La condanna del figlio Ciro e tre amici per stupro è arrivata nel silenzio, direi assordante, di Beppe Grillo. Anche sul suo blog personale, oggi impegnato a capire che cosa ci toccherà mangiare fra “bistecche senza mucca e caffè senza chicchi”. A tavola, insomma, siamo messi male come nei tribunali. Dove per arrivare ad una prima sentenza, su prevedibili tre, a carico del figlio e amici del fondatore del Movimento 5 Stelle, ci sono voluti sei anni, tre di “dibattimento”, cioè di processo in aula, e 3 ore di camera di consiglio.
Eppure di questa sentenza siamo solo al cosiddetto dispositivo, occorrendo almeno tre mesi per averne il testo completo, contro cui poter ricorrere da parte della difesa e dell’accusa. Completo cioè delle motivazioni. E questa sarebbe giustizia, pur con la minuscola? Sì.
E’ la giustizia, bellezza, si potrebbe dire evocando la stampa di Humphrey Bogart a Casablanca. E lo sarà, dicono una volta tanto a ragione i critici della omonima riforma Nordio entrata ormai nell’ultima curva dello speciale percorso parlamentare. Nota soprattutto per la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, il raddoppio del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anticorrentizio per la sua composizione e una Corte speciale di disciplina delle toghe, abituate a giudicarsi da sole, a casa.
Nulla -dicono i critici già impegnati a preparare al referendum- per abbreviare il processo. Ma abbastanza, dico io per chiarire ogni equivoco, almeno per migliorarne la qualità. Che non è cosa da poco.
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