dei profughi e rilascio degli ostaggi sopravvissuti alla loro prigionia di più di due anni. Ma dire male la verità, o dire una bugia, è anche il tipo di smentita, di negazione opposta dalla segretaria del Pd Elly Schlein alla Meloni. “Ripetere nella risposta, nella confutazione, lo stesso schema di quell’attacco scomposto -ha detto Carofiglio parlandone in una intervista alla Stampa- significa perdere prima ancora di combattere: quello che resta nell’immaginario è l’accostamento fra le parole sinistra e Hamas”.

         E’ quello che pensava, credo, Giulio Andreotti quando spiegava agli amici e familiari sorpresi del suo silenzio di fronte a certe accuse, prima ancora di quelle giudiziarie, formulate nelle cronache politiche, che smentendole si rischiasse di parlarne “due volte”. Lo racconto non per sminuire il ragionamento e la percezione di Carofiglio ma solo per riconoscere al compianto sette volte presidente del Consiglio e imputato pluriassolto, pur con i “ma” del suo ostinato accusatore Giancarlo Caselli, il pregio obbiettivo, indiscutibile che aveva di esprimere in una battuta  -non sempre felice, lo riconosco- ciò che altri traducono in un libro, anche con successo di vendite e di recensioni, come sono le interviste all’autore che ne accompagnano la diffusione.  

La nostalgia che al Nazareno dovrebbero avere di Walter Veltroni

         Il bailamme della sinistra italiana è tale che vive con imbarazzo anche  la pace avviata a Gaza e, più in generale, nel Medio Oriente perché intestatasi da due leader di destra che sono Donald Trump negli Stati Uniti e Benjamin Netanyahu in Israele, apprezzati peraltro in Italia dalla premier, anche lei di destra, Giorgia Meloni. Che è stata significativamemte invitata alla imminente cerimonia della firma di un accordo che ha fatto intanto cessare il fuoco e invertire le marce dei palestinesi: non più di fuga ma di ritorno alle loro case, o a quel poco che ne resta dopo due anni di guerra seguiti alla mattanza di ebrei compiuta dai terroristi di Hamas.  

In questo bailamme, dicevo, della sinistra italiana mi è capitato di rivedere e risentire con sollievo in qualche salotto televisivo Walter Veltroni. Che fu  il primo segretario del Pd, prodotto da una fusione “mal riuscita”, disse Massimo D’Alema, fra i resti comunisti e democristiani di sinistra, ma dovette dimettersi dopo un anno e mezzo. Formalmente, ha riconosciuto lui stesso parlandone con Peter Gomez, per una sconfitta regionale in Sardegna, in realtà per l’impossibilità avvertita di fare del Pd quello che aveva sognato: un partito, si diceva, a vocazione maggioritaria, ma prima ancora con una una fisionomia ragionevole e non rancorosa. Un partito del famoso “ma anche” che non fosse solo contro qualcuno – come erano stati il Pci prima e il Pds poi contro Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, e ora è contro Giorgia Meloni- ma anche per qualcosa. Preferibilmente di sinistra.

         Vasto programma, avrebbe detto pure  di questo la buonanima di Charles De Gaulle in una trasferta italiana. Anche con una segretaria giovane come Elly Schlein, che avrebbe potuto per la sua stessa età ed origini culturali sottrarsi alle pratiche del rancore e simili, della competizione con l’avversario e non solo della lotta spasmodica, a tutti i costi e in tutti i modi, il Pd vive solo nominalmente a sinistra. In realtà è in uno spazio indefinito, che deriva  dalla scelta non di un programma o di un altro, ma dei compagni di strada, anche di quelli che perseguono solo rivincite personali. Alludo naturalmente all’ex presidente del Consiglio pentastellato Giuseppe Conte. Dice tutto, mi pare,  il modo in cui Elly, come la chiamano i giornali nei titoli, guarda non il suo spasimante politico, diciamo così, ma il suo antagonista nel recinto pur largo, anch’esso nominalmente, della presunta alternativa al centrodestra.

         Il Pd avrebbe bisogno più di un ritorno di Veltroni alla segreteria che d’altro. Un’ipotesi del terzo tipo, cioè marziana.   

La sinistra italiana solo di nome, per niente di fatto da una cinquantina d’anni

E’ ormai da una cinquantina d’anni che la sinistra italiana è tale solo nominalmente, non facendo in realtà la sinistra e lasciando alla destra la politica di sostegno ai ceti popolari, di innovazione riformatrice e non rivoluzionaria, visto anche il fallimento della principale rivoluzione rivendicata dal comunismo nel secolo scorso con la pretesa, come si vantò una volta Giancarlo Pajetta per giustificare i troppi morti da essa prodotti, di riprendere e sviluppare la rivoluzione francese di più d un secolo prima.

         La rinuncia a fare davvero la sinistra, e non solo a intestarsela sbattendo a destra tutti quelli ai quali essa lasciava spazio elettorale e ancor più di governo, ha un filo conduttore di carattere personalistico, ancor più che politico. E ciò nella logica del nemico di cui la sinistra ha avuto il bisogno anche prima di una cinquantina d’anni fa. Quando, per esempio, il segretario del Pci Palmiro Togliatti, pur essendo stato con lui al governo come ministro della Giustizia, affrontò le elezioni politiche del 1948 proponendosi di cacciare Alcide Gasperi “a calci in culo”, letteralmente, per fortuna senza riuscirci.

         Molto dopo, alla fine degli anni Settanta, venne il turno del socialista Bettino Craxi. Al quale per avere fatto da presidente del Consiglio una cosa di sinistra come la difesa del valore reale dei salari, falcidiati da una inflazione a due cifre, il Pci di Enrico Berlinguer e poi di Alessandro Natta mosse una guerra referendaria rovinosamente perduta. I tagli alla scala mobile frono confermati. Persino il buon Giorgio Forattini appendeva Craxi nelle sue vignette su Repubblica con tanto di stivali neri appeso come ad un cappio con la testa in giù.

         Liberatasi di Craxi con l’aiuto dei magistrati, dei quali sarebbe poi rimasta dipendente rinunciando al garantismo, la sinistra italiana nel frattempo indebolita dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo si trovò a fare i conti con l’imprevisto Silvio Berlusconi, da combattere anche lui in tutti i modi, compreso quello giudiziario.

         Il riformismo anche costituzionale di Berlusconi, come quello abbozzato da Craxi senza avere avuto il tempo di praticarlo, divenne sostanziale golpismo nella rappresentazione della sinistra. Che tuttavia cercò di imitarlo quando pensò, con la riforma del titolo quinto della Costituzione sulle autonomie regionali, di poter impedire la ripresa dell’alleanza fra lo stesso Berlusconi e la Lega di Umberto Bossi, interrottasi alla fine del 1994. Ma fu un doppio fallimento. Il centrodestra si ricompose lo stesso e di quella riforma la stessa sinistra dovette pentirsi per i problemi che derivarono anche ai governi non di centrodestra,   succedutisi con una frequenza persino superiore a quelli della cosiddetta prima Repubblica.

         Ora è turno di Giorgia Meloni, in odio alla quale -odio vero, di parole e di  fatti di piazza, di cui peraltro la premier non può lamentarsi senza essere accusata di vittimismo e simili-  la sinistra tradisce paradossalmente anche le istanze di pace che dovrebbero caratterizzarla per prime.

 Già limitatasi nella parte più consistente rappresentata dal Pd ad astenersi in Parlamento su una mozione della maggioranza a sostegno del piano di pace concordato fra Trump e Netanyahu su Gaza, temendo di compromettere con un voto favorevole i rapporti con Giuseppe Conte nel camposanto dell’alternativa al centrodestra, la sinistra sta cercando di minimizzarlo, e persino di demolirlo scavalcando persino i terroristi palestinesi di Hamas. Ho letto e sentito dalle parti della sinistra italiana, in Parlamento e nei salotti televisivi, di una soluzione “neo-colonialista” del problema di Gaza che la Meloni avrebbe quindi già commesso l’errore, la colpa e quant’altro di sostenere, pronta anche a contribuirvi, nel suo presunto rapporto subordinato con Trump. Che è il nemico addirittura planetario della sinistra italiana.

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Gaza battuta dal Venezuela nella partita del premio Nobel della pace

         Nonostante le immagini di quei duecentomila palestinesi in marcia invertita, non per fuggire ma per tornare alle loro case, o a ciò che n’è rimasto, grazie al processo di pace che fatto cessare i bombardamenti, immagini arrivate a Oslo fuori tempo massimo, Gaza è stata battuta dal Venezuela, martoriata dalla dittatura,  nella partita del premio Nobel della pace. Gaza, ripeto, più ancora del presidente americano Trump che, pur complimentandosi con l’oppositrice venezuelana Maria Corina Machado premiata per questa edizione 2025, ha protestato contro la natura “politica” del premio intestato all’inventore della dinamite. Che volle con ciò redimersi dal contributo dato alle guerre con il suo ingegno.

         Sarà, spero, per la prossima volta, fra un anno, se Trump riuscirà a far cessare anche la guerra in Ucraina. E il gioco che si sta prendendo di lui a Mosca lo zar di turno Putin, che continua imperterrito a rovesciare sugli ucraini da più tre anni fuoco e morte.

Quando può toccare alla destra fare la sinistra in Italia e altrove

ll paradosso segnalato da Davide Varì di una pace “non a caso” costruita a Gaza più che dalle piazze di sinistra e dintorni, e governi di quel colore, da “Trump, l’amico americano di Meloni”, entrambi di destra, chiude il cerchio di una realtà avvertita già nel secolo scorso da Gianni Agnelli sul piano economico. Tocca alla destra, disse, fare una politica di sinistra.

         Era il tempo in cui, per esempio, la difesa del valore reale dei salari, falcidiati da un’inflazione a due cifre, fu assunta dal primo governo di Bettino Craxi tagliando o rallentando la scala mobile fra le proteste della sinistra. Che fu spinta dal segretario del Pci Enrico Berlinguer nei suoi ultimi giorni di vita verso un referendum abrogativo intestatosi dalla Cgil e clamorosamente perduto l’anno dopo, nel 1985. Clamorosamente per la sinistra come 11 anni prima per la Dc col referendum contro il divorzio.

         Ricordo che il presidente socialista del Consiglio, il primo nella storia d’Italia, a capo di una coalizione pentapartitica, estesa dal Pli al Psi attraverso la Dc, non gradì di essere sbattuto a destra da Gianni Agnelli. Ma prima ancora che dal capo della Fiat egli era stato sbattuto a destra dal Pci, con le sue reazioni parlamentari e di piazza, e dagli umori più generali di un’area che si sentiva di sinistra o progressista, si direbbe adesso alla maniera di Giuseppe Conte. Il povero Bettino era già finito nelle vignette del buon Giorgio Forattini su Repubblica appeso ad una forca con la testa in giù, e con tanto di stivali inconfondibilmente mussoliniani. Questo era il clima di quei tempi.

         Allo stesso modo nella Democrazia Cristiana un uomo dichiaratamente, orgogliosamente di sinistra come Carlo Donat-Cattin, il capo della corrente Forze Nuove proveniente dal mondo sindacale, fu sbattuto a destra, anche nel suo partito dalla sinistra concorrente di Ciriaco De Mita, per il suo anticomunismo. Per quel “mai” pronunciato parlando del compromesso storico proposto allo scudo crociato dal Pci berlingueriano. Poi Aldo Moro lo convinse pazientemente ad accettare, o subire, una versione ridotta della proposta comunista all’insegna dell’emergenza e della “solidarietà nazionale”. Realizzata con due governi monocolori democristiani, sostenti dal Pci esternamente e presieduti da un uomo come Giulio Andreotti.  Che di certo non si poteva considerare di sinistra, convinto com’era che i voti perduti ogni tanto dalla Dc a destra, a vantaggio del Movimento Sociale di Giorgio Almirante, fossero solo “in libera uscita”, destinati a tornare allo scudo crociato, come in effetti avveniva.

         I limiti tuttora della sinistra sono diventati macroscopici oltre che sul terreno internazionale avvertito dal direttore del Dubbio, con la pace a Gaza costruita più a destra che a sinistra, e si spera in tempi ragionevoli anche in Ucraina, dove si muore di guerra da ancora più tempo; i limiti, dicevo, della sinistra sono evidenti anche sul terreno  della sicurezza interna, derivata o no  dal fenomeno della immigrazione clandestina. Ne scrive spesso, inascoltato al Nazareno e dintorni il primo ed ex -appunto- segretario del Pd Walter Veltroni sul Corriere della Sera.

Pubblicato sul Dubbio

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