Si definisce di solito “onuano” ciò che accade o si riferisce all’Onu, acronimo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con tutte le maiuscole al loro posto, per carità. Unite nominalmente, in realtà attualmente divise come mai lo sono state in passato.
La democrazia -ripeto- onuana è quella vista in diretta o in differita dai telespettatori di tutto il mondo con lo svuotamento dell’aula del Palazzo di Vetro, a New York, mentre saliva al podio, negli orari e nei modi assegnatigli, il premier israeliano Netanyahu. Al quale numerose delegazioni hanno girato le spalle uscendo, in una fila impressionante quantitativamente e qualitativamente.
Se la guerra che Israele sta conducendo a Gaza contro i terroristi palestinesi dopo il pogrom del 7 ottobre 2023 è “sproporzionata”, anche secondo il governo italiano, che tuttavia non si è unito agli alleati che hanno adottato come reazione il riconoscimento del fantomatico Stato della Palestina, altrettanto sproporzionata credo si possa definire la protesta all’Onu. Rifiutando l’ascolto, che è la prima regola, il presupposto -direi- di una democrazia. O, più semplicemente, di una convivenza civile.
Con quella forma di protesta, intrinsecamente violenta come le piazze devastate lunedì scorso in Italia dai dimostranti filopalestinesi, l’assemblea dell’Onu ha confermato il suo fallimento. Semplicemente e drammaticamente.
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