Il Conte in edizione bulgara al vertice del Movimento 5 Stelle

Sarebbe troppo facile, persino banale, commentare la conferma di Giuseppe Conte a presidente del Movimento 5 Stelle rilevandone solo il carattere bulgaro, come si dice da quando la Bulgaria fu il paese più monolitico e disciplinato fra gli alleati o satelliti dell’Unione Sovietica.

         La rielezione è avvenuta senza concorrenti e con quasi il 90 per cento dei voti espressi, in particolare con 53.353 sì e 6.307 no, per un totale quindi di 59.660 votanti. Altri 42.123 dei 101.783 iscritti e aventi il diritto di partecipare all’elezione col metodo elettronico non hanno trovato il tempo e soprattutto la voglia di digitare un sì o un no. Se Conte abbia gradito o no, e davvero, tanto assenteismo, diciamo così, non si è riusciti a capire. E tanto meno si sa, almeno mentre scrivo, come l’abbia presa nel suo ritiro e silenzio, destinato a durare chissà quanto, il fondatore ed ex garante del movimento Beppe Grillo.

         Sarebbe troppo facile e pesino banale, dicevo, soltanto ironizzare sull’edizione ed elezione bulgara di Conte. E perciò non lo faccio. Prendo anzi sul serio la conferma e la fine del regime di proroga in cui Conte ha dovuto ultimamente operare, facendo anche scelte di un certo impegno, come il tipo di rapporto col Pd rimproveratogli dall’ormai ex vice presidente del movimento, ed ex sindaca di Torino, Chiara Appendino attribuendogli  la responsabilità delle perdite in questo turno autunnale di elezioni regionali, sia dove la sinistra in qualche modo associata ha perduto, come nelle Marche e in Calabria, sia dove ha vinto, come in Toscana.

         Per difendersi dalle critiche dell’Appendino e guadagnarsi la conferma a presidente pentastellato Conte ha ritenuto di smentire che si sia davvero alleato col Pd della Schlein. L’alleanza, come il cosiddetto campo largo perseguito con ostinazione dalla segretaria del Nazareno, sarebbe anch’essa una forzatura, una espressione o invenzione “giornalistica”. C’è solo una disponibilità a intese, per ora solo locali, nelle quali Conte si propone di essere irriducibilmente “scomodo”. Quanto si presume ragionevolmente che debbano sentirsi anche gli altri, a meno di una loro vocazione non eroica ma masochistica.   

         Sia a livello locale sia, un giorno, a livello nazionale per diventare davvero l’alternativa al centrodestra, come Pier Luigi Bersani raccomanda di chiamare il campo largo sgradito a Conte, rimarrebbe a operare contro il governo uno schieramento com’è quello attuale. Il cui limite di non avere un programma e una credibilità è riconosciuto da una parte consistente del Pd, compreso l’uomo che viene considerato, nei salotti televisivi dove viene invitato, al di sopra delle parti, pronto a dare consigli e rassegnato a non vederli applicati: l’ex presidente del Consiglio e professore emerito Romano Prodi. Che, ospite qualche giorno fa di Lilli Gruber, è tornato ad ammettere che l’alternativa al centrodestra, per quanto diviso anch’esso sulla manovra finanziaria appena proposta al Parlamento, semplicemente e dannatamente non c’è.

Pubblicato sul Dubbio

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