L’uscita di sicurezza di Landini dal Camposanto della Cgil

Neppure il manifesto – dico il manifesto, “quotidiano comunista” orgogliosamente e civettuolmente stampato in rossonella testata ormai storica della sinistra italiana pura e radicale, tanto da essere espulsa dal Pci pragmatico o imborghesito, come gli avrebbero poi rimproverato i brigatisti rossi del famoso album di famiglia sfogliato da Rossana Rossanda- ha ritenuto di dare il suo titolo di copertina allo sciopero generale di Maurizio Landini. Che è sceso nel taglio centrale della prima pagina, dove la prossima volta, di venerdì o lunedì che potrà capitare per allungare il solito ponte, finirà magari in uno dei richiamini bassi, anzi bassissimi.

         Da quelle parti lì, dove si nasce, si cresce e si muore generalmente a sinistra, fra bandiere rosse e slogan più o meno truculenti di lotta, senza il governo che vi aveva aggiunto la buonanima di Enrico Berlinguer per proporre il suo famoso “compromesso storico”, prima di ripudiarlo per rivendicare la “diversità” della sua parte politica; da quelle parti lì, dicevo, hanno avvertito l’aria di crisi che ha nuovamente investito la Cgil, stavolta forse peggio delle altre due volte. La prima fu nel 1985 col referendum tutto politico contro i tagli antinflazionistici apportati alla scala mobile dei salari dal governo del “socialtraditore” Bettino Craxi. Un referendum perduto clamorosamente, o vinto in poche località galeotte come la Nusco dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, che non spese una parola nella campagna elettorale a favore del governo sognandone la caduta, tanto gli era indigesto.

         La seconda crisi della Cgil è più recente, risalendo al referendum della primavera scorsa contro la disciplina del lavoro -il famoso jobs act- intestatasi con forza e orgoglioa suo tempo da Matteo Renzi nella doppia veste di segretario del Pd e di presidente del Consiglio. Pur sostenuto, o proprio perché sostenuto con una certa disinvoltura, a dir poco, dal Pd attuale della Schlein, nella linea della cosiddetta discontinuità adottata per rispondere alle attese e pretese soprattutto dei pentastellati di Giuseppe Conte, quel referendum è naufragato nell’astensionismo. Tra miserevoli tentativi di piegare i  numeri alle intepretazioni e letture più cervellotiche.

La Schlein, rimastane scottata in un partito sempre meno rassegnato alla sua guida imprevista, imposta in primarie post-congressuali più dagli esterni ed estranei che dagli iscritti, ha cercato di non farsi coinvolgere più di tanto in questo sciopero generale che non ha scaldato i cuori, ripeto, neppure del popolo del manifesto.

         Non so se basterà questo defilamento tuttavia ad evitare alla segretaria del Pd effetti collaterali del flop di Landini. Che ha pur usato nel suo tentativo di mobilitazione antigovernativa gli stessi argomenti usati dalla Schlein. E, ahimè, da Conte -almeno quello dei giorni pari- con la rappresentazione della pur felice congiuntura italiana apprezzata dalle agenzie di rating e dalle borse come di una “economia di guerra”, addirittura.

         Volente o nolente, di fatto o no, la posizione di Landini nel suo secondo mandato di segretario della Cgil, che scadrà nell’estate prossima, è indebolita. E l’uomo potrebbe essere tentato dall’idea di una uscita di sicurezza nel camposanto, di larghezza variabile, della cosiddetta alternativa al centrodestra. Dove le iscrizioni alla corsa alla leadership sono aperte, a dir poco. Diciamo pure spalancate. Un’ambizione non si nega a nessuno, come il sigaro toscano di una volta o una onorificenza. Donne come la stessa Schlein e la più giovane sindaca di Genova Silvia Salvis e uomini come Conte e Landini, appunto. Uomini la cui convergenza di visioni e interessi potrebbe rivelarsi utile a moltiplicare le difficoltà della segretaria del Nazareno, per quanto orgogliosa delle dimensioni elettorali del Pd, e a fare maturare la famosa, solita imprevedibile soluzione terza, femminile o maschile che potrà rivelarsi.  E ciò nella prospettiva francamente irrealistica, anche per effetto dello sciopero generale appena gestito dalla Cgil, di un’alternativa al governo di Giorgia Meloni.

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L’amaro Landini servito allo sciopero non troppo generale della Cgil

         Oltre che di partecipazione, col meno del 5 per cento di adesioni nei posti di lavoro, è stato anche mediatico il fallimento dello sciopero generale della Cgil di Maurizio Landini contro il governo affamatore del popolo, guerrafondaio e fascistoide nella rappresentazione anche cartellonistica della protesta.

         Nelle edicole già prive della Repubblica di carta, in sciopero contro l’editore che vuole liberarsene, dove quindi si è scioperato due volte, i giornali sono arrivati per lo più ignorando sulle prime pagine dal Corriere della Sera alla Stampa, anch’essa peraltro in vendita pure dal notaio- la prestazione di Landini. Che ci sarà rimasto male.  Non  gli sarà certamente bastata la generosa Unità dell’ancor più generoso  Piero Sansonetti. Persino il manifesto ancora orgogliosamente comunista non ha fatto dello sciopero, dei suoi cortei e delle sue bandiere rosse la copertina di giornata preferendogli la “fredda guerra”, dopo la guerra fredda dei decenni passati, e abbassando la protesta sindacale al taglio centrale della prima pagina, come lo chiamiamo graficamente.

         Si torna indietro con la moviola della storia, ma con un titolo, diciamo così, corretto o aggiornato. Dalle famose “piazze piene e urne vuote” lamentate nel 1948 da Pietro Nenni, affranto dalla sconfitta del “fronte popolare” incautamente realizzato dal leader socialista col Pci di Palmiro Togliatti, si sta passando alle piazze stanche e urne ancora più vuote.

A questo declino Landini pensa forse di sottrarsi cambiando mestiere o postazione: da segretario generale del maggiore sindacato italiano a concorrente di Elly Schlein, Giuseppe Conte, Silvia Salis e altri alla leadership della pur improbabile alternativa al centrodestra, in un campo di incerta definizione o larghezza e di programma sinora assente. Non sono definiti neppure quelli singoli dei due maggiori partiti di opposizione. che sono il Pd e il Movimento ancora chiamato 5 Stelle, di cui però si è affievolita la luce.

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La Repubblica di Scalfari contro il Giornale di Montanelli

Fa una certa impressione sentire e leggere di Repubblica, quella naturalmente di carta, in vendita non nelle edicole ma dal notaio, ad un vecchio giornalista che la vide nascere con una certa ansia nel 1976. L’ansia che si viveva nel Giornale di Indro Montanelli, nato nel 1974 e diventato rapidamente, fra edicole e palazzi della Roma politica, un partito. Sì, il partito di opposizione alla prospettiva di quella che Giovanni Spadolini aveva chiamato sulle colonne del Corriere della Sera  “Repubblica conciliare” ed Enrico Berlinguer poi incartò nella sua proposta di “compromesso storico”.

         Al Giornale si viveva  un’apprensione che Montanelli cercava di contrastare con una visione ottimistica delle proprie forze e del buon senso degli italiani, che lui era convinto di sapere interpretare molto meglio di Eugenio Scalfari, il fondatore e direttore del nuovo quotidiano Di cui, per carità, egli apprezzava la scrittura e lo stile ma che, senza volerlo offendere, sentiva “più da elite che da popolo”, mi diceva a tavola o raggiungendo a piedi o la redazione romana, o casa sua, in Piazza Navona, o casa della mamma, a Prati.

         Montanelli, ripeto, aveva di Scalfari un profondo rispetto. E quasi ci impediva di attaccarlo nelle cronache o nei commenti, una volta uscita la sua Repubblica. Dalla selezione che ogni giorno egli faceva delle proposte che ci chiedeva per aiutarlo a trovare l’argomento del suo fulminante corsivo Controcorrente di prima pagina, escludeva puntualmente tutte quelle che  si riferivano a Scalfari, o solo potessero sforarlo. Un rispetto forse non molto ricambiato, ma cui Montanelli non rinunciava lo stesso, vantandosene.

         Quanto il Giornale fu il partito di opposizione ad un governo di democristiani e comunisti tanto Repubblica fu il partito di sostegno a questa prospettiva, nonostante all’inizio qualche bontempone nel Psi di Francesco De Martino lo avessero scambiato per filosocialista a causa delle simpatie riservate alla rivoluzione portoghese dei garofani. Poi, con Craxi subentrato a De Martino  e con le sue “forbici alla barba di Marx” non a caso deplorate da Scalfari, tutti si resero conto, anche Giuliano Amato, che quello sarebbe stato il giornale più antisocialista del panorama italiano. Scientificamente antisocialista, direi, come i comunisti storicamente portati a scambiarli per “traditori”. O, nella migliore delle ipotesi per fastidiosi rompiscatole. Disposti anche a fare da sponda alle brigate rosse, durante il sequestro di Aldo Moro, contestando la cosiddetta linea della fermezza adottata  dalla Dc di Zaccagnini e Andreotti d’intesa con Enrico Berlinguer e preferendo la linea umanitaria  per cercare di salvare l’ostaggio condannato a morte nella fantomatica prigione e tribunale “del popolo”.

         Il Giornale era il giornale o partito di riferimento della parte dei gruppi parlamentari democristiani in maggioranza ostili al matrimonio politico col Pci. “Mi togliete il sonno”, mi diceva il capogruppo dc della Camera Flaminio Piccoli. La Repubblica era il partito di riferimento dell’altra parte di quei gruppi, riconducibile ad un certo punto a Ciriaco De Mita promosso statista sul campo da Scalfari in persona. Che ad un certo punto, avendo raccolto una celebre intervista di svolta moralistica di Enrico Berlinguer, dopo il fallimento della parentesi della cosiddetta “solidarietà nazionale”, pensò addirittura di potere ispirare il Pci.  

         Ciò accadde, in particolare, nel 1992.  Quando la strage di Capaci ridusse la lunga e travagliatissima corsa al Quirinale alla scelta “istituzionale” fra il presidente democristiano della Camera Oscar Luigi Scalfaro e il presidente repubblicano Giovanni Spadolini. Che Scalfari sponsorizzò così platealmente e insistentemente che, quando i gruppi parlamentari comunisti si riunirono per decidere, si sentirono dire dal segretario del partito Alessandro Natta che il Pci non poteva lasciarsi “dettare la linea” dal pur stimabilissimo direttore di Repubblica. E infatti fu eletto Scalfaro per fare subentrare al vertice di Montecitorio Giorgio Napolitano.

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Il rischio di una Quaresima fuori stagione per Tajani in Forza Italia

Povero Tajani. Antonio Tajani, 72 anni compiuti in agosto, dei quali una ventina trascorsi da giornalista e una trentina da politico: prima portavoce di Silvio Berlusconi,  prelevato dalla redazione romana del Giornale ancora diretto da un Indro Montanelli ormai in uscita forzata, come si dice in linguaggio elettronico maneggiando un computer, poi eurodeputato di Forza Italia, poi ancora vice presidente della Commissione europea, vice presidente e presidente del Parlamento europeo, vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, senza mai essere passato per la gavetta di qualche sottosegretariato, infine successore dello scomparso Berlusconi al vertice del partito azzurro, il colore preferito del fondatore.

Paradossalmente proprio questo lungo curriculum nell’arco, ripeto, di una trentina d’anni deve avere consumato Tajani agli occhi dei più giovani figli di Berlusconi, grati -si spera sinceramente- di quanto fatto al servizio del padre e poi anche loro, essendo i detentori di un credito che li rende di fatto proprietari del partito. Che ora-Marina ricevendo uomini e donne aspiranti all’avanzamento e Pier Silvio parlando come ha fatto ieri alla sostanziale festa annuale di Mediaset- sono decisi a promuovere con le buone o con le cattive un ringiovanimento di Foza Italia. E ciò anche per rafforzarla, appunto, nel rapporto con la giovane presidente del Consiglio e capa indiscussa del partito maggiore della coalizione di centrodestra, e quindi della stessa coalizione.

In queste condizioni, diciamo così, ambientali, per quanti sforzi faccia l’interessato di stare al gioco, di non prendersela, addirittura di ringraziare per l’attenzione riservata al partito, pur tra i tanti impegni aziendali, interni e persino internazionali, grava sul povero Tajani -ripeto- la minaccia, il rischio, l’avventura, chiamatela come volete, di una Quaresima fuori stagione, fra le luci di Natale e i cotecbini di Capodanno. Una Quaresima più concreta di quella che magari si aspettano per lui, ad esempio, a Mosca a causa del suo impegno di governo a sostegno dell’Ucraina, che non si decide ad arrendersi neppure sotto la pressione del presidente americano Donald Trump. O quella, più modesta, a Roma del vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini.

Fra gli inconvenienti di questa Quaresima incipiente c’è per il povero Tajani -ripeto- anche quello di essere sarcasticamente difeso sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio in persona. Che lo ha sempre attaccato sino all’insulto ma ora lo considera un campione di virtù nel partito azzurro perché incensurato, mai raggiunto da un avviso di garanzia, da un sospetto da codice penale. Maturo forse, nella testa di Travaglio, per chiedere asilo prima o poi, comunque all’occorrenza, al partito ancora pentastellato di Giuseppe Conte, il famoso, decantato migliore presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto dopo Camillo Benso conte, con la minuscola, di Cavour.

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La carica politica di Landini contro Meloni con la bandiera della Cgil

Nella sua doppia veste, rispettivamente ufficiale e ufficiosa, di segretario generale della Cgil e di possibile concorrente alla corsa a capo, o quant’altro, della pur futuribile alternativaal governo, Maurizio Landini ha aggiunto un’altra motivazione allo sciopero generale della sua Cgil parlandone in una intervista a Repubblica. O una motivazione più generale che comprende o sovrasta le altre: legge di bilancio, salari, mancato ricorso alla tassa patrimoniale e tutto il resto.

         Tutto dipende secondo Landini- che il compianto Giampaolo Pansa avrebbe chiamato il nuovo parolaio rosso, dopo il Fausto Bertinotti dei suoi tempi- dalla “economia di guerra” , testuale, nella quale l’odiato governo della Meloni avrebbe infilato l’Italia per correre appresso, presumibilmente, insieme o a giorni alterni, al presidente americano Donald Trump, acquistandone gas, armi e quant’altro, e ai vertici dell’Unione Europea, costretti un po’ dallo stesso Trump e un po’ da un ingordo Putin al “riarmo”. Parola, questa, usata dalla presidente della Commissione di Bruxelles per intitolare tanto di programma proposto al Parlamento europeo, poi rimossa per pudore, diciamo così, ma rimasta nell’immaginario collettivo e nel linguaggio corrente del dibattito, confronto, scontro politico., chiamatelo come volete.

         Per fortuna, pur nella confusione che si fa anche a livello scientifico o accademico fra Costituzione scritta e Costituzione materiale, prodotta cioè dagli abusi o dalle storture vecchie e recenti, fra prima e cosiddetta seconda Repubblica, se non vogliamo spingerci sino alla quarta di certe trasmissioni televisive, la politica estera e di difesa del governo, anzi dell’Italia, o della Nazione, come preferisce dire la premier, non va negoziata con i sindacati. A cominciare dalla Cgil di cui Landini è orgoglioso per i cinque milioni di tesserate o tesserati che lo ripagano della solitudine nella quale si trova negli scioperi generali senza la Cisl e la Uil. Milioni ai quali, vedrete, prima o poi Landini cercherà di aggiungere, esonerandoli dalla iscrizione formale, anche quelli che,  sempre più numerosi, disertano le urne ad ogni livello elettorale. Ci aveva già provato a suo tempo, con numeri ben diversi, cioè minori, la buonanima di Marco Pannella. Ma almeno lui era in leader politico, non il segretario di un sindacato.

         Alla politica estera del governo o, più in generale, dell’Italia basta e avanza, anche in assenza della condizione bipartisan che sarebbe certo preferibile, per carità, il supporto del presidente della Repubblica che per dettato costituzionale dell’articolo 87 “è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”; “accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere”; “ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituto secondo la legge; dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”.

         Nella fattispecie politica dell’”economia di guerra” lamentata o denunciata, con tutte le sue conseguenze restrittive sulla spesa cosiddetta sociale, Landini non si è accorto e non si accorge di trascinare anche il presidente della Repubblica, da tempo peraltro nel mirino per ora solo verbale, non armato o solo cibernetico, del Cremlino e dintorni  per la sua convinzione consolidata e ripetuta, ogni volta che ne ha l’occasione, che della guerra in Ucraina, e di tutto ciò che ne consegue, la responsabilità sia tutta della Russia.

         Il Presidente della Repubblica, caro il mio o nostro Landini, è questo. E non solo quello cui il segretario generale della Cgil ha riconosciuto il merito di avere “ragione”, sino immaginarne quasi il patrocinio per il suo sciopero generale, in materia di “emergenza salariale” per i compensi spesso ben al di sotto del livello “dignitoso” ricavabile dall’articolo 36 della Costituzione. Giù le mani, per favore, dal Capo dello Stato.

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Ripreso da http://www.startmag. il 13 dcembre

Landini si avvolge nelle parole di Mattarella per motivare lo sciopero generale

“Mattarella ancora una volta ha ragione: siamo dentro a un’emergenza salariale”, ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini commentando in una intervista a Repubblica il recente intervento del Capo dello Stato a favore di “salari dignitosi”. Conformi al disposto dell’articolo 36 della Costituzione. E così il promotore dello sciopero generale di oggi -peraltro dichiaratamente “sociale ma anche politico”- si è avvolto nello stendardo del presidente della Repubblica che sventola sul Quirinale, accanto alle bandiere d’Italia e dell’Unione Europea, per motivare la sua offensiva contro la legge di bilancio all’esame del Senato e, più in generale, contro il governo. Legge di bilancio di cui Mattarella ha autorizzato la proposta alle Camere e presumibilmente controfirmerà per la promulgazione all’esaurimento del suo percorso parlamentare. Purtroppo strozzato anche quest’anno dal ricorso al super-emendamento del governo supportato dalla fiducia e da un passaggio brevissimo, puramente nominale, alla Camera fra alberi e luci natalizie, e chotechini.

         A peggiorare la legge di bilancio e, più in generale, la situazione è, secondo Landini per nulla preoccupato, anzi orgoglioso della solitudine nella quale ha proclamato lo sciopero generale, senza la Cisl e la Uil, forte dei 5 milioni di iscritte e iscritti alla Cgil; a peggiorare le cose, dicevo, è “l’economia d guerra” in cui il governo avrebbe infilato il Paese con la sua politica estera e di difesa.

         A questo punto tuttavia la logica e la cornice, anche quella- ripeto- del Capo dello Stato, adottate della Cgil e del suo segretario generale vacillano. E la strumentalizzazione del Quirinale diventa a dir poco avventurosa, se non vogliamo chiamarla sfrontata.

         Senza volere anche noi strumentalizzare, per carità, figura, parole e opere del presidente della Repubblica, ma solo per ribadire cronache costanti degli ultimi tre anni e più, quanti sono quelli trascorsi dalla nomina del governo di Giorgia Meloni, la politica estera e di difesa dell’Italia ha sempre avuto il consenso, direi anche la sollecitazione del Capo dello Stato. Che non a caso è diventato bersaglio del Cremlino e dintorni. più ancora della Meloni, per la ferma difesa dell’Ucraina, l’altrettanto ferma condanna dell’invasione e permanente aggressione da parte della Russia di Putin e la condivisione del “riarmo” europeo come è stato chiamato a Bruxelles anche nel titolo di un programma formulato dalla Commissione, imposto dalla linea espansionistica dello stesso Putin. Ma anche, da qualche tempo, dalla convergenza di Mosca più con Trump che con l’Europa.

         Landini insomma, con la sua foga più di piazza che altro, mi sembra avventuratosi nelle sue analisi politiche, oltre che sociali, su un terreno assai accidentato e scivoloso. Che, d’altronde, non dovrebbe essere il suo, essendo lui per ora solo – dovrebbe bastargli- segretario generale della Cgil. No, o non ancora il capo che manca al campo largo, larghissimo, sconfinato e quant’altro dell’alternativa al governo propostasi dalla segretaria del Pd Elly Schlein con “testarda” volontà non di inseguire ma di farsi addirittura inseguire da Giuseppe Conte e altri concorrenti, maschi e femmine. 

Pubblicato sul Dubbio

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Landini rivendica orgoglioso il carattere politico dello sciopero generale

         Domani dunque sciopero generale della Cgil. Naturalmente e rigorosamente di venerdì, in modo da offrire a chi lo fa, e in fondo anche a chi lo subisce borbottando, un ponte lungo a fine settimana quanto quello d’inizio con la festa dell’Immacolata capitata di lunedì. Ma preceduta venerdì scorso da un altro sciopero generale: quello dei trasporti promosso dai sindacati cosiddetti di base.

         Formalmente indetto contro una legge di bilancio ancora da approvare in Parlamento, ma che da due mesi   produce titoli ansiosi di prima pagina dei giornali, questo sciopero è “sociale ma anche politico” per ammissione, anzi per vanto, dello stesso segretario generale della Cgil Maurizio Landini in una lunga e comiziante intervista oggi a Repubblica. Uno sciopero politico, ripeto, anche per la “economia di guerra” – testuale- nella quale il governo della Meloni avrebbe allegramente deciso di farci vivere riducendo le spese sociali e aumentando quelle militari, giusto per correre appresso al presidente americano Donald Trump nei giorni pari e ai vertici guerrafondai dell’Unione Europea filoucraini nei giorni dispari, o di notte con l’uno e di giorno con gli altri.  

         Tutto previsto, anzi scontato, per carità, nel comizio…stampato di Landini e nel petto gonfio per i 5 milioni di iscritte e iscritti alla Cgil che ne farebbero il sindacato più grande, per quanto isolato dagli altri come la Cisl e la Uil, che non lo hanno seguito nella proclamazione di questo sciopero coincidente peraltro con l’anniversario di un evento non ceto felice come la strage del 12 dicembre 1969 alla sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Una strage funzionale alla cosiddetta strategia della tensione. Ognuno si sceglie le coincidenze che vuole, naturalmente.

         Una cosa tuttavia non  avevo messo nel conto di questo sciopero generale:  non so se più l’errore, secondo me, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di unirsi ieri all’allarme per i salari troppo bassi, che francamente non mi sembrano attribuibili tutti o prevalentemente a questo governo in carica da poco più di tre anni, o la disinvoltura, se non la spregiudicatezza di Landini di attribuire al Capo dello Stato quasi il patrocino -come si usa dire- anche di questa giornata di lotta… e di ponte.

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Il contributo di Sergio Mattarella alla celebrazione di Arnaldo Forlani

         A meno che non lo si voglia considerare un masochista o scimunito, il presidente ucraino Zelensky con la sua missione ieri a Roma e, più in particolare con il suo lungo ed “eccellente incontro”  -parole sue- con la premier Giorgia Meloni ha voluto smentire rappresentazioni, voci, retroscena e quant’altro di un disimpegno italiano dall’appoggio all’Ucraina da quasi quattro anni sotto aggressione della Russia di Putin.

         Sempre a meno che non lo si voglia considerare, ripeto, un masochista o scimunito, il presidente ucraino ha voluto “ringraziare” l’Italia per l’aiuto ricevuto e per il contributo che vorrà dare, non considerandola evidentemente esclusa, alle trattative visibili. e soprattutto invisibili, come vedremo, per una soluzione del conflitto che salvaguardi la sicurezza di un paese che la sola disgrazia di confinare con la Russia e di sentirsi europeo, tanto da avere chiesto l’adesione all’Unione. “Di lei mi fido”, ha detto Zelensky della premier italiana.

         Il calendario e l’orologio parlano da soli. Zelensky ha voluto venire a Roma dopo essersi incontrato a Londra col presidente francese Macron e i premier inglese e tedesco e a Bruxelles con altri vertici comunitari e atlantici. Assente di certo la Meloni, come si è sottolineato politicamente e mediaticamente alludendo a una pretesa “marginalità” dell’Italia, ma perché – si è visto- la premier italiana sarebbe stata raggiunta a Palazzo Chigi. E dopo -altra circostanza non credo casuale- un’udienza del Papa a Zelensky, anch’essa di solidarietà, a Castel Gandolfo. Un Papa -Leone XIV- reduce da un viaggio e da colloqui, fra gli altri col presidente turco Erdogan, non proprio estraneo -direi- alla questione ucraina e al traffico diplomatico che la riguarda.

         E’ stato proprio di ritorno da questo viaggio che il Papa conversando con i giornalisti ha parlato del ruolo che può avere il governo italiano sulla strada di una soluzione della guerra in Ucraina.

         Mettete, per cortesia, tutte queste cose insieme e lasciatevi prendere dal sospetto, credo ragionevole, che nella diplomazia e, più in generale, nei confronti internazionali, il sommerso è generalmente più importante dell’emerso.  A meno che non stiano tutti correndo sulla strada del suicidio di una terza guerra mondiale.    

Il contesto, non casuale di certo, della missione di Zelensky a Roma

         A meno che non lo si voglia considerare un masochista o scimunito, il presidente ucraino Zelensky con la sua missione ieri a Roma e, più in particolare con il suo lungo ed “eccellente incontro”  -parole sue- con la premier Giorgia Meloni ha voluto smentire rappresentazioni, voci, retroscena e quant’altro di un disimpegno italiano dall’appoggio all’Ucraina da quasi quattro anni sotto aggressione della Russia di Putin.

         Sempre a meno che non lo si voglia considerare, ripeto, un masochista o scimunito, il presidente ucraino ha voluto “ringraziare” l’Italia per l’aiuto ricevuto e per il contributo che vorrà dare, non considerandola evidentemente esclusa, alle trattative visibili. e soprattutto invisibili, come vedremo, per una soluzione del conflitto che salvaguardi la sicurezza di un paese che la sola disgrazia di confinare con la Russia e di sentirsi europeo, tanto da avere chiesto l’adesione all’Unione. “Di lei mi fido”, ha detto Zelensky della premier italiana.

         Il calendario e l’orologio parlano da soli. Zelensky ha voluto venire a Roma dopo essersi incontrato a Londra col presidente francese Macron e i premier inglese e tedesco e a Bruxelles con altri vertici comunitari e atlantici. Assente di certo la Meloni, come si è sottolineato politicamente e mediaticamente alludendo a una pretesa “marginalità” dell’Italia, ma perché – si è visto- la premier italiana sarebbe stata raggiunta a Palazzo Chigi. E dopo -altra circostanza non credo casuale- un’udienza del Papa a Zelensky, anch’essa di solidarietà, a Castel Gandolfo. Un Papa -Leone XIV- reduce da un viaggio e da colloqui, fra gli altri col presidente turco Erdogan, non proprio estraneo -direi- alla questione ucraina e al traffico diplomatico che la riguarda.

         E’ stato proprio di ritorno da questo viaggio che il Papa conversando con i giornalisti ha parlato del ruolo che può avere il governo italiano sulla strada di una soluzione della guerra in Ucraina.

         Mettete, per cortesia, tutte queste cose insieme e lasciatevi prendere dal sospetto, credo ragionevole, che nella diplomazia e, più in generale, nei confronti internazionali, il sommerso è generalmente più importante dell’emerso.  A meno che non stiano tutti correndo sulla strada del suicidio di una terza guerra mondiale. 

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La sconfitta sul divorzio che Forlani seppe risparmiarsi

Di tutti i segretari avuti dalla Dc, da De Gasperi a Taviani, da Gonella a Fanfani, da Moro a Rumor, da Piccoli a Zaccagnini e a Martinazzoli-Arnaldo Forlani, di cui ricorre il centenario dalla nascita, a meno di due anni e mezzo peraltro dalla morte, fu il più sprannominato di tutti. Anzi, è stato, tanto forte è la memoria che ne conservo.

Ricordo il “coniglio mannaro” coniato per lui da Giampaolo Pansa, a furia anche di osservarlo col suo binocolo ai congressi democristiani, la “tigre di carta” di derivazione un po’ incerta, il “Moro dei poveri” confezionatogli da Carlo Donat-Cattin orfano del Moro autentico, col quale aveva avuto un rapporto di solida amicizia. Grazie al quale il leader della sinistra sociale, cioè sindacale, della Dc nella seconda metà degli anni Sessanta della contestazione aveva rinunciato alla decisione che stava per prendere di uscire dal partito.

         Di recente Pier Ferdinando Casini ha raccontato che proprio Donat-Cattin non sopportava, ma sempre amichevolmente, l’abitudine di Forlani di isolarsi con la segreteria telefonica durante le trasmissioni, in alta o bassa frequenza televisiva, delle partite di calcio dell’Inter. Segno, evidentemente, che per quanto “Moro dei poveri”, Forlani era un interlocutore molto cercato dal più inquieto o irrequieto dei leader democristiani. Che d’altronde fu tra i promotori del ritorno di Forlani alla segreteria della Dc nel 1989, candidandolo già una decina d’anni prima ad un congresso per chiudere davvero la fase della cosiddetta “solidarietà nazionale” con i comunisti. Il cui appoggio esterno ai governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti, per quanto all’insegna dell’emergenza e della provvisorietà, aveva finito per “impigrire” lo scudo crociato, diceva un Donat-Cattin impaziente, come Forlani appunto, del ritorno dei socialisti, guidati ormai da Bettino Craxi dopo gli anni di Francesco De Martino, alla collaborazione di governo con lo scudo crociato.

         Il coniglio mannaro, la tigre di carta, la segreteria telefonica e quant’alto inventato e appiccicatogli addosso non scalfivano la pazienza, il buon senso e la preveggenza di Forlani. Che nel 1972, per esempio, ai tempi della sua prima segreteria democristiana fece tanto per evitare il referendum contro la legge sul divorzio da preferirne il rinvio di due anni, addirittura ricorrendo alle elezioni anticipate. Fanfani, nella cui scuderia Forlani era cresciuto alla fine scalciando, decise invece di cavalcare quella prova di forza referendaria reclamata dalla Chiesa. E ne uscì notoriamente con le ossa rotte della Dc, rivelatasi nel 1974 battibile ed entrata perciò in una fase di logoramento elettorale e sociale dalla quale non sarebbe più uscita, neppure dando agli alleati addirittura la guida dei governi di coalizione: prima al repubblicano Giovanni Spadolini, nel 1981, proprio in sostituzione di un Forlani benedicente da Palazzo Chigi, e poi al socialista Craxi, nel 1983, quando già un altro socialista, Sandro Pertini, sedeva al Quirinale. Un Craxi del quale Forlani fu vice presidente del Consiglio e contemporaneamente presidente di una Dc guidata con sofferenze e strappi da Ciriaco De Mita.

Pubblicato sul Dubbio

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